1.11.13

Hemingway e la critica italiana. Un po’ misconosciuto (di Massimo Bacigalupo)

Quando il protagonista di Addio alle armi confessa all’amica gli scrupoli per aver disertato dopo Caporetto, questa lo consola: «Era solo l’esercito italiano». Il romanzo uscì nel 1929, in pieno ventennio, e il sarcasmo era anche indirizzato al militarismo fascista. Infatti altrove Hemingway parla con ammirazione dei reparti che combatterono sull’Altopiano di Asiago, e gli Arditi rimangono per lui un mito.
È significativo che per quanto ammirasse l’ardimento individuale, la guerra come prova, detestasse la retorica fascista della guerra. C’era stato l’articolo del 1922 in cui aveva preso in giro le pose di Mussolini, il quale a quanto pare se la legò al dito. E in un racconto del 1927, Che ti dice la patria?, titolo italiano derivato probabilmente da un motto mussoliniano, Hemingway offrì tre quadretti comici di un’Italia plumbea, sciovinista, facendo capire con la mera descrizione apparentemente neutra che l’atmosfera da noi si era fatta irrespirabile. E non deve essere un caso che nella raccolta di racconti Uomini senza donne questa breve discesa in Italia è preceduta da I sicari, il celebre racconto dei due gangster di Chicago che si presentano in una trattoria per uccidere il nemico di un loro amico, personaggi assurdi e letali.
Ricordo a questo proposito che I quarantanove racconti, uscito nel 1938, continua a essere il primo libro di Hemingway da possedere, quello che tutti dovrebbero leggere, poiché contiene testi fondamentali e modernissimi, vignette e romanzi brevi, senza mai una caduta. E ci ricorda il carattere sperimentale della scrittura di Hemingway, che andò a scuola da Gertrude Stein, Sherwood Anderson ed Ezra Pound, ma seppe poi farsi uno stile proprio e andare a fondo attraverso i suoi personaggi e le loro microvicende alla condizione dell’uomo moderno e non solo.
Non si sa abbastanza che Hemingway è un grande scrittore sperimentale che non si ripete mai, tranne forse in Il vecchio e il mare, unico fallimento della sua carriera. Morte nel pomeriggio è un romanzo-saggio sulla corrida, in realtà un’enciclopedia alla Moby-Dick che va ben oltre il tema che pure lo innerva, come le balene per Melville. A Giorgio Manganelli piacevano le pagine dell’Epilogo in cui si cerca di dire sulla Spagna tutto quello che non si è detto nelle trecento pagine precedenti, e si conclude con una morale (lo scrittore americano è sempre moralista): «La gran cosa è durare e fare il nostro lavoro e vedere e udire e imparare e capire; e scrivere quando si sa qualcosa; e non prima; e non accidenti troppo dopo. Salvi pure il mondo chi vuole, purché voi riusciate a vederlo con chiarezza e nell’insieme…». Scrivere solo ciò di cui si è assolutamente certi, lavorare per coglierne il sapore immediato, con arte che nasconda l’arte. Hemingway scrittore fra i più raffinati e colti passa ancora presso molti per un rozzo mestierante. E invece egli ha l’arte di dire senza dire.
Il suo alter ego nei Quarantanove racconti si chiama Nick Adams, e deve scoprire tutto da capo, come ogni individuo che viene a questo mondo. Qualcuno ci riesce. «L’importante è durare e fare il nostro lavoro e vedere e udire e imparare e capire», dice il celebre epilogo a Morte nel pomeriggio, romanzo-saggio sperimentale che sfugge a ogni definizione. Come Moby-Dick.
Addio alle armi apparve in Italia solo nel 1949, nella traduzione di Fernanda Pivano, che ci aveva messo mano già durante la guerra, attirando l’attenzione delle SS quando trovarono il contratto nella redazione Einaudi, ma che poi lasciarono andare l’innocua maestrina. L’avventura piacque a Hemingway, che fu sempre grato a Fernanda, e l’incoraggiò a tradurre altri suoi libri, fra cui il non facile Morte nel pomeriggio, e infine l’ultimo sfortunato Al di la del fiume e dentro agli alberi, un nuovo Morte a Venezia, o un ritorno del soldato sui luoghi dei combattimenti: nella Laguna, sul Piave. Com’ è difficile morire, e del resto anche vivere.
Pivano fu una delle più attente e informate lettrici italiane di Hemingway. La Cronologia che antepone all’edizione dei Racconti nei Meridiani Mondadori (1990) è ricchissima di annotazioni accurate e penetranti, e le sue introduzioni a questo volume e a quelli dei Romanzi nella stessa collana hanno sempre un taglio personale che nasce da una vera adesione e comprensione di un personaggio mondo leggendario, senza per questo essere acritica. Per il resto il lettore italiano può leggere le traduzioni delle tante biografie, di cui resta classica quella di Carlos Baker, e rivivere il personaggio attraverso le immagini dell’Album Hemingway (sempre Mondadori) o quelle bellissime scattate da Ettore Sottsass durante gli incontri Hemingway-Pivano e raccolte ad esempio nel catalogo della recente mostra Il Veneto di Hemingway (Antigaedizioni). Come introduzione critica, resta utile (e unica) quella compatta di Giovanni Cecchin, Invito della lettura di Hemingway (Mursia). Infatti, come capita a scrittori di immensa popolarità, Hemingway rimane prigioniero del suo mito, e poco frequentato in Italia dalla critica, almeno per quanto riguarda le monografie.
Pochi infatti, perfino fra i lettori colti, sanno che la sua importanza nella letteratura di lingua inglese del Novecento non è seconda a nessuno e che, come ebbe a dire Burgess, se Joyce ha imitato tutti gli stili, Hemingway ha fatto qualcosa di più grandioso, ne ha inventato uno.
E naturalmente era uno scrittore essenziale, prosciugato, a cui si rifaranno i vari Carver, Bukowski e infiniti altri, per non dire degli imitatori senza talento anche italiani.
I primi traduttori, come Vittorini, lavorarono spregiudicatamente, tagliando e cucendo a volontà. È il caso del racconto lungo Vita felice di Francis Macomber, per poco nella versione apparsa in Americana. Ma già è straordinario che tre racconti di Hemingway uscissero da noi nel 1942. In seguito i traduttori si sono professionalizzati, e a esempio I quarantanove racconti nella traduzione di Vincenzo Mantovani (Einaudi) sono ineccepibili.


“alias – il manifesto”, febbraio 2011

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