26.11.13

Galline bianche e galline nere (di Giovanni Faldella)

Giovanni Faldella (1846 – 1928) di Saluggia, nel vercellese, avvocato figlio di medico, nella sua vita abbastanza lunga riuscì per qualche tempo deputato, ma la fama sua è soprattutto letteraria: uno scapigliato di provincia, la cui ribellione consiste assai più nello sperimentalismo linguistico che nei modi di vita.
Gianfranco Contini gli riconosce, rispetto ai suoi amici letterari, il Boito, il Camerana, il Giacosa, il quasi coetaneo e quasi compaesano Cagna, una solidità narrativa, che mi pare evidente anche in questo bozzetto che viene dalle Figurine pubblicate prima nella “Rivista minima” e poi in volume nel 1875.
Lo riprendo dal benemerito sito “liber liber”, che a sua volta utilizza l’edizione Bompiani del 1942. (S.L.L.)



Al prof. Giuseppe Cesare Molineri. — Sono magre queste galline, e poco accomodate alla tua amplitudine; ma le mando a te, perché mi facesti l'onore di introdurle al mercato dandole come tema di composizione italiana ai tuoi scolaretti di una volta.
«Il vero galateo non istà mica nel sedere sull'orlo di una scranna tenendo la persona impettita e formando degli angoli retti in modo da sembrare una sedia sovrapposta a un'altra sedia: non istà nel torcersi, nel musare, nello scappellarsi e nel figurare una cartolina di visita ambulante, ecc. No. Il vero galateo è puramente e semplicemente la moneta spicciola di quel biglietto da lire mille che è la Bontà. E siccome tutti gli uomini possono pretenderla a galantuomini, cosí trovo che è una vera birboneria il chiamare villani gli screanzati.»
In questa sentenza è solito a tuonare nella retrobottega dello speziale il cavaliere Cristoforo Verbena, professore di ginnasio giubilato, il piú grande inzuppatore che si conosca nel villaggio di Paperaglia, come quegli che non potendo piú insegnare umanità agli scolaretti si sfoga spietatamente a dar lezioni ogni giorno alla serva, allo spaccalegna, al medico, al curato, insomma a
tutti i cattivelli che cascano sotto la sua eloquenza.
Egli ha riempito un intero canterano di scartafacci scombiccherati da lui e che contengono diverse opere eruditissime e profondissime, fra cui I Paradossi Perpetui, una Maccheronea Classica, e poi un lavoro importantissimo sul Latino di Sacristia. Intorno a questi zibaldoni da qualche tempo i topi hanno posto un assedio regolare per giunger a leggerli, e non ci sono ancora riusciti, perché il professore li sbaraglia periodicamente sprangando quattro calci al giorno contro il cassettone.
Il Professore non ha fatto stampare mai un rigo di suo per quel miscuglio di orgoglio e di viltà che ingombra l'animo di coloro, i quali non hanno peranco rotto il ghiaccio con il pubblico. E sí che gli batte il cuore ben forte, quando vede comparire il suo nome a caratteri di Guttemberg sulla fascia di una gazzetta o nella lista dei giurati. Egli ha fiducia che lo stamperanno e lo loderanno i posteri. Pover a lui! I posteri sotto le forme di nipoti o di cancellieri di pretura nel compilare l'inventario di una eredità abbruciano le scritture letterarie o filosofiche come carte di niun valore e conservano soltanto gli istrumenti notarili e i contratti di locazione debitamente bollati e registrati.
Tornando all'aforisma del professore Cristoforo Verbena, ecco il fatterello, con cui egli lo ha chiosato e autenticato nel suo libro dei Paradossi perpetui, che mi lasciò scartabellare.

