12.9.13

Gigi Meroni. Il breve volo della Farfalla Granata (Giuseppe De Bellis)

Gigi Meroni, con la maglia del Torino, va in gol contro la Lazio
Dal "manifesto" una commossa e commovente rievocazione di Gigi Meroni, calciatore del Genoa e, soprattutto, del Torino nel "favolosi anni Sessanta". Egli fu una magnifica "alla destra", interpretando nel modo più romantico uno dei ruoli più romantici del calcio, purtroppo deperito nelle tattiche in voga nell'ultimo quarto di secolo. Ma, nel suo modo di essere in campo e fuori dal campo, Meroni introduceva la curiosità, l'inquietudine, lo spirito anticonformista dei ragazzi del suo tempo. Morì, anche lui tragicamente, lo stesso anno di Luigi Tenco, il 1967. Sono sempre stato convinto che non fu una mera coincidenza. (S.L.L.)
Gigi Meroni in tenuta beat e il suo autoritratto
Dovunque sia, oggi Cristiana farà arrivare sette rose rosse al cimitero di Como, davanti a una lapide con l'incisione: Luigi Meroni, nato a Como il 24-2-1943 morto a Torino il 15-10-1967. Siamo a quota 245: sette ogni 15 ottobre, per 35, gli anni passati dalla aorte dell'ala del Toro anni '60, del calciatore artista, della Farfalla Granata. Sette come il numero della maglia. Cristiana, la sua compagna, la «bella tra le belle», oggi penserà a quella sera di 35 anni fa, quando «la farfalla sentì arrivare addosso a sé un peso enorme, intollerabile per le sue fragili membrane». Era il peso di un'auto che la colpì, facendole compiere un volo scomposto. «Ogni sua corsa, ogni sua danza si realizzavano del tutto al di fuori delle geometriche evoluzioni... eppure lei era certa, e glielo avevano testimoniato in tanti, che pur non ubbidendo a quei canoni essa esprimeva una propria intima e comprensibile armonia. Ma questa volta la traiettoria non era stata lei a deciderla. Essa se ne vergognò. Pensò che tutto il mondo l'avesse veduta annaspare nell'aria senza ordine e nesso, e si convinse che da quella sgradevole visione tutti avrebbero tratto pretesto per toglierle - per sempre - la dignità di farfalla. Perciò, piena di vergogna e di timore, decise di rimanere per terra. E di non volare più» (Nando Dalla Chiesa, La Farfalla Granata).
Ora tutti sanno che a bordo di quell'auto c'era Attilio Romero, presidente attuale del Torino. Allora era un ragazzetto, tifosissimo granata e in particolare di quel giocatore con i calzettoni abbassati, la barba lunga e il tocco di palla dolce come i gianduiotti. È il dettaglio che ha aumentato l'interesse per la storia di Gigi Meroni, un calciatore fuori dal comune. Ma la vita di questo ragazzo comasco morto a 24 anni, nel pieno della carriera e della sua evoluzione personale, la leggenda la contiene in sé. È per questo che oggi la gente di Torino, o chiunque abbia abbastanza anni per ricordare quel calcio, ricorda Meroni: è sempre per questo che La Farfalla Granata, il libro di Nando Dalla Chiesa ha venduto più di 50 mila copie; è per lo stesso motivo che la vita di Gigi è diventata una piéce teatrale e si sta tramutando oggi in un film per la televisione. Il calciatore beat continua a far parlare, come avveniva quando volteggiava ari campi di serie A, quando incantava la gente e la faceva discutere per i suoi atteggiamenti fuori dal terreno di gioco. Fa parlare le persone comuni, non il sistema del calcio italiano, tutto preso ad autoalimentare la propria spocchia e così poco attento alla memoria.
