31.1.14

Gaetano Mosca e il suffragio universale maschile (Luciano Canfora)

Camera dei deputati. Gaetano Mosca. Bronzo di Tohg Wertheim

All’inizio del Novecento