15.12.13

Forugh Farrokhzad, Tehran 1935 - 1967 (di Anna Vanzan)

Una bella “voce” dall’Enciclopedia delle Donne, opera di una agguerrita iranologa e islamologa italiana, utile complemento alle poesie di Forugh Farrokhzad qui (e altrove) “postate”. (S.L.L.)  

«Perché dovrei fermarmi? [...]
È solo la voce che resta...»
Così si esprimeva Forugh Farrokhzad, forse la più grande poetessa iraniana, di certo la più celebrata e cara ai suoi compatrioti nell'ultimo secolo.
Nasce in una famiglia della media borghesia, dopo la scuola dell'obbligo non si diploma neppure, ma si dedica un poco allo studio della pittura.
Compositrice precoce, si fa notare a metà anni '50 con la raccolta Prigioniera, le cui liriche, così come il titolo, sono per lo più autobiografiche: è lei che si sente in gabbia, tanto che divorzia dal marito (peraltro sposato per amore) lasciandogli il figlio piccolissimo, onde essere libera di seguire la vocazione poetica. Con un'operazione unica nell'ambito della letteratura persiana, Forugh nei suoi versi parla da donna, mettendo in piazza i suoi sentimenti, le sue aspirazioni, la sua protesta. Nella vita, intreccia legami con vari personaggi, anche sposati, cosa che le attira spietate critiche dalla società iraniana del tempo, che lo shah Reza Pahlavi vorrebbe moderna e spregiudicata, ma che, in realtà, lo è parzialmente e solo a parole.
Nelle successive raccolte la giovane Forugh dichiara poeticamente di aver «peccato in un abbraccio caldo e pieno di passione»; dedica una lirica al suo amato che descrive dotato di «un corpo nudo senza vergogna» da lei nascosto nel viluppo dei suoi seni, mentre si fa vedere per Tehran in compagnia di un celebre intellettuale già maritato. Per sfuggire alla pressione sociale ripara per un breve periodo in Europa, dove riceve premi e riconoscimenti internazionali per un documentario che lei stessa ha girato in una comunità di lebbrosi, La casa è nera (1963). Lì incontra il regista Bernardo Bertolucci, che la rende protagonista di un suo cortometraggio. Rientrata in patria, Forugh continua a cantare i suoi amori, infrangendo sia la morale comune sia i canoni della poesia persiana. A volte risulta amara:
«o donna dal cuore trasparente
non cercare fedeltà in un uomo, giammai!
Lui non conosce il significato dell'amore
non rivelargli mai i segreti del tuo cuore.»
Altre volte, canta i rapporti d'amore, indipendenti dalle carte bollate:
«Non si tratta della fiacca unione di due nomi
né dell'abbraccio fra carte vecchie di un ufficio
si tratta della mia chioma fortunata con i papaveri arsi dal tuo bacio
e della sincerità dei nostri corpi, nel furto
e nello splendore della nostra nudità.»
Forugh prosegue a testa alta, affermando che poesia e vita sono la stessa cosa; tuttavia, man mano che il tempo passa, la sua sensualità e il suo anticonformismo sembrano cedere il passo a solitudine e delusione. Le ultime liriche conservano qualche bagliore della franchezza erotica di Forugh, ma sono soprattutto il canto di una persona sola.
«Ecco, sono io
una donna sola
sulla soglia della stagione fredda.»
La paura della morte crepita nelle ultime liriche, come se Forugh fosse presaga del suo tragico destino: è proprio in un freddo giorno di febbraio che la sua auto scivola su una lastra di ghiaccio e lei muore, poco più che trentenne. Ma la sua voce non si spegne: è la poetessa più tradotta all'estero e la letterata più amata in patria, i suoi versi sono citati da cineasti famosi e ispirano artiste di aree confinanti, quali l'Afghanistan. La sua popolarità è tale da venir spesso menzionata solo con il nome: Forugh.
Forugh Farrokhzad è ora il simbolo della voglia di vivere e di libertà degli iraniani, un faro della loro cultura, tanto che la sua tomba è meta di pellegrinaggio di tantissimi giovani e non, che vi sostano a recitare le sue poesie, fra gli alberi carichi di neve nei freddi inverni di Tehran.

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