* * *

In una borgata delle Langhe, dove andò a marito una delle molte serve del Professore, c'è una via, che il Sindaco conte Simonella intitolò a se stesso, sicuro di immortalarsi facendosi scarabocchiare in nero di fumo sui canti; ed in questa via ci sono due case vicine senza intercapedini, epperciò formano una casa sola, detta la Casa Lunga, la quale presenta il fianco alla strada e volta la faccia e l'aja al sole di mezzogiorno.
Nella Casa Lunga vivono due famiglie di contadini benestanti, cosidetti particolari nei villaggi piemontesi, incapaci di far del male ad una mosca o di frodare un soldo a chicchessia, foss'anche esattore. Eppure fra queste due famiglie crepitava un'izza secolare, che non si poteva ammutolire né con merende nel prato, né con inviti a nozze o a battesimi, o al pranzo del maiale, un'izza da guelfi e ghibellini, da classici e romantici; e tutto ciò per questioni di galline, le quali non sono già affarucoli da due man di nòccioli, ma formano il piú bel capitale e la poesia piú cara delle campagnuole massaje. Per loro sono addirittura crisi ministeriali e trattazioni diplomatiche il porre la tacchina in cova, il levare la pipita ai galletti, lo strapazzare la chioccia che non governa a dovere i pulcini e altrettali ciùffole. Figuratevi come dovevano tipizzarsi le femmine di quelle due case, che
tenevano l'aja in comune e si trovavano ad avere il loro serenissimo pollame sempre confuso in un buglione. Fossero venuti gli zingari o fosse calato il nibbio a ghermire una capponessa, niuna di loro
voleva sopportarne in pace il manco; ci era subito di sotto una maccatella della vicina, onde si mandavano e si rimandavano delle parole e delle accuse atroci che levavano il pezzo: si rifiutavano persino il prestito del mortaio, il pepe e il fuoco, come nelle scomuniche maggiori.
Si era tentato di spegnere quelle guerre contrassegnando i polli con calze e trappole di coloritura diversa; ma i polli le bezzicavano, le stracciavano, le sparpagliavano e ritornava il caosse di prima. Finalmente, come Dio volle, il mestolo di una di quelle due case capitò nelle mani di Menica, che era una bellissima e bravissima nuora bionda. Fu dessa che scoperse l'America, cioè suggerì che l'una famiglia allevasse soltanto polli bianchi e l'altra tenesse solamente dei polli neri: così sparirebbe via ogni pericolo di garbugli gallinacei. Si mise in pratica la pensata della Menica ed in effetto comparve l'arcobaleno fra le due case.
La Menica era un Dio in terra o, come si dice adesso, una specialità nello sperare le uova e conoscere se erano gallate, e, quel che conta di piú, a forzare le galline a farne eziandio d'inverno per amore di certo mangime caldo, di cui essa sola aveva la ricetta. Portava una passione straordinaria al suo pollame che era il nero e soprattutto ad una pollastrella battezzata la Nana per antonomasia. Quando ministrava il becchime di vagliatura sull'uscio di casa faceva sempre che la Nana ne inghebbiasse di piú che le altre, le quali teneva crudelmente indietro con una frasca sbraitando rabbiosetta: Sciò! sciò!
Alla vigilia della festa del paese venne a casa in permesso il figliuolo del notaio, che era un bell'ufficialetto dei Bersaglieri. Accadde che egli inciampò la Menica per via, e come porta l'usanza, fu lesto a rincantucciarla e a bisbigliarle un mare di galanterie e di dichiarazioni amorose. La Menica lo ascoltò quieta ed estatica, cosicché il mal bersagliere credeva fermamente di averla conquistata, ed invece essa aveva pensato in tutto quel mezzo tempo a nient'altro che alla sua Nana; tanto era vero che di lí a poco scoteva di soprassalto dalla sua testa le fantasticherie, piantava in asso l'ufficialetto, e trottava difilata nella sua corte. Quivi buttò subito attorno i suoi occhioni da Lucia Mondella per scoprirvi la Nana... E la Nana non c'era piú. La chiamò, la cercò in casa, nell'orto, nel pollajo, nella stalla, sul fenile, dappertutto...
