Lo zio Umberto |
Dai racconti di mio zio Umberto Genovese ho saputo di un vecchio zio o forse di un giovane prozio del suo amico Stefano che s’era trasferito a Licata e lì aveva messo radici. Era arrivata,
via pescivendolo, la notizia che, se non era morto, stava per farlo. Stefano
mise 5 mila lire di benzina nella Bianchina e partì: la vecchia strada, 25
chilometri di curve, con quella ad U al passaggio a livello della stazione di Sant’Oliva.
La
casa era piccola, a pianterreno, così piena di gente, che
qualcuno stava fuori, sulla strada. Ma a Stefano, parente forestiero, fu fatto spazio nella camera da letto. Erano una ventina quelli che avevano trovato posto lì, a osservare il vecchio corpaccione per cui dicevano non esserci speranza e che molti già piangevano per morto. Ma il morto, a
un certo punto, aprì gli occhi, si levò e si mise a sedere. Gridò: “Siete una
masnada di farabutti!”. Stefano commentò: “Sta proprio bene! Ci ha riconosciuti
tutti”.
Non si sbagliava. Dopo quella specie di morte lo zio di Stefano campò per diversi anni ancora: i rari incontri e le notizie del pescivendolo lo rappresentavano generalmente in buona salute, seppure non esente da qualche acciacco dell’età avanzata.
Non si sbagliava. Dopo quella specie di morte lo zio di Stefano campò per diversi anni ancora: i rari incontri e le notizie del pescivendolo lo rappresentavano generalmente in buona salute, seppure non esente da qualche acciacco dell’età avanzata.
Poi arrivò, di nuovo, notizia del suo passaggio a miglior
vita. Stefano trovò sull’uscio della casetta licatese un paio di cugine, figlie del defunto che,
all’uso siciliano, infarcivano il pianto di domande: “Ma come sei potuto morire?
Ma quale fu la disgrazia che ti ha portato via?”.
Stefano, dopo averle
abbracciate e baciate, osò suggerire: “Forse è meglio chiederlo al medico
curante”.
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