Lidia Storoni Mazzolani è
soprattutto conosciuta come storica del mondo antico, ma fu anche scrittrice e
memorialista di grande forza comunicativa come dimostra l’articolo che segue
sulla Roma occupata dai tedeschi nel corso della Seconda Guerra Mondiale e
sulla sua liberazione. (S.L.L.)
LIdia Storoni Mazzolani |
Quella mattina uscimmo
prestissimo: saranno state le sei. Il sole tagliava ombre nere sul selciato.
Avevamo passato la notte in casa di amici, per paura di rappresaglie dei
fascisti nelle ultime ore: porteranno via ostaggi, si diceva, combatteranno
casa per casa, faranno saltare i ponti. Quante volte l'avevo guardato, Ponte
Sant'Angelo, in quei mesi; di notte mi apparivano davanti, come se li vedessi
per la prima volta, gli edifici, le chiese che non avrei sopportato di vedere
distrutti. Meglio che vada giù casa mia, mi dicevo.
Da quando il coprifuoco era stato
anticipato dalle 19 alle 17, dalle finestre vedevo una città deserta. In quella
solitudine da "ultima spiaggia", palazzi, fontane, colonne avevano l'immobilità
astrale d'un De Chirico. Di notte il silenzio, interrotto a volte da colpi di
fucile, era tale che si percepiva il mormorio del Tevere.
L'ultima notte s'era sentito il
fragore dei camion che procedevano ormai con i cerchioni, senza più gomme;
portavano al Nord soldati stremati dalla resistenza sotto Roma, che durava da
venti giorni. Avevano incominciato a passare da un paio di giorni, il fucile
tra le mani, occhi di ghiaccio fissi nel vuoto. La gente li guardava in
silenzio. In un giardino, su una panchina, c'era un uomo anziano con un
bambino. Un soldato tedesco si lasciò cadere sull'erba accanto a lui, si tolse
l'elmetto che gli aveva lasciato un solco sulla fronte, disse: "A casa, anche
io bambino come questo". L'uomo, con l'impassibilità del romano che non si
stupisce mai di niente, rispose: "Bè, mò che vai a casa ne fai un
antro". L' indomani non c'erano più. I primi americani della V Armata li
incontrammo in via Vittoria Colonna, il mitra imbracciato. Avanzavano lenti, a
gruppi, con un sorriso incerto; e la gente che incominciava a sciamare dalle
case li salutava ancora timidamente: non riusciva a credere che l'incubo fosse
finito. L'entusiasmo esplose più tardi nella giornata, quando sfilarono per il
Corso e si recarono a San Pietro; buttavano sigarette Camel e caramelle, che
venivano accolte avidamente; nell' esultanza si insinuava un'ombra di vergogna
per quella libertà regalata insieme alle caramelle. Pochi giorni dopo, quella
vergogna trovò espressione in una frase amara e tagliente che fu scritta su i
muri: "Aridatece er puzzone" ("Come si traduce?", mi
domandò il giornalista americano Matthews; "va bene"we want the
Stinker back?""). No, pensavo, non andava bene: il romanesco si
traduce soltanto in latino.
A Via delle Convertite c' era sul
marciapiede una pozza di sangue scuro, vischioso: "Hanno ammazzato un
tedesco", diceva la gente, "forse un disertore isolato". Ci
camminavano sopra e in breve lo assorbirono sotto le scarpe. Qualcuno raccontò
di ultime brutalità dei fascisti: un morto a Piazza di Spagna, due allievi
della Finanza massacrati; ma nessuno dubitava che quelle fossero le ultime, per
sempre. Eravamo storditi; miracolosamente incolumi, nella città miracolosamente
intatta, alla vigilia di ciò che era stato atteso, auspicato per tanti anni, ma
non sapevamo come sarebbe stato; e nell'esaltazione serpeggiava una vena di
sgomento. Sembrava che tutti avessero dimenticato i mesi trascorsi, vissuti,
sofferti in una tensione estrema.
Dall'8 settembre molti ebrei e
antifascisti - tra i quali mio padre e mio marito - avevano trovato ospitalità
presso amici. "Mezza Roma", si diceva, "abita in casa dell'altra
metà, che però ha cambiato indirizzo". Era meglio non sapere dove, nel
caso qualcuno di noi fosse interrogato. Il 16 ottobre ci fu la deportazione
degli ebrei. Mio padre venne in mattinata ad affidarmi la bambina di mia
sorella Luisa. Il babbo, Gastone Piperno, era israelita e vigilato politico. Fu
la prima volta, dopo la morte di Luisa, che lo vidi con gli occhi rossi. Nel
pomeriggio venne Manlio Lupinacci, sconvolto: "Un fatto come questo",
ripeteva, "nella patria del diritto e della cristianità". "Il
papa si presenterà alla stazione, come ha fatto a S. Lorenzo", dicevo,
"si farà portar via con loro...". Speravo che lo facesse. Non
sapevamo ancora nulla dei lager eppure, come fu scritto su “Italia Libera”, l'
organo clandestino del Partito d'Azione, "non era più odio il nostro, era
orrore".