«Nana! Nana bella!... Nana d'oro...»
Frugò nei cestini, brancicò le pagliuzze, i guardanidi, sollevò degli assi e dei mattoni, alle volte non vi fosse accovacciata sotto; scostò le casse, cacciò le mani in certi buchi che non avrebbero capito un pipistrello, altro che una gallina. Rimuginò persino dentro il saccone sperando di trovarla fra le fogliacce. Dolorosa e pensativa tornava a ripetere un altro giro per il cortile (era l'ottavo), quando passando davanti l'uscio della vicina Tonia scoperse due penne nere. Quelle penne furono per lei dapprima un sospetto e poscia una rivelazione.
«Tonia, avreste per caso ammazzato una mia gallina?»
«Caspita! Menica, non volete ch'io sappia nemmanco sdifferenziare le noci dalle gallozzole e il bianco dal nero?»
E Menica, mortificata, si sentí calare nella gola l'usciolo della parlantina e scappò subito dentro casa.
«Sai, Gervasio, che cosa mi è avvenuto di brutto?»
«È cascato il mondo?»
«No: m'hanno portato via la Nana, quella magnifica pollastrona bassotta, che innamorava.»
«Uh!»
«E c'è ancora di peggio.»
«Di peggio?»
«C'è che ho trovate due penne nere proprio sulla faccia della porta alla Tonia.»
«Oh!»
«Ed ho avuto la bravuria di domandare alla Tonia se l'aveva pigliata essa la mia Nana.»
«Uhm!»
«Adesso, poveretta me, la Tonia crederà che io le abbia dato una presa di ladra per le trecce. Ma non è mica cosí, Gervasio. Ho parlato solo perché avevo la bocca. Vero come ho il battesimo in testa. E tu, se vuoi, hai un sacco di ragioni a sgridarmi: mi prendo troppa caldura per queste brutte gallinacce, che ora pagherei il diavolo se me le azzoppasse tutte. Ma io le voglio bene alla Tonia. Oh, sí, le voglio un bene dell'anima, e non la offenderei già per tutto l'oro di questo mondo. Bravo, vai a dirglielo tu, Gervasio, che io le voglio ancora bene alla Tonia.»
«No, linguaccia! Ora che hai fatto il male fai tu la penitenza. Mettiti le ruote; va' a levare di stia il piú grosso cappone che ci abbiamo, quello là col ciuffo, e portalo subito a regalare alla Tonia, ma subito.»
Dall'altra parte dell'aja, controscena.
«Sai, Maffeo, che cosa è capitato alla Menica?»
«Non saprei, Tonia...»
«Le manca la Nana, quella pollastra corta e larga a modo del nostro signor cappellano, con reverenza parlando, e senza paragoni.»
«Corbezzoli! Me ne rincresce di buono.»
«Quello che a me mi pena di piú e mi strimizzisce il cuore, è che abbia buscato due piume nere sull'uscio di casa nostra. E forse crederà che gliela abbiamo finita noi.»
«Oh, no... Grande cosa due piume nere in questo mese che le galline si spollinano e mudano...»
«Però, sai, Maffeo, se tu non fossi una mignella, per me vorrei cavarle di testa fino all'ultimo respiro di dubbianza... Per me vorrei, se tu fossi contento, portare alla Menica in regalo quel bel cappone cornuto...»

* * *

Di lí a due minuti in mezzo alla corte si affacciavano naso contro naso Menica e Tonia, tenendo ciascuna sulle braccia e premendo al seno un bravo cappone di cui tastavano i barbigli smozzicati.
«Tonia, siccome domani è festa, mi piacerebbe che faceste sentire ai vostri forestieri un cappone nero, che dicono abbia la ciccia piú saporita.»
«Menica, ho pensato che per Sant'Onofrio dovreste mettere in tavola un cappone bianco, che, come biancheggia la carne, fa anche una figura piú linda.»

* * *

Pin! pan! pun! Un doppietto di schioppettate da spaccare il cervello pur con il loro rintronamento. E poi Galoppino, il cognatuccio di Menica, saltellante per l'aja, strascicando una pelliccia di velluto nerissimo sanguinolenta: «Menica! Menica! l'ho accoppata io la faina che teneva ancora in bocca il collo di Nana per salassarla.»

* * *


Signori e Signorine, sopra il galateo di monsignor Giovanni Della Casa e di Melchiorre Gioia si può mettere il galateo di Menica e di Tonia, che è il galateo dei villani, ossia del buon cuore, secondo il professore Cristoforo Verbena.

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