17.9.13

George Bernard Shaw: signori, guardate la Duse (di Luciano Lucignani)

George Bernard 
In fatto di pubblicità per se stesso, George Bernard Shaw non è stato secondo a nessuno: GBS divenne una sigla famosa in tutto il mondo quando ancora le varie BB e MM non erano state nemmeno concepite. Lo si può constatare anche semplicemente sfogliando questa raccolta delle sue recensioni teatrali, pubblicate a cura di Erminia Artese (Di nulla in particolare e del teatro in generale, Editori Riuniti, pagg. 212, lire 10.000), dove l' apologia dell' autore non si limita ad intitolare il primo degli scritti che vi compaiono, ma costituisce il pedale di fondo dell' intero libretto. Se confrontate con il migliaio dell' edizione inglese, le duecento pagine di questa italiana potrebbero dare l'impressione di una scelta fatta proprio all'osso. Ma sarebbe un errore pensarlo: se anche le pagine fossero state la metà, il lettore non avrebbe il diritto di sentirsi defraudato. Come infatti la maggior parte dei predicatori - e fra quanti s'industriarono, tra la fine del secolo scorso e la prima metà del nostro, a ficcare le proprie idee nelle teste altrui Shaw fu certamente il più abile e il più brillante, oltre che il più prolisso - egli non ebbe molti princìpi da sostenere; ma lo fece con la stessa tenacia, lo stesso spirito e la stessa intelligenza che mise poi in tutti i suoi sermoni, fossero essi commedie o prefazioni.
La professione di critico teatrale fu per Shaw innanzi tutto un modo per assicurarsi la sopravvivenza. Prima che Frank Harris gli offrisse l'incarico di dar conto degli spettacoli teatrali sulla “Saturday Review”, Shaw aveva recensito le novità letterarie alla “Pall Mall Gazette”, era stato critico d' arte a “The World” e poi critico musicale a “The Star” e ancora a “The World”. A quell'epoca, 1895, era già autore di quattro commedie, delle quali soltanto le prime due rappresentate: Le case del vedovo, Le armi e l’uomo, L'uomo amato dalle donne e La professione della signora Warren. Quest'ultima era stata vietata dalla censura. Da critico musicale Shaw aveva trattato piuttosto male Brahms ed esaltato Wagner (al quale poi dedicò il saggio Il perfetto wagneriano, 1898). Quando affrontò, faccia a faccia, il teatro del suo tempo, non fece fatica a scegliersi amici e nemici.
L' amico prediletto fu Ibsen, che aveva ricevuto da tempo il suo omaggio con La quintessenza dell'ibsenismo (1891); i nemici tutto il resto, Shakespeare in testa. Dal giorno in cui assunse il suo ufficio, Shaw fece delle colonne della “Saturday Review” la sua cattedra e il suo pulpito. Spiegò agli inglesi, spettatori e critici, drammaturghi e attori, che il teatro era importante almeno quanto la Chiesa nel Medioevo. Eretico per natura, decise di profanare qualcosa che perfino gli atei avevano sempre rispettato, ossia la grande e intangibile istituzione inglese che era Shakespeare. Come disse Chesterton, Shaw "fece di qualcosa su cui si giura qualcosa contro cui volentieri si bestemmia"; o, come suggerì Mark Twain, più semplicemente, "gli occorreva un cadavere più fresco cui obbedire"; un uomo morto tre secoli prima che lui, Shaw, venisse al mondo, non poteva pretendere un esagerato rispetto.
Ma a guardar bene, soprattutto oggi, a distanza di quasi un secolo, il cosiddetto "attacco" di Shaw a Shakespeare non era soltanto una manifestazione di arroganza intellettuale; come si può leggere nella recensione a Tutto è bene quel che finisce bene, Shaw si scaglia con veemenza contro l'ipocrisia di cui danno prova gli inglesi nella loro venerazione per l'autore di Amleto. Lasciano che i suoi drammi vengano malamente tagliuzzati e che quanto ne rimane sia poi camuffato in modo da apparire irriconoscibile; il successo dello spettacolo è quasi sempre affidato alla meraviglia delle attrazioni sceniche e alla presenza di interpreti di grande popolarità, e d' una protagonista femminile, possibilmente, famosa per la sua avvenenza. Il risultato produce una noia indicibile, ma, protesta Shaw, "non c'è un'anima che abbia il coraggio di sbadigliare di fronte a quelle imposture". Della pura, magica musicalità del blank verse shakespeariano non rimane traccia, ma questo non scandalizza nessuno, dal momento che gli inglesi sono un popolo di sordi; e invece soltanto i critici musicali dovrebbero occuparsi di Shakespeare, "perché è lo spartito e non il libretto che mantiene quelle opere vive e fresche". Altri obbiettivi della brillante ma feroce polemica di Shaw sono i critici, considerati "al di sotto di qualsiasi antiquato redattore di cronaca nera", gli autori del teatro commerciale, che hanno in Henry A. Jones e Arthur W. Pinero i loro porabandiera, e, naturalmente, la censura del Lord Ciambellano. Un accanimento del tutto particolare Shaw mostra nel combattere l'esibizionismo degli actors-managers, ossia quegli attori-capocomici, proprietari d'un teatro e d'una compagnia, perfettamente intonati, nel gusto e nel repertorio, alla loro personalità più o meno carismatica. Il più prestigioso degli actors-managers fu, nell' epoca di Shaw, Henry Irving, il grande attore dominatore dell' ultimo trentennio del secolo, impresario del Lyceum Theatre dal 1878 al 1902. Ma dalle colonne della “Saturday Review” partono in continuazione strali avvelenati; Shaw non perde un'occasione per prendersela con lui, Irving, con il Lyceum Theatre, con la prima attrice, che è poi Ellen Terry, cioè una delle più ammirate della sua generazione (ma colpevole, agli occhi dell'impetuoso irlandese, d'essere di una bellezza quasi preraffaellita), e con tutti gli altri attori della compagnia, gli scenografi, i costumisti e così via. Un partito preso, evidentemente, al quale non è forse estraneo il fatto che Irving si rifiutasse ripetutamente di mettere in scena le commedie di Shaw.