Il 23 gennaio ci fu lo sbarco
d'Anzio. Mi ero resa conto che c'era qualcosa di diverso: un rombo cupo,
intermittente, a sud, con vampe improvvise: era il cannone. Non lo schianto
delle bombe lanciate dagli aerei, non la luce arancio dei bengala che
illuminavano gli obbiettivi - Viterbo se era a nord, i Castelli se a
mezzogiorno, Civitavecchia se il vento del mare li portava dietro San Pietro;
la cupola si stagliava nera contro quell'aurora boreale. Radio Londra disse che
era avvenuto uno sbarco così vicino che si scorgeva l'Urbe: ma dov'erano?
Passavano ambulanze improvvisate dov'erano adagiati i feriti con bende insanguinate:
li portavano all'Ospedale di Santo Spirito, segno che gli scontri erano stati
molto vicini e le attrezzature sanitarie insufficienti. Li fermarono. E sembrò
che la situazione dovesse durare così per sempre.
Il 23 marzo ci fu l'attentato di
via Rasella. Era stato preceduto, preciserà il colonnello delle SS Kappler al
suo processo, da una trentina di altri, seguìti da altrettante fucilazioni:
dieci contro uno. ;-quella notte i tedeschi prelevarono dalle carceri coloro
che il Comando condannava a scontare un atto che non avevano commesso, una
sessantina di antifascisti indicati dal questore, Caruso, 73 ebrei, altri
scelti a caso: un ragazzo di 14 anni, uno di 17, uno di 18, una intera famiglia.
Mario Pannunzio, che vi si trovava, ci raccontò poi che si aggrappavano alla
porta delle celle, disperati, urlando. Furono assassinate nelle ore che
seguirono 335 persone, senza processo, senza sacramenti, senza sepoltura. L'
indomani, il “Messaggero” pubblicò un breve comunicato: "Alcuni comunisti
badogliani", diceva, "avevano ucciso 32 camerati germanici e il
Comando aveva ordinato la rappresaglia". L' ordine, terminava, è stato
eseguito. Poche sere dopo, da Radio Londra, udimmo la voce venata di pianto di
Paolo Treves: si chiedeva se fra quei morti c'eravamo anche noi.
Al processo, quattro anni dopo,
Kappler, che aveva comandato i plotoni d'esecuzione, raccontò come aveva
insegnato ai soldati a mirare alla nuca dei prigionieri inginocchiati, le mani
legate, a cinque per volta; aveva incoraggiato o costretto i suoi uomini a sparare; offriva loro del
cognac. Si davano il turno, precisò, quando andavano a pranzo.
Un mese dopo seppi che a Santa
Maria Maggiore c'era una Messa di suffragio. Commisi l'imprudenza di andarci
con la bambina per mano e scampai alla sparatoria che seguì solo perché m'ero
allontanata prima che la Messa finisse.
C' era chi non aveva paura.
Umberto Zanotti Bianco, magro fino ad essere trasparente, provvedeva ad
allestire piccoli ambulatori di fortuna nelle scuole, dove erano alloggiati gli
sfollati dei paesi evacuati. Dormivano per terra, separati da tende, tormentati
dalla scabbia e dai pidocchi. Portammo siringhe, disinfettanti, saponette allo
zolfo, un po' di biancheria usata: gli scaffali dei negozi erano vuoti. Li
assisteva una crocerossina dal viso doloroso e impenetrabile, Bianca Lusena; le
avevano fucilato il fratello, ma non ne era certa. Davanti al Comando tedesco,
al Corso d'Italia, c'era sempre una lunga fila di persone che chiedevano se un
loro congiunto era stato deportato o ucciso: non era rincasato; oppure, alle
carceri, era stato rifiutato il pacco.
Le contadine sfollate non
rimpiangevano tanto le loro case - contenevano così poco! - quanto i campi:
"vedessi, signorì, che carciofi avemo lassato! e l'uva pure veniva
bene...". Le vigne, i tedeschi le avevano infarcite di mine, tanto che le
viti rimasero a lungo aggrovigliate a terra; fecero più vittime le mine che le
bombe. Lungo le strade da Napoli a Roma alberi bruciati, macchine rovesciate
nei fossi; l' asfalto era bucherellato dalle mitragliatrici degli aerei. Avevo
percorso la Casilina in dicembre in condizioni da romanzo, con uno strano frate
passionista che a Fiuggi, dove finiva il trenino, aveva chiesto un passaggio a
un ufficiale tedesco al quale io dissi - in latino - che mio marito era
prigioniero.
