8.9.13

L'autoritratto ideale di Petrarca (Ivan Tassi)

Nel settimo centenario della nascita di Francesco Petrarca, “il manifesto” accompagnò la notizia delle celebrazioni con questo saggio di approfondimento. A mio giudizio ottimo. (S.L.L.)

Nel 1374, alla vigilia della morte, Francesco Petrarca consegna con estrema cura, alle carte del codice oggi conservato presso la Biblioteca Vaticana, la redazione definitiva del Canzoniere: si tratta dell'ultimo atto di un monumentale progetto autobiografico inaugurato almeno nel 1342, che trascina nel corso degli anni un inarrestabile susseguirsi di rimaneggiamenti, aggiunte, incontentabili manipolazioni; e che culmina nel libro di versi (originariamente intitolato Rerum vulgarium fragmenta) a cui viene affidata l'esemplare parabola esistenziale di un amante - oltre che di un poeta. 
«La sfinge è scoperta: l'uomo è trovato» affermerà poi trionfalmente, nel 1870, Francesco De Sanctis, in quell'avvincente epopea che è la sua Storia della letteratura italiana, per dare addio ai «miti», alle «astrattezze teologiche e scolastiche» offuscate e sepolte dall'apparizione di questo testo miracoloso. Ma l'uomo che fa il suo spregiudicato ingresso, grazie a quei versi, sulla ribalta della scena letteraria del ‘300 non è inerme, né sprovveduto: la sua stupefacente epifania è sostenuta dagli ingranaggi di un solido progetto, deve essere integrata nei meccanismi di una grande macchina da difesa in cui tout se tient.

In versi e in prosa, il racconto di sé
Per rendersene conto basta del resto pedinare le mosse di Petrarca, riportare a galla il complesso itinerario che gravita attorno alla composizione di alcune forme dei Rerum vulgarium fragmenta e le incorpora in un imponente, solidale sistema: che comprende anche le Epistolae metricae (anteriori al 1350), le lettere Familiares (concepite nel 1345, maturate nel `50 e assemblate soltanto nel `66) e Seniles (rimaste incompiute). Ne emergerà un disegno piuttosto articolato: è come se Petrarca, di anno in anno, si preoccupasse di predisporre pazientemente le carte per guadagnare alla propria autobiografia un legittimo spazio di rappresentanza e architettare, pezzo dopo pezzo, un originale impianto espressivo in cui parlare di sé. In verso e in prosa; in volgare e in latino: perché tutti gli scritti - Familiares, Seniles ed Epistolae in testa - d'improvviso desiderano obbedire all'esigenza di volgersi indietro «e ripercorrere, misurandole ad una ad una, le pene della giovinezza»; vengono chiamati a collaborare con l'orbita autobiografica della lirica in volgare e diligentemente spinti a concentrarsi sulla narrazione della storia di un individuo. Che, per parte sua, non sembrava bisognoso di ulteriori celebrazioni: la «gloria» gli era già stata consegnata, nel 1341, grazie a una fastosa incoronazione in Campidoglio, allestita con ogni scrupolo e preceduta da un favoloso esame effettuato alla corte di Napoli alla solenne presenza di Roberto d'Angiò; era legata alla circolazione di scritti parziali - in latino e in volgare - e all'erudizione conquistata a contatto con l'élite intellettuale avignonese.
Petrarca, all'inizio degli anni ‘40, era già l'uomo «illustre», di cui parla la breve notizia biografica composta nel 1342 dal suo amico Giovanni Boccaccio. Ma questi onori non gli erano sufficienti, come del resto non doveva soddisfarlo la sua maniera di fare letteratura: soprattutto dopo gli avvenimenti di una data cruciale - il 1348 - che, con una terribile peste, aveva sterminato i protettori del poeta; lo aveva privato, al tempo stesso, del suo ruolo privilegiato e dell'oggetto di desiderio, sottraendogli la «Laurettam» che - stando alla notizia di Boccaccio - si diceva egli amasse «ardentissime». Era a questo punto necessaria una decisa inversione di rotta: forse anche per rilanciare la scommessa, e fare in modo che quell'io reso famoso dalla storia e dalla storia stessa detronizzato, riacquistasse l'antico vigore grazie alle procedure della letteratura. Anche se per arrivare alla meta era necessario scavalcare gli interdetti di un sistema repressivo.

