15.9.13

Zanzotto critico (Gianni D'Elia)

Andrea Zanzotto
Fantasie di avvicinamento (Le letture di un poeta) (Mondadori 1991): con questo titolo calamitante e autolimitativo, il lettore trova raccolti in volume gli scritti critici di Andrea Zanzotto, o almeno una parte di essi riguardanti autori nati in secoli precedenti il nostro (l'autore indica nella premessa il progetto di altri due volumi, uno ancora di critica su autori del Novecento, l'altro di «poetica minima» sui mutamenti del proprio percorso creativo).
Si tratta di un libro «leggibile» e sorprendentemente chiaro, pur nella complessità di cultura da cui attinge (psicoanalisi e antropologia soprattutto), e questo va detto subito per invogliare quel lettore che della poesia di Zanzotto mantiene una idea di difficoltà, concentrazione e spiazzamento di senso, a partire dalla svolta «linguistica» e glossolalica del suo libro più ostico (La Beltà, 1966).
Il volume si apre con un saggio del 1953 su Montale, e si chiude con un discorso ancora inedito pronunciato a un convegno su Giacomo Zanella, dunque un cosiddetto minore dell'Ottocento. Ma la vera chiusura sublimale del libro sta forse nel penultimo saggio, davvero splendido, sulla poesia di Umberto Saba.
Da Montale a Saba, insomma, così diversi e entrambi così (necessari» al percorso di Andrea Zanzotto: il poeta dell’indifferenza e dei simboli in cui si nasconde il residuo vitale, la maceria geologica dell'esistenza sulla terra; e il poeta di tutta la vita, della fatica di dare un senso chiaro al dolore privato e di tutti. Le descrizioni di Zanzotto non sono affatto di fantasia, ma aprono i testi presi in esame e gli autori a varie sollecitazioni, che si possono riassumere in un interesse stilistico cui corrisponde un fondamento umano, psicologico, e una aspirazione di indagine conoscitiva allargata al tema forte della responsabilità etica della poesia.
Questa responsabilità è dichiarata nel cuore esplicito di questo libro, che fa rimpiangere a ogni pagina il suo italiano netto e ricco, preciso e affabile, nel confronto con il paesaggio della saggistica più superficiale di oggi: si tratta di una responsabilità pedagogica, del tentativo di legare a sé dì nuovo il futuro, e cioè l'infanzia, dell'insistenza da vero maestro con la quale Zanzotto entra nell'animo del lettore per scuoterlo, ridargli il senso di cosa possa essere l'arte della parola: un'arte sociale e comunicativa che può far di nuovo incontrare l'infanzia di ognuno e la poesia dello stupore per ciò che è vivo e degno di amore: «Ancora, il bambino e il poeta (o soltanto certi poeti?) continuano a ritrovarsi nella sovrabbondante, tolta aura dello stupore, riscoprendo in essa brillìi e rilievi di eventi che a molti sono inavvertibili e richiamando in essa anche gli altri uomini».
Siamo alla lode del «particolare», della singolarità anonima capace di riconoscersi nel «dialetto» delle cose. La ricognizione dei rapporti tra poesia e infanzia vive in questo saggio (Infanzie, poesie, scuoletta) in un percorso a tre direzioni: il mito letterario dell'infanzia nella poesia degli ultimi due secoli (il tema del «puer» in Rimbaud, in Pascoli, Ungaretti, Montale, Sbarbaro, ecc.); i tentativi di poesia per l'infanzia, spesso melensi e conformistici, ma anche vitalistici come nel caso analizzato di Gianni Rodari; e la poesia dei bambini stessi, «ricca assai spesso di una fecondità immagnifica e di un impeto espressivo da rientrare nella poesia, al di là di ogni intento artistico».
Zanzotto dà poi una definizione folgorante dell'avventura di Rimbaud, che va riportata per intero: «Certo con questo puer aveva a che fare soprattutto Rimbaud, il "poeta di sette anni", che pur finisce col pronunciare la bestemmia contro la poesia e che prefigura (ed esaurisce nel fanciullo e nell'adolescente travolti dal silenzio, la poesia come rivoluzione-autocombustione d'infanzia, di cui l'adulto e l'adultismo non possono essere il momento successivo, bensì la negazione».
Ma la polemica contro l'adultismo («il più squallido dei miti repressivi», citando Lapassade che ci ricorda che la vita è sempre entrata nella vita, e non uscita in una maturità conformistica) non impedisce a Zanzotto di riconoscere, nel saggio su Saba, l'importanza della convivenza interiore tra «padre e bambino contemporaneamente» nel modello poetico di Dante, identificato con la tradizione più dinamica della nostra lingua e letteratura (ma altrettanto spazio è riservato al «fuoco» e all'«artificio» in Petrarca).
Conferma dell'importanza della critica fatta dai poeti nel Novecento (si pensi a Pasolini), la riflessione di Zanzotto è tuttavia meno ideologica e più cognitiva, attratta dal sapere e dai saperi nuovi, e così la sua linea pedagogica, «orale» e affabulatoria, può sopportare le proiezioni letterarie per radicarsi in una domanda di senso ulteriore, meno letteraria di quanto si sia portati a pensare in un poeta così attento al dato formale.
I saggi su Antonin Artaud e su Henri Michaux sono in questo di una lucicità che procura un vero entusiasmo di riconoscimento, radicando il pensiero poetico nel corpo e nella psiche di queste due avventure ai limiti dei linguaggio (e cioè, per Zanzotto, ai limiti della conoscenza razionale): forme e rifiuto delle forme, stile e contestazione magmatica dello stile.
Di grande interesse anche la ricognizione sul'Ottocento italiano, con un Manzoni grande prosatore e inventore di ritmi nuovi nel romanzo, meno convincente nella legnosità metrica delle sue poesie corali: e poi Leopardi, spaventoso non tanto per il suo pessimismo e lo stato terribile del suo corpo, quanto per l'energia vitale sorprendente che lo condanna a sentire la vita come desiderio a lui non disponibile e furente; e infine l'infermità della persona e la voglia di combattere di Foscolo, nostro attualissimo contemporaneo, in un tempo in cui non sembra rimasta intatta più nemmeno una causa per cui lottare.
Parlando delle sue letture (numerose e, come si è accennato, per niente ridotte all'italianità: Conrad, Eluard, Lorca, Pessoa, Tolstoj, Rumi, Virgilio, lo haiku giapponese), Zanzotto ci dice dunque molto di sé, del proprio percorso tra i libri e la vita, del suo interesse per tutto ciò che è sorgivo, originario, natale, parentale, infantilmente autentico e onesto.
I saggi su Montale e Ungaretti sono, per l'aspetto di agnizione estetica, fondamentali, ma anche quelli sui «minori» del Novecento come Solmi, Noventa, Marin, Jahier, Betocchi sono indicativi di una certa evoluzione che qui non si può che accennare, che lo sposterà da una poesia elegiaca e «chiusa», a una poesia che assumendo i linguaggi del sapere acquisirà la dimensione storica e cognitiva che la critica gli ha riconosciuto, passando da una raffinata e postuma poetica ermetica (l'assenza dietro la presenza del paesaggio) a una antropologia plenaria della poesia come forma di conoscenza del negativo, da indagare con forza ma con forza maggiore da oltrepassare.
Anche l'avvicinamento critico, infatti, sembra presupporre e confermare quel «ricchissimo nihil» che la sua poesia ha da tempo accostato, scoprendo all'interno delle spinte distruttive del singolo e dell'epoca, la fonte insospettata di una «mondiale tenerezza», di un'altra storia e natura.


“il manifesto”, 13 settembre 1991

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