Eleonora Duse
Ma in ogni caso un partito preso che non risparmiò nessuna delle grandi "star" dell'epoca, Sarah Bernhardt compresa. Con un'unica eccezione: Eleonora Duse. Nei molti passi qui raccolti dalla Artese, nei quali Shaw analizza l'arte della Duse, il critico si riscatta del tutto da acidità e debolezze e dà per intero la misura del suo intuito. Non che scoprire la grandezza di Eleonora Duse costituisca un merito, tutto il mondo si è inchinato davanti a lei (forse l'unica eccezione sono le poche pagine, tra perplesse e deluse, con le quali la ricordò Langston Hughes, lo scrittore americano che, giovanissimo, la vide recitare a New York negli ultimi giorni di vita). Ma l' attenzione che Shaw dedica all' attrice va molto al di là di quanto normalmente, anche oggi, la critica teatrale riserva al modo di recitare d'un interprete, ai mezzi che mette in opera e ai risultati che ne ottiene. "La Duse è arrivata al suo primato grazie anche alla fortuna di aver avuto da una natura severa solo il talento", scrive recensendo La moglie di Claudio di Dumas figlio data al Drury Lane, e aggiunge: "La Duse senza il suo ingegno sarebbe una donnetta qualunque", mentre Ellen Terry o Sarah Bernhardt otterrebbero egualmente un certo consenso, grazie alla loro avvenenza. E a distanza di appena una settimana, in un successivo articolo dedicato proprio ad un confronto fra la Bernhardt e la Duse, scrive ancora: "Quando (la Duse) entra in scena, prendete pure il binocolo da teatro e contate pure quante rughe il tempo e gli affanni hanno tracciato sul suo volto. Sono le credenziali della sua umanità; essa sa fare qualcosa di meglio che occultare questi significativi segni del tempo sotto uno strato di pelle di pesca che si compra dal chimico. Le ombre sul volto della Duse sono grigiastre, non cremisi; le labbra qualche volta sono anch'esse grigiastre, non ci sono tocchi di colore né fossette; il suo fascino non potrebbe mai essere imitato da una cameriera di bar, anche se spendesse tutte le sue risorse per agghindarsi... La Duse è in azione da appena cinque minuti, ed è già un quarto di secolo avanti rispetto alla più bella donna del mondo... La verità è che, nell' arte di essere bella, Sarah Bernhardt è una bambina al suo confronto".
C' è una scena di Casa paterna, il dramma di Sudermann che fu cavallo di battaglia di tutte e due le attrici, che rivela in modo significativo i diversi modi d'interpretazione della Bernhardt e della Duse. Magda, la protagonista, ha avuto in gioventù un figlio da un compagno di studi che poi l'ha lasciata andare per la sua strada. Ora, divenuta celebre cantante d'opera, incontra di nuovo il padre del suo bambino, venuto a farle visita. "La Bernhardt", dice Shaw, "ha recitato questa scena in modo lieve e piacevole: c'era una genuina solidarietà nel modo in cui essa rassicurava l'ex partner imbarazzato, e gli faceva capire che non aveva intenzione di recitare i dolori di Gretchen dopo tanti anni... In quel momento aveva un'enorme padronanza di sé, non è passata un'ombra sull'incarnato color pesca". La Duse, invece, si comportava in modo del tutto diverso: "Nel momento in cui leggeva il biglietto da visita portatole da un domestico, faceva capire che cosa significasse per lei avere un incontro con quell'uomo. Fu interessante vedere come lo visse, quando lui entrò... Si sedettero; lei si rese conto che aveva superato la difficoltà della situazione e che poteva permettersi di pensare a proprio agio, e di guardarlo per rendersi conto di quanto fosse cambiato. Allora le accadde una cosa terribile. Cominciò ad arrossire, e subito dopo se ne accorse, e il rossore crebbe e si diffuse fino a che, dopo qualche vano sforzo di voltare la faccia, o per lo meno di nasconderla a lui, cedette e nascose il rossore coprendosi il viso con le mani. Dopo questo pezzo di interpretazione non devo più chiedermi perché la Duse non si trucchi il viso. Non avrei potuto scoprire nessun trucco in quella reazione; era puro effetto di fantasia scenica". Era anche di più, per la verità: il documento d'un costume certamente diverso da quello che portava in scena l'attrice francese.
Ma a Shaw, allora, questo non importava; e resta il fatto che la sua analisi è d'una straordinaria finezza e prova d'un'attenzione ai modi della recitazione che è raro trovare ancora negli scritti dei critici di professione. Un motivo in più per leggere queste pagine con un piacere che diventa, di giorno in giorno, sempre più difficile provare.


“la Repubblica”, 23 settembre 1984

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