Ricordare la Farfalla Granata è un tuffo nel passato di uno sport che oggi non è più lo stesso, e di una persona che ne è stata interprete unico. Perché Gigi Meroni era fuori dagli schemi. L'hanno paragonato a George Best. Errore: «non bevo e non fumo», fu la prima frase che scandì ad alcuni suoi compagni del Genoa, nel 1962. Aveva 19 anni, veniva da un campionato di B a Como. Arrivava un ragazzino nella testa e nel corpo. In meno di 5 anni sarebbe diventato un personaggio e avrebbe vinto il premio per il miglior giocatore (1966). Era nato in una famiglia di artigiani, gli studi fino alla terza media, sostenuto dalla madre, rimasta vedova, che manteneva i figli lavorando nel tessile. L'arrivo nelle giovanili del Como, l'esordio in prima squadra, la serie B. Poi subito la A. Tutto d'un fiato: poco più che maggiorenne Gigi Meroni era un calciatore professionista. Innamorato del pallone. Era un'ala, Gigi Meroni. Un'ala pura: dribbling, scatto, finta, assist. E qualche gol. Pochi, all'inizio. Non era importante segnare, quantomeno non era la priorità. Non batteva punizioni, molto raramente rigori: oltremodo facile. «Sarebbe troppo bello entrare in porta con la palla», disse in una delle sue prime interviste. Poco dopo ci riuscì, con la maglia del Genoa, a Bari: uno, due, tre avversari superati e dritto nella rete. Due campionati a Genova, poi a Torino per 350 milioni di lire, cifra record per un giovane come lui. Il fatto è che Meroni era già diventato un campione.
Tra una partita e un'altra, Gigi aveva anche trovavo l'amore. Era Cristiana, giovane ragazza milanese, già con un matrimonio alle spalle. L'aveva conosciuta a Genova, dove lei si sarebbe poi trasferita. Un amore folle tenuto nascosto all'inizio. Per andare a trovarla, Gigi scappava da Torino di notte e rientrava all'alba: «Mi sono innamorato di te, perché non potevo più stare solo/ di giorno volevo parlare dei miei sogni/ di notte parlare d'amor». Luigi Tenco scriveva e cantava, Gigi Meroni interpretava. Pazzie, una dopo l'altra, pur di incontrare la sua donna.
In campo, con la maglia granata, era uno spettacolo a ogni tocco di palla. Fuori una vita riservata, ma vissuta in sella a quello che stava per arrivare. Della cultura beat, del nuovo modo di vivere, l'attaccante del Torino era la personificazione: educato, ma ribelle; aperto e libero. Così, quando Fabbri gli chiese di tagliarsi i capelli per giocare in nazionale A, Meroni si rifiutò: l'aveva già fatto una volta, all'inizio della carriera, nella nazionale B. Adesso che a Torino era tra i giocatori più forti del campionato, voleva essere giudicato per quello che faceva in campo. Ma non è solo questo che ne faceva l'interprete dei sentimenti di una generazione: nella sua mansarda in pieno centro aveva cominciato a dipingere. Amava la pittura, così come la musica. Poi c'era l’abbigliamento: Gigi si disegna a gli abiti da sé. Prima solo le cravatte, poi anche il resto. Occhiali scuri ed enormi, look stravagante: «non creo fastidi a nessuno».
Eppure una parte della critica non accettava. Era condannato a giocare bene, altrimenti attacchi feroci e diretti. Il bello, però, è che su quel prato Meroni si muoveva a meraviglia. C'erano sempre le finte, i dribbling, gli assist. Aumentavano anche i gol. Marcature strette, difensori fallosi: c'era poca speranza se partiva sulla destra e riusciva a prendere un metro. Andare avanti, sempre: Cristiana trasferita a Torino, l'amore vissuto apertamente, le passioni per tutto quello che era estetico sviluppate sempre di più. Gigi Meroni l'artista. Gigi Meroni il bohémien che prendeva e partiva per vedere un posto nuovo. Gigi Meroni lo stravagante che una volta si fece vedere a Como con una gallina al guinzaglio. Poi, però, puntuale agli allenamenti, rispettoso di tecnici e compagni. 
Torino 1967, Il funerale di Meroni
Sempre più amato dalla sua gente, a tal punto che il suo passaggio alla Juventus nell'estate '67 fu bloccato dalla sollevazione dei tifosi del Toro. Quella stessa gente che partecipò commossa al funerale in un pomeriggio datato 17 ottobre.
Oggi sono 35 anni da quello schianto, da quel volo, da quel momento in cui la farfalla decise di smettere di volare: chi ha memoria ricorda, il calcio italiano forse ha dimenticato troppo in fretta.

“il manifesto”, 15 ottobre 2002

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