Indizi di un diffuso imbarazzo
Si racconta che Ernst Robert Curtius, indispettito dalle reticenze documentarie di Dante Alighieri, abbia sussurrato una volta all'orecchio di Gianfranco Contini: «Dante era un grande mistificatore». Eppure una giustificazione agli accorti silenzi di Dante potrebbe essere rintracciata proprio fra le pagine del suo Convivio, dove il parlare di sé viene bollato come un'operazione illecita e chi dice io risulta condannato a essere sconfitto dall'amor proprio, a contrabbandare un'indulgente menzogna adottando le truffaldine procedure del «falso mercatante». Sembra che Petrarca non fosse all'oscuro di una simile convinzione: perché quando costruisce le strutture di un grande universo letterario sulla base di quella stessa illegittima attitudine autobiografica, pare non riesca ad avvicinarsi alla scrittura senza dover manifestare a più riprese un disagio narrativo insistente e diffuso.
Le correzioni insoddisfatte, le modifiche e i continui rifacimenti a cui vengono sottoposti i lavori del poeta in vista della divulgazione potrebbero essere interpretati come indizi dell'intrinseco, incancellabile imbarazzo con cui la storia dell'ego diviene il centro di una nuova, rivoluzionaria letteratura: ma anche - e in maniera complementare - del talento retorico con cui gli ostacoli e le censure vengono abbattuti uno dopo l'altro e trasformati in maneggevoli credenziali di veridicità. Finché la poesia non arriva ad assumere la potenza liberatoria dell'alibi: consisterà - secondo quanto ci dice il Secretum, un dialogo clandestino ideato nel 1347 e poi più volte rimaneggiato - in una rigorosa, filologica raccolta degli «sparsi frammenti dell'anima» e, pur partecipando della generalizzata arte della menzogna autobiografica di cui parlava Dante, sarà apportatrice di un «vero» che dovrà essere spiato «per sottilissimi spiragli».
E tuttavia la verità non sembra aver nulla a che spartire con la chiarezza: le numerose vicende cantate nel Canzoniere risultano invece al lettore moderno di difficile comprensione. Quando Vittorio Alfieri, nel 1766, durante una visita alla Biblioteca Ambrosiana di Milano, si imbatte in un famoso manoscritto autografo di Petrarca, lo respinge con fiera noncuranza: reazione dovuta non soltanto all'ignoranza giovanile, ma anche al rancore nutrito verso le fredde arguzie di un autore che - racconta lo stesso Alfieri nella Vita - fin dai tempi della Reale Accademia di Torino, il piccolo Vittorio aveva tentato di decifrare (aprendone l'opera «a caso», «da capo, da mezzo, e da piedi») senza mai arrivare a raccapezzarne il senso.
Contro questa spinosa e problematica difficoltà interpretativa metterà in guardia anche Ugo Foscolo, nei suoi Essays on Petrarch, scritti a Londra attorno al 1820; e in seguito, nel 1824, Giacomo Leopardi che, apprestando un commento al Canzoniere, si vedrà quasi costretto a «tradurne» molti passi per neutralizzare le oscurità sprigionate da un complesso sistema linguistico; e infine dichiarerà, sorprendentemente, di aver riscontrato «pochissime bellezze poetiche» lungo il corso di un lavoro complesso e tedioso. Affermazioni strabilianti: corroborate tuttavia da parole dello stesso Petrarca che, dipingendo un parziale autoritratto nell'epistola Ai Posteri, aveva accettato di definire il proprio codice espressivo «fiacco ed oscuro».
La necessità di un commento con cui supportare la lettura del Canzoniere si rivela dunque un'esigenza incontestabile; soprattutto se aggiungiamo che Petrarca, come ammetteva Leopardi - forse ricordando Alfieri - non è uno di quegli scrittori che si leggono dal principio alla fine «seguitamente», «ma qua e là, per lo più a salti e senz'ordine».
L'edizione del Canzoniere ripubblicata quest'anno nella collana dei Meridiani (a cura di Marco Santagata, Mondadori) in occasione di un anniversario importante sembrerebbe lo strumento ideale per scongiurare i rischi di un percorso frammentario, erratico, disorganizzato, che stenta a riconoscere le ingenti, calcolate impalcature strutturali di un poderoso congegno autobiografico: è grazie al suo commento, aggiornato e puntuale, se il lettore può ricostruire la storia sepolta in un alterno e sorvegliato susseguirsi di sonetti, ballate, sestine e canzoni; proseguendo addirittura la tradizione di una lettura parziale o disordinata, senza mai perdere di vista, neppure per un istante, la complessa disposizione sistematica a cui ogni verso partecipa per l'edificazione progressiva di una sorta di «romanzo».
Il lettore non dovrà anzi dimenticare che il racconto del Canzoniere non ha solida affidabilità documentaria: a Petrarca è invece costato le programmatiche manovre di manipolazione referenziale su cui richiama l'attenzione la premessa di Marco Santagata. Forse è proprio questa rigida progettualità ad avere ferito il gusto di Leopardi: non c'è nulla di «vago» nel Canzoniere, ogni tassello del suo splendido mosaico testuale obbedisce alle esigenze artificiali di una macchina narrativa.