Fu molto cavalleresco e mi trovò
da pernottare nel Seminario di Ferentino, evacuato; in effetti, mio marito
aveva cercato di passare le linee, ma era rimasto bloccato a Ceccano. Dopo una
notte trascorsa su una sedia, durante la quale sentii transitare sferragliando
quello che mi parve un esercito (mi chiedevo se era la ritirata), nell'alba
gelida mi affacciai alla porta. Una divisione tedesca si dirigeva verso nord:
automezzi sforacchiati dai colpi, senza parabrezza, gomme lise, divise lacere.
Avevano ammucchiato sui carri armati le povere cose racimolate nelle case:
materassi, coperte, bacinelle e vasi da notte di ferro smaltato, macchine da
cucire.
Il Passionista, dichiarando che
ero sua sorella, incantò di frottole l'autista d'una macchina blu diretta a
Ceccano: era del Questore. L'indomani notte rientrammo a Roma a fari spenti, su
un camion carico di farina, olio, legumi: beni che sarebbero costati la
fucilazione a uno di noi. Mio marito scaricò sacchi e damigiane in casa del
Questore di Roma e prese la mancia. Verso sera capitava spessissimo da noi
Giuliana Benzoni; dormiva su un divano, mangiava con noi poco e male -
"nella frittata", si diceva, "se ci metti anche un uovo viene
meglio". Teneva i contatti tra i clandestini di tutti i colori, mi
affidava le incombenze più strane: portare documenti, trovare di che vestire
sette prigionieri russi nascosti nell' Ospedale Fatebenefratelli, dove i malati
immaginari erano molti. Non era facile, ma riuscivo.
La fonte inesauribile degli aiuti
- e anche di conforto morale - era casa Bulgari. Vidi a casa mia in quei giorni
alcuni del Comitato di Liberazione del Nord, che non conoscevo ancora: Manlio
Brosio, Giustino Arpesani. Ogni partito aveva i suoi rifugi, i suoi luoghi d'incontro;
giravano con certe barbe e certi occhiali scuri che avrebbero insospettito
chiunque; forniti, tutti, di documenti intestati a persone che vivevano nelle
zone liberate, Napoli, Sicilia; bastava cambiare la foto e darsi un accento del
Sud.
Un amico greco - che poi diventò
ministro, Averoff - nel portare in salvo un prigioniero inglese fu fermato da
un poliziotto che era del suo paese, disse, e conosceva i suoi: quelli del vero
titolare delle sue carte, abitante a Spezzano Albanese, un paese di lingua
greca. Leone Cattani mi portava le copie di un piccolo "Risorgimento
Liberale" che lasciavo nelle cassette delle lettere. La gente era
solidale: quando i tedeschi sbarrarono Corso Vittorio per catturare gli uomini
e portarli a scavare trincee (le donne li circondavano dicendo: "dammi l'indirizzo,
il telefono dei tuoi, li avverto io"), portieri e negozianti delle stradette
attorno si fecero all'uscio mentre passavo, sussurrando: "Sora Lì, nun fà
uscì l'avvocato, stanno a fà la retata!".
Una mattina presto andai con mio
padre ad abbracciare Natalia Ginzburg; Leone era morto in carcere quella notte.
Viveva in una pensioncina presso la Città Universitaria. Tremava di freddo, le
mani gonfie di geloni; i suoi bambini erano a Torino, non ne aveva notizie.
Leone fu sepolto nel cimitero ebraico dove, poche settimane dopo, deposero
Eugenio Colorni: un loculo chiuso da cemento, senza nome. Ma io sapevo dov'erano.
Sono passati quarant'anni. Rivedo
tutto in technicolor; tenebre fitte o luce nitida, mai la nebbia. Nelle
giornate eguali d' un anno, negli anni d'una esistenza, si vive, si è se stessi
poche volte o una volta sola. Per molti, quel momento fu il 1944. Affetti,
dedizione, paura, speranza furono sentiti con intensità mai superata; c'era tra
tutti una solidarietà fraterna che rancori e competizioni cancellarono presto.
Eravamo ingenui, manichei: tutto il bene di qua, tutto il male di là. Molti
valori erano ancora tali. Come in una radiografia interiore, s'era visto il
meglio e il peggio di ognuno. Privazioni e dolori erano compensati da tanta
generosità e consolati dall'umorismo d'un popolo capace di eludere ironicamente
ingiunzioni e divieti. Furono giorni atroci e luminosi.
"Ed è subito sera".
“la Repubblica”, 26 maggio 1984
Bellissimo, da far leggere nelle scuole, ai ragazzi dell'ultimo anno, e possibilmente ai loro genitori e nonni.
RispondiEliminaE far leggere anche libri della Storoni, precisi affascinanti chiari e con fonti e riferimenti indicati in modo facile e preciso.