12.12.13

La prima volta che ho pianto. Solo come il grande Blek… (Tommaso Di Francesco)

La prima volta, e l'ultima, che ho pianto di cuore in vita mia è stato all'età di sette anni e proprio per il Grande Blek. Qui forse varrebbe la pena una spiegazione sulla diversità del «pianto di cuore» dagli altri pianti. Il pianto di cuore si caratterizza per una straordinaria forza vitalìstica; chi piange di cuore non è certo allegro, è disperato, ma è come se «in cuor suo» intravedesse intero il cammino del riscatto dalla sofferenza momentanea.
Niente a che vedere con la fase attuale di sacche lacrimarie vuote, anzi malate per essere secche e svuotate, e il pianto raro, quando c'è è veramente esplosione nervosa all'esterno di una ferita grossa così, vera e sanguinolenta dentro.
Insomma dicevo del mio ultimo e primo pianto. Ero legato ad un palo di «tortura», catturato da una banda rivale di ragazzini in un campo di periferia, in borgata, a nord della Grande Città. Non soffrivo per le minacce della banda nemica che mi aveva torturato, la banda dei Texviller: («Parla, se no!», «No, non parlo io non tradisco!»).
Piangevo perché dopo la battaglia persa, i nemici avevano catturato come bottino di guerra il nostro scatolone di cartone che conteneva ben due annate di giornaletti del Grande Blek. E adesso, quelle carogne, davanti ai miei occhi sconfitti, stavano bruciando lo scatolone con dentro gli esili rettangoletti multicolori di carta stampata, che si accartocciavano in nero dentro la fiamma.
Quello era il segno vero che la battaglia, quel giorno (altre ne avevamo vinte però), fatta di fionde, toppe di terra, sassi e bastoni, di qua e di là dalla marrana del fosso, era inevitabilmente persa.
Mi sono spesso chiesto che cosa legasse me e gli altri bambini come me a Blek Macigno, tanto da farlo diventare la nostra bandiera. L'altra banda, dall'altra parte del rigagnolo della marrana, della borgata di Tomba di Nerone, la cui unica delimitazione era costituita, dalla storia dei nuclei umani degli edili che l'avevano fondata e costruita il sabato e la domenica, aveva invece come bandiera Tex Willer. Tex era il caw boy classico, solitario quanto basta per unirsi con presunzione anche in azioni da commando, spavaldo e un po' provinciale, anche se le sue avventure rasentavano sempre un improbabile mistero ai confini d'una città perduta, e quindi ci risultava quanto mai scontato. Il trionfo della giustizia per lui non era cosa sempre limpida; i suoi interrogatori dei nemici catturati sono sempre violenti. Addirittura egli usava la tortura. Insomma un vero rappresentante del mondo adulto.
Blek era proprio l'opposto. Di fronte ad una persona indifesa che sta correndo un qualsiasi pericolo, sia essa amica o nemica, partiva all'assalto, senza contare il numero dei nemici da affrontare. L'azione era il suo linguaggio, sempre dentro il tempo da vivere, mai sopra
o sotto, o ai margini. Blek trattava i prigionieri e i vinti con rispetto, bestemmiava come intercalare, sognava ad occhi aperti. Anarchico, non amava nessun capo e nessuna legge, pur avendo un suo codice morale rigorosissimo. Scappava dalle donne, è vero, ma le salvava sempre nei momenti di pericolo e solo se loro lo chiedevano.
E tutto questo da solo, assolutamente. Ecco dopo molto tempo, posso riconoscere che la scoperta di Blek è stata per me la scoperta della solitudine che agisce nella realtà.
Altro fatto inspiegabile era il legame col mondo del Grande Blek a partire dal nostro scenario di borgata: marrana, casette di tufo non terminate, cancelletti di legno, niente acqua, né luce, né strade, qualche rudere romano e bunker di cemento delle truppe tedesche della seconda guerra mondiale, boschetti incerti ai margini delle fogne.
Una desolazione che viveva in attesa delle visite in città, della radio che portava la città fino nelle parti in cui stava ancora definendosi. Invece l'area mitica, temporale e geografica, del Grande Blek andava dalle regioni americane del Maine fino al Massachussets, in una zona molto vasta dominata dai monti Appalachi, ricca di fiumi che vanno a gettarsi nell'Oceano Atlantico, con un ricco manto verde di foreste di conifere, betulle, pioppi. La fauna era composta di orsi bruni, tassi, aquile ed enormi pesci di fiume. Roditori, tanti roditori. Anche noi avevamo i roditori, topi grossi così.

Ma era come se l'aria polare dell'anticiclone del Manitoba, che proveniva dal Canada, arrivasse fino a noi in borgata. Con il cappello da cacciatore d'orsi, quello con la coda di castoro, che per noi era inevitabilmente e più facilmente coda di coniglio, scoprivamo con Blek un mondo di foreste incontaminate dove gli animali e gli uomini, gli indiani e i pionieri-trappers erano la stessa persona.

"il manifesto", 2 agosto 1987

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