10.12.13

Iacopone da Todi tra realismo e metafisica (Raffaele Manica)

Riprendo qui una parte della recensione al volume Iacopone e la poesia religiosa del Duecento, BUR, 2001, curato da Paolo Canettieri.
Cimabue, "Flagellazione" (particolare), New York, Frick Collection
Il centro del libro è il rigore francescano di Iacopone, con la sua concretezza che s'innalza a un diverso sentire, che manipola la lingua, ne spezza le linee, la rende infine astratta per rituffarla nel luogo indistinto tra corpo e spirito. Fatto che spiega l'indecisione dei suoi interpreti tra realismo e metafisica. Senonché la grandezza di Iacopone sta proprio nel contatto tra l'uno e l'altro. Resta viva la definizione di Contini che, tratteggiandone un ritratto espressivistico, lo vide «preso nell'identità di urlo e silenzio». Trascinato da un'espressività alla quale quasi soccombeva, denso, ruvido e sproporzionato, il testo iacoponico, lumeggiando il buio, mostra che «sono appunto le linee spezzate e frastagliate della sua ispirazione, le deviazioni e perfino le apparenti contraddizioni a suscitar l'impressione di un paesaggio scheggiato con aperture inattese, tra roccia e roccia, su orizzonti vastissimi (e vuoti) o su abissi improvvisi» (Mancini).
Una divina ars amandi che misura i confini del dicibile: la poesia religiosa del nostro primo secolo, anche quando non decisamente mistica (ma i due termini tendono a sovrapporsi) è anche una lotta con le capacità espressive della lingua e del linguaggio della poesia, infocato, intarsiato di citazioni scritturali e infine, stremato, quasi rassegnato al proprio stesso limite.

“alias – il manifesto”, 13 ottobre 2001

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