Riprendo ampi stralci di un
articolo commemorativo delle grandi attrici che ci hanno lasciato, per
rammentarne imprese e spettacoli, per valorizzarne l’intelligenza creatrice.
(S.L.L.)
Quando le Signore escono di scena
Como una mala temporada. Come una pessima, infausta stagione
teatrale la prima metà di questo 2013 ha visto uscire di scena, una dopo
l’altra, una serie di eccellenti protagoniste del teatro nazionale degli ultimi
sessant’anni. Cinque primedonne diversissime tra loro per percorsi professionali
e posizionamenti estetici e culturali, alcune direi antipodiche nella loro
stessa anima esistenziale e politico-teatrale, e in ogni caso tutte qualificate
ed egregie rappresentanti di altrettanti, plurali modi di intendere e fare
teatro contemporaneo.
La prima è stata Mariangela
Melato ad andarsene precocemente a 71 anni quando era ancora nel pieno della
sua maturità teatrale. L’attrice milanese aveva goduto negli anni Settanta di
un’ampia fama come protagonista di pellicole di successo dirette da Lina
Wertmüller, Elio Petri, Steno, Mario Monicelli e Franco Brusati. Ma è stato il
teatro più del cinema il suo territorio privilegiato, il luogo dove la sua
figura anomala, la sua strana voce ingolata, la sua personale irrequietezza che
la conduceva a cercare sempre nuove sfide interpretative, poteva trovare il
massimo della tensione e della soddisfazione artistica. Il suo regista di
riferimento è stato senz’altro Luca Ronconi che la diresse all’inizio della
carriera in due capolavori quali l’Orlando
Furioso (1969) e l’Orestea
(1972). Poi dopo una lunga parentesi tornò a lavorare con lui recitando in L’affare Makropoulos (1993) di Karel
Čapek, dove interpretava una bicentenaria e in Quel che sapeva Maisie di Henry James (2002), dove era invece una
bambina di sette anni. Con Ronconi fece anche nel 1997 una importante edizione
di Il lutto si addice ad Elettra di
O’Neill. Io me la ricordo accanto a Giorgio Gaber in Il caso di Alessandro e Maria (1982) e poi sotto la guida di
Giancarlo Sepe in Vestire gli ignudi di
Pirandello (1985) e Medea di Euripide
(1986), due vertici sicuramente della sua avventura scenica. La rammento ancora
in Un tram che si chiama desiderio di
Tennessee Williams per la regia di Elio De Capitani e in Madre Courage e i suoi figli di Brecht nel 2002. Colpiva la sua
indomita energia scenica, una disciplina anche tecnica che impastava
drammaticità e sfumature di grottesco. […]
La Melato non si risparmiava in
scena, aveva una potenza e una prepotenza di presenza scenica, che doveva
talora essere calibrata e regolata, ma il suo ricordo si incide netto, come una
samurai del teatro, una combattente pronta al cimento anche più rischioso. Una
donna-maschiaccio che è stata un esempio di etica del lavoro, di voglia di
mettersi alla prova artistica.
Se la Melato è morta si può dire
ancora sul fronte scenico, la 92enne Regina Bianchi, scomparsa lo scorso
aprile, dalla scene era invece lontana da tempo. Reputata una delle maggiori
interpreti del teatro napoletano del secondo Novecento, era in verità nata nel
Salento, a Lecce e da una famiglia di origine francese (il suo vero cognome era
D’Antigny). Aveva debuttato giovanissima nella scena partenopea, lavorando
nella compagnia di Raffaele Viviani e poi con i De Filippo, sia Eduardo che
Peppino. Dopo una lunga parentesi privata, tornò alla recitazione alla fine
degli anni ’50 ed ebbe la ventura di sostituire Titina De Filippo in una
edizione televisiva di Filumena Marturano (1962) in cui a detta di tutti la sua
memorabile prova oscurava quella pure storica di Titina. La Bianchi sembrava
incarnare la quintessenza di una donna antica, trafitta dalla vita, ma piena di
invincibile orgoglio, un mix di melanconia e di irriducibile fierezza che
sintetizzava come il lungo cammino di grande madre mediterranea, piena di
arcaica saggezza, quasi una maiuscola custode dei valori sacri del vivere e del
generare. La sua peculiare caratterialità, dolce e dura insieme, accompagnò
Eduardo in altri famosi spettacoli da Napoli
milionaria! a Questi fantasmi, a Sabato, domenica e lunedì. […]
La napoletanità acquisita di
Regina Bianchi era come un nobile stemma antropologico, restituiva tutta la
forza di una donna del popolo che attraversa le epoche ed i regimi, preservando
una preziosa dignità dell’essere, le ragioni prime e basiche dell’uomo e della
famiglia, l’alchimia misteriosa di una nuda vita che si trasforma in Bìos, in esistenza degna di valore e di
essere riconosciuta come tale.