Appunti per una conversione spirituale
La libertà e l'orgogliosa insistenza con cui viene infranto il dantesco interdetto all'autobiografia impongono infatti alla scrittura un procrastinato sforzo di controllo e rifondazione narrativa dei materiali biografici e prescrivono al poeta di effettuare dispendiosi esercizi di ingegneria strutturale. Perché qualsiasi gratuito azzardo autobiografico, nella seconda metà del `300, deve essere trasformato in una utile, imitabile «auto-agiografia», magari sfruttando il modello offerto nel V secolo dalle Confessioni di Agostino: soprattutto nel momento in cui la «realtà» degli avvenimenti rischia di trascinare sotto gli occhi del lettore un dissidio - come quello relativo all'amore per Laura - sempre pronto a sconfinare nell'accidia del peccato capitale.
Fin dalle prime battute del Canzoniere, Petrarca chiama allora a raccolta un elitario tribunale di lettori, mobilita le loro abilità perché si dispongano ad assistere a una saggia impresa di ordinamento - etico e letterario. In precedenza, fra le pagine del Secretum, convoca lo stesso Agostino per farsi vietare, in presenza della Verità, la ricerca della gloria poetica (il «Lauro») e dell'eros («Laura»): sulla scorta di una vantaggiosa esortazione alla cura di sé, si affretta poi a radunare e sistemare gli sparsi frammenti della sua anima - le rime in precedenza composte e talvolta pubblicate - per costituire, con un atto spregiudicato e rivoluzionario, un libro il cui fulcro emblematico sia rappresentato da una supposta «conversione» spirituale. E non si preoccupa se poi i suoi versi non saranno affatto degni di comparire al cospetto della Verità: piega, modella, ribattezza le scansioni della propria storia d'amore perché combacino con le equilibrate architetture di una sorta di cattedrale autobiografica; ristruttura, corregge e modifica, nel corso degli anni, precedenti redazioni del Canzoniere. Laddove mettano a repentaglio l'armonia significativa del disegno globale, impone un nuovo ordine agli originari blocchi della sua costruzione; arriva persino a riscrivere la cronologia della propria vicenda per costituire i solenni anniversari di un personale calendario liturgico; e quando gli eventi scarseggiano, non esita ad aggiungere originali invenzioni poetiche alla trama del suo organizzato «romanzo a tesi». Per poi comporre - insiste Marco Santagata nella sua introduzione - un autoritratto ideale, fondato sulla successione di tempi e moduli fittizi; una storia piacevole a leggersi e - come aveva intuito Leopardi - persino più «utile» di un romanzo, dove vita e letteratura (biografia e romanzo, appunto) sono inestricabilmente fusi, nella straordinaria coincidenza di verosimiglianza lirica e menzogna autobiografica.

Il piacere di contemplare un certo errore
Blandito dalla dolcezza dei versi, dal loro «suono», il lettore, per parte sua, non deve far altro che presenziare a una grande, salvifica impresa di mistificazione. Fino ad alimentare il sospetto che il divieto di Agostino - non amare Laura, non essere poeta - venga eluso subito dopo esser stato pronunciato: è anzi il divieto, assieme alla sua complementare esortazione, a permettere e giustificare la peccaminosa epifania del poeta, funzionando come un astuto salvacondotto. Perché Petrarca racconta un progressivo tragitto di emendazione dalle catene passionali ma non si concentra, come avrebbe potuto fare, sul risultato della liberazione; e se da una parte si focalizza sul presente di una conversione ideale, dall'altra si adopera per riesumare il passato «errore», senza riuscire a nasconderci il suo vero piacere: che è quello - dichiarato anche dalle Familiares - di rivedersi; di rivedere e recuperare, assieme al lettore, il meraviglioso oggetto del desiderio con le sue tensioni irrisolte, sdegni, manifestazioni miracolose, silenzi, negazioni e irrimediabili scomparse. La condanna finale della «realtà» perduta riesce pur sempre ad occupare uno spazio esiguo: è comunque la letteratura, l'ordine artificioso del romanzo in versi, a trionfare sulla verità della vita.


il manifesto, 22 giugno 2004

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