23.10.13

Frank Capra e l'America (Romano Giachetti)

Un vecchio articolo dà conto – con appropriate citazioni - della riedizione dell’autobiografia di Frank Capra, il grande regista americano nato in Sicilia ed emigrato bambino negli Usa. Mi pare ancora di qualche utilità. (S.L.L.)

Il cinema di oggi? "Quello americano è una bolgia che descrive l'America come una pestilenziale contrada dove trionfano gli edonisti, gli omosessuali, le lesbiche, i maniaci sessuali, i marchesi de Sade, i drogati, i liberali della domenica, i beautiful people, gli anti-Cristo, i pagani, i sommozzatori del peccato, gli accoltellatori, gli stupratori; dove Dio è morto e la Patria sta per fare la stessa fine". Tutto questo lo dice, anzi lo ridice (aggiungendoci un aggiornamento nella stessa chiave) Frank Capra, l'ottantottenne regista che negli anni Trenta e Quaranta regalò al mondo Accadde una notte, Mr. Smith va a Washington, E' arrivata la felicità, La vita è meravigliosa.
E che lo dica e lo ripeta lui, cantore della vita semplice, difensore dell' uomo comune e profeta della bontà, non stupisce.
Ma quanti Frank Capra, quanti John Doe, quanti George Bailey e Jefferson Smith, quanti esseri umani simili ai suoi personaggi esistono ancora nell'America di oggi, capaci, se non di applaudirlo, di ascoltarlo? A giudicare dal successo che sta riscuotendo la nuova edizione, riveduta e ampliata, della sua autobiografia, The Name above the Title (Vintage Books, pagg. 513, dollari 9,95), che uscì per la prima volta nel 1971, la platea di Frank Capra è ancora vasta. Il libro giunge in un momento in cui l' America, presa com'è dal riesame dei "valori" tradizionali contrapposti al furore tecnologico che vorrebbe spingerla a velocità vertiginose nel ventunesimo secolo, si domanda se qualcosa - nell'incalzare di questo modernismo - non stia per essere irrimediabilmente perduto. Potrebbe essere proprio quel qualcosa che costituisce la fede di Capra.
Che cos'è, questa fede? E perché oggi torna a far presa sulla gente? Nella vita e nelle opere, Capra rappresenta quella "parabola ideale" che all'inizio del secolo (ma anche dopo, in un certo senso anche ai nostri giorni) era la parabola "tipo" dell'emigrante che percorre tutta la strada dalla povertà alla ricchezza, dall'analfabetismo alla cultura, dall' anonimato al successo. Il modo con cui il regista, non solo nei film ma nella sua stessa autobiografia, ha descritto questa ascesa è sempre stato ritenuto "populista, ultrasentimentale, favolistico, strappalacrime ed edulcorato". In effetti, a pensarci bene, è proprio così. Jefferson Smith (James Stewart) va a Washington e ne sconfigge tutta la corruzione (appoggiato dai boy-scout!). Longfellow Deeds (Gary Cooper) è il giovanotto che in E' arrivata la felicità eredita venti milioni di dollari e li distribuisce tra i poveri. E poco importa che lo stesso Cooper, dopo il film, dicesse: "Vorrei proprio sapere dove sta un Longfellow Deeds": Capra continuò a parlare del suo paese adottivo come del "paradiso terrestre", la terra dove "gli animi buoni si incontrano e superano tutte le ideologie, tutte le interferenze politiche". Era il paladino del "sogno americano" e a quel ruolo non avrebbe rinunciato mai. Infatti ha detto: "Il giorno in cui io e gli uomini come me constateremo che quel sogno è tramontato, l'America sarà finita".
Nato nel 1897 da una famiglia contadina della Sicilia, Frank Capra festeggiò il suo sesto compleanno nella stiva di un piroscafo diretto in America. Lo accolse la "terra delle meraviglie" (oggi aggiunge: "E non mi avrebbe deluso") - meraviglie che, tuttavia, il ragazzo faticò a scoprire. Lavorò in una fabbrica siderurgica e in una miniera di rame, vendette giornali e mele agli angoli delle strade, fece il guardiano notturno e imparò a giocare a poker. Più tardi, già laureato in ingegneria chimica (quindi già immerso nel "sogno americano"), arrivò a Hollywood, bluffò spacciando per suo un copione ricavato da Kipling (dunque era già consapevole dei "trucchi" che il sogno esige) e sentì di aver messo piede sul "tappeto magico del cinema". "Ebbi fortuna", scrive.
"Ottimista per natura, esuberante come si è esuberanti da giovani, imparai il mestiere e trovai appoggi in Hal Roach, Will Rogers e Mack Sennett. Poi conobbi l'artista al quale devo tutto: Harry Langdon". Nel 1922 diresse un documentario, nel 1923 il primo film. Trentasei film; e trentotto anni più tardi, dopo essere passato di successo in successo ed aver vinto quattro Oscar, dovette piegarsi al compromesso, con il film Pocketful of Miracles (Angeli con la pistola). "Avevo sessantaquattro anni e dovetti scegliere tra la mia coerenza artistica e il denaro. Scelsi il denaro". Pocketful of Miracles è l' ultimo film di Frank Capra (1961): un' esperienza per lui avvilente, che lo vide soccombere davanti al nuovo modello dell'attore-produttore (Glenn Ford) e alle esigenze di un cinema che, dice, "mi pareva di non capire più". Il film non ebbe successo, né di critica né di pubblico; e Capra, disperato, si domandò: "Dove sono i miei simili? Perché non sono venuti a vedere il mio film? La speranza ha dunque abbandonato il popolo americano?".
C' è del patetico, in questo grido; ma non dimentichiamo che quelli erano gli anni Sessanta: il mondo di Frank Capra e il "sogno americano" venivano fatti a pezzi da una generazione che "non credeva più alle favole", e dall'America stessa, che andava impantanandosi nel Vietnam. Capra alzò le braccia, si ritirò a scrivere la storia della sua vita e, nel farlo, emise giudizi terribili sul presente; ma seppe anche - con una prosa scintillante che ricorda i momenti più brillanti delle sue "commedie" - mettere insieme una ghiotta aneddotica sul mondo di Hollywood.
The Name above the Title (Capra ci teneva a ricordare che il suo era stato il primo "nome collocato sopra il titolo" di un film) contiene giudizi e racconti divertenti. Per esempio: "Harry Cohn era un produttore che amava frastornare la testa a tutti"; "Barbara Stanwyck era una donna che respingeva chiunque"; "Jean Arthur era così nervosa che prima di andare sul set vomitava".
Racconta anche la cronistoria di Accadde una notte, che Clark Gable interpretò perché esiliato alla Columbia da Louis B. Mayer ("aveva commesso un peccato mortale: aveva chiesto più soldi") e Claudette Colbert perchè Myrna Loy, Margaret Sullavan, Miriam Hopkins e Constance Bennett avevano rifiutato la parte ("e molta gente, dopo, si morse le unghie").
Ma l'"esilio in patria" in cui Capra fu ridotto dopo Pocketful of Miracles è anche, come egli scrive, "l' esilio di una generazione e di un certo mondo". Che cosa li sostituiva? Appesantendo ciò che aveva scritto nel 1971, il regista oggi nota: "Volevano demolire la baracca americana: abbasso Dio, viva il denaro e il piacere, viva lo scambio delle mogli, abbasso la morale. La nuova generazione di registi è nata con questo canto nella mente. Se noi eravamo degli spostati che erano finiti a Hollywood quasi per sbaglio, loro erano gli ex galeotti (imprigionati per spaccio di marijuana o per reati anche più gravi) che conoscevano non già le strade del duro lavoro, ma le fogne della criminalità, della corruzione, di tutto ciò che è perverso. E lo chiamavano nuovo realismo!".
Scrive ancora: "Il cinema non è più un mezzo per migliorare la razza umana: è pornografia, è qualcosa che fa dar di gomito agli spettatori, oppure è horror, violenza esaltata. Anche oggi si ride, ma non come ridevamo noi. Noi avevamo coraggio, sapevamo immaginare l'impossibile: andare al cinema significava acquistare fiducia in qualcosa, non già andare a vedere un fattaccio di cronaca nera interpretato da un paio di divi... Mi rifiuto di pensare che l' America sia diventata questo; è il cinema che non ha più anima".
Il vecchio emigrante siciliano difende la propria vita e la terra dove l' ha vissuta. Molti, oggi, prestano orecchio a questa sua difesa, forse riflettono. Nella vecchia e nella nuova edizione del libro (separate da, un periodo tra i più burrascosi), Frank Capra conclude esortando così i suoi connazionali: "Forza, amici! Se ce l' ho fatta io, ce la possono fare tutti. Le porte possono aprirsi per chiunque. Basta volerlo". Sarebbe bello, se la vita fosse davvero "meravigliosa".


“la Repubblica, 26 aprile 1985 

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