Un’attrice di schietto profilo
borghese è stata invece Anna Proclemer morta a quasi 90 anni. Era nata a
Trento, ma si formò a Roma nell’ambito universitario, debuttando a soli
diciotto anni in Nostra Dea di
Bontempelli, diretta da Turi Vasile e a fianco di un’altra giovanissima
destinata a diventare famosa: Giulietta Masina. […] Nel 1946 ebbe la ventura di
incontrare e di sposare il 39enne scrittore siciliano Vitaliano Brancati,
autore talentoso quanto ombroso (da cui nacque l’anno dopo la figlia Antonia).
Nel ’47 recitò accanto al bravissimo Salvo Randone in Marito e moglie di Ugo Betti e I
disonesti di Gerolamo Rovetta. Si precisava, così, via via la sua
dimensione di interprete di forte temperamento, capace di disimpegnarsi sia
nella commedia che nel dramma e pronta ad affrontare sia i testi contemporanei
che quelli classici. Tappa importante della sua carriera fu la Mirra di Vittorio Alfieri per la regia
di Orazio Costa (1948). Così come memorabili furono gli anni (1952-1955)
vissuti nella compagnia di Vittorio Gassman facendo Amleto, Edipo Re, Kean, ma anche la bella commedia di
Luigi Squarzina Tre quarti di luna.
Poco prima della morte nel 1954, Brancati scrisse per lei La governante, un testo che suscitò molto scandalo e censure
nell’Italietta bacchettona e democristiana del tempo, perché adombrava la
figura di una lesbica che prendeva servizio presso una famiglia sicula.
Dopo la morte del marito iniziò
per lei una nuova vita con il sodalizio sia sentimentale che artistico con
Giorgio Albertazzi. […] Tra i grandi successi personali della Proclemer non si
può, però, non rammentare il melodrammatico Anna
dei miracoli di William Gibson (1960), per la regia di Squarzina, con la
Ottavia Piccolo bambina, che ebbe anche una fortunata edizione televisiva.
Concluso il lungo sodalizio con
Albertazzi, nella sua maturità di attrice di autorevole corposità di signora
borghese, di secca grinta e voce calda e dominante, ricordo spettacoli come Piccole volpi di Lilian Hellman (1982),
regia di Giancarlo Sbragia, Chi ha paura
di Virginia Woolf? di Albee (1985), […] firmati da Mario Missiroli. Si
misurò anche con Beckett e il teatro dell’Assurdo in Giorni felici (1990), diretta da Calenda, facendo una persuasiva
Winnie. […]
Eminente attrice di tradizione,
la Proclemer è come se invecchiando non fosse riuscita a modernizzare e ad
essenzializzare la sua recitazione e avesse accentuato e aggravato gli elementi
di convenzione, i clichés di finzione
della sua arte, finendo per ‘tromboneggiare’ anzicheno.
È però difficile non reputarla
una delle regine della scena del teatro ufficiale, esempio per sessant’anni di
indefesso mestiere, di impeccabile tecnica e di completa devozione agli autori
interpretati. Donna bella e fascinosa, vedova di un importante romanziere,
aveva coltivato per sé con discrezione anche un côté di scrittrice e interessi intellettuali ad ampio raggio. Cosa
tutto sommato assai rara tra le primedonne del teatro nostrano.
Primadonna, par excellence, dell’italico teatro è stata Rossella Falk, morta a
86 anni. Lei, sì, una vera regina dentro e fuori la scena. Nata abbiente (col
nome di Rosa Antonia Falzacappa), figlia di un colonnello dell’esercito, grazie
a un paio di oculati matrimoni divenne poi ricchissima, abitava in un attico a
via Nazionale a Roma, soprastante il Teatro Eliseo che lei guidò artisticamente
per sedici anni dal 1981 al 1997 (unitamente a Gabriele Lavia e Umberto
Orsini). Ma non è poi neppure questione di personali beni economici e
materiali, il fatto è che la Falk aveva naturalmente un portamento
aristocratico, una allure da grande
diva: la ricordo personalmente nel 1988 alla commemorazione all’Eliseo di Paolo
Stoppa, salire sul palcoscenico e lasciare cadere a terra regalmente e con nonchalance una sfarzosa pelliccia di
visone prima di andare al microfono e rammentare le risate che si erano fatti
lei e Stoppa quando avevano avuto modo di recitare assieme e come facevano
arrabbiare la Rina Morelli (compagna di Stoppa) la domenica prima della replica
pomeridiana, a cui loro arrivavano puntualmente all’ultimo minuto, perché se ne
erano andati assieme allo stadio a tifare la Roma. Perché era così la Falk: una
signora apparentemente supersnob e poi la scoprivi una donna romana e romanista
molto simpatica, estroversa, anche assai anti-conformista nei rispetti delle
tante trasgressioni del mondo dello spettacolo (i suoi due più cari amici e
partner teatrali furono Romolo Valli e Giorgio De Lullo, storica e celebre
coppia gay).
Fu proprio De Lullo incontrandola
casualmente nel 1946 a convincerla a presentarsi ai provini dell’Accademia
Nazionale di Arte Drammatica perché, le disse, “tu sei bellissima e là so’
tutte racchie”. Era vero, Rossella era molto bella, alta, elegantissima e
curatissima nel trucco, nei vestiti, nei gioielli che indossava. Ma era, poi,
infine o all’inizio, anche un’attrice di grande talento che divenne l’icona, la
‘front woman’ della Compagnia dei Giovani, una delle più importanti, se non la
più importante compagnia privata italiana tra il ’54 quando nacque e il ’74
quando si sciolse, per l’alto profilo culturale del gruppo, per la ricerca
sulla nuova drammaturgia italiana, per la rilettura inedita e vivificante di
Pirandello. […]
Prima dei Giovani la Falk si era
fatta le ossa appunto nella compagnia Morelli-Stoppa e con un regista del
calibro di Luchino Visconti, che la diresse in Un tram che si chiama desiderio (1950) e in due spettacoli epocali
come La locandiera di Goldoni (1953)
e Tre sorelle di Cechov (1955). Ma è
con la Compagnia dei Giovani che la Falk si impose come primadonna assoluta,
capace di una recitazione assai moderna, tesa e vibratile, controllata e piena
di sottili oscurità ed esplosioni, una recitazione che direi psicanalitica, che
trovò la più piena e convincente affermazione nell’allestimento dei testi
pirandelliani da Sei personaggi in cerca
d’autore (1963), in cui era una memorabile Figliastra, a Il giuoco delle parti (1970) a Trovarsi (1974).
Quando si trovò alla testa
dell’Eliseo, il teatro nobile della capitale, la rammento una superba Maria Stuarda di Schiller (1982) e, poi,
in un paio di Cocteau […].Tra le sue ultime apparizioni La sera della prima di Cromwell (2001), l’autobiografico Vissi d’arte, vissi d’amore (2004) e Sinfonia d’autunno (2007) dal film di
Bergman.
Come si vede, tranne rare
occasioni la Falk si è sempre misurata col teatro contemporaneo, palesemente
non amava i classici o comunque non si sentiva in sintonia interpretativa con i
testi greco-tragici o shakespeariani. Una riprova della modernità del suo
profilo attorale, che semmai cercava dal cinema gli stimoli creativi. Peccato
che il cinema non l’abbia adeguatamente ripagata, si ricorda soltanto una sua,
peraltro incisiva, partecipazione a Otto
e 1/2 di Fellini (1963), e poi ruoli non indimenticabili in Modesty Blaise di Losey (1966), Quando muore una stella di Aldrich
(1968) […].
Il suo campo ‘da gioco’ è stato
un teatro del presente pieno di chiaroscuri, problematico, ricco di
contraddizioni e di criticità, dove lei incarnava una figura femminile comunque
torreggiante, anche quando appariva ferita e colpita dalle delusioni, dagli
smacchi della vita. Una donna libera e forte col fascino della ‘divina’, ma
anche romanamente assai smagata, che sapeva ironicamente prendere anche le
distanze da sé. Una veramente senza eredi possibili.
L’ultima regina della scena di
questo elenco di illustri scomparse è stata probabilmente un’anti-regina per
collocazione e ideologia politica. Sto ovviamente parlando di Franca Rame,
l’altra metà in tutti i sensi di Dario Fo, morta a fine maggio a 83 anni. Nata
a Villastanza di Parabiago, in provincia di Milano, la Rame è stata in scena in
pratica per tutta la sua lunga esistenza. Come amava raccontare, era figlia
d’arte e nella compagnia del padre Domenico aveva debuttato quando aveva pochi
giorni di vita, continuando poi ad essere impegnata in parti da infante e da
bambina. A vent’anni, ragazza alta e bionda, dal corpo statuario e sensuale
entrò nel giro meneghino del teatro di rivista, lavorando con la compagnia di
Tino Scotti. Ed è in quell’ambito che conobbe e nel 1954 sposò Dario Fo, con
cui avviò nel 1958 la compagnia familiare che avrebbe prodotto commedie e farse
di grande successo sia di critica che di pubblico (da Gli arcangeli non giocano a flipper, 1959, […] a Settimo: ruba un po’ meno, 1964). Come
ha riconosciuto Dario Fo, dopo la morte della moglie, gran parte dei testi del
suo teatro che risultano firmati da lui, in realtà furono scritti assieme, con
la attenta revisione e correzione di Franca. Fo ha anche simpaticamente ammesso
che, peraltro, il testo che ha avuto più versioni in giro per il mondo (oltre
settecento) è proprio un testo della moglie, ovvero Coppia aperta, quasi spalancata.
La Rame lavorando accanto ad un
genio della recitazione come Fo, è stata meno considerata dalla critica, però
era un attrice dai tempi comico-brillanti infallibili, capace di rimodulare la
dimensione svitata del marito in una sorta di gioco in controtempo, riuscendo
poi nei suoi lavori da solista come Tutta casa, letto e chiesa, ad accoppiare
satira sociale, polemica femminista, risvolti demenziali con grande fluidità e
senso del divertimento. Avendo un corpo da sexy-star non si peritava di
travestirsi, di mascherarsi, di imbruttirsi con parrucche e costumi pur di
raggiungere l’obiettivo di suscitare la risata intelligente, che faceva
pensare, che mordeva sulle contraddizioni della società e sui conflitti del
rapporto uomo-donna.
Franca aveva totalmente condiviso
le scelte politiche e di teatro militante nell’ambito dell’estrema sinistra di
Dario, anzi per molti versi era più radicale del marito, pronta ad impegnarsi a
sostegno, ad esempio, del Soccorso Rosso, o a fare teatro in tutte le occasioni
di lotta e nelle situazioni di occupazione, negli anni Settanta, di fabbriche e
case. Questa sovraesposizione la fece entrare nel mirino di gruppi fascisti,
talché giusto quarant’anni fa, nel marzo del 1973 fu sequestrata, picchiata e
stuprata da un manipolo di squadristi. Una vicenda terribile che lei ebbe il
coraggio di rievocare a teatro in un monologo mirabile e angosciante intitolato
appunto Lo stupro (1981).
Il suo impegno politico militante
la portò ad entrare nel 2006 in Parlamento come senatrice eletta nelle fila
dell’Italia dei Valori di Di Pietro. Peraltro, dopo un paio di anni, nel 2008,
lei lasciò il Senato con un severo atto d’accusa verso le istituzioni e verso
un sistema dei partiti totalmente sordo e impermeabile alle istanze della
società e alle pulsioni di cambiamento. La Rame è stata un’anti-regina rossa
della scena, una che diceva al figlio Jacopo, bambino: “Dio se c’è, è
comunista”. Una che scelse di devolvere l’intera somma attribuita a Fo per
l’ottenimento del Premio Nobel per l’acquisto di pulmini per i disabili. Una
che non faceva chiacchiere, ma fatti, sempre pronta fino all’ultimo a spendersi
per le cause in cui credeva.
Io la voglio, in explicit,
ricordare come un’attrice-autrice da Nobel. Almeno metà del premio attribuito
al marito le spettava di diritto. Il suo esempio di pasionaria del teatro, però
con le armi dell’ironia e della comicità, ne fanno un modello preclaro di
attrice e di donna contemporanea, mai ripiegata, mai doma, sempre attiva e
reattiva, anche quando colpita duramente dai nemici. Una donna bellissima
dentro e fuori, fino alla fine. E che, ne sono certo, non sarà
dimenticata.
“Le reti di Dedalus”, Giugno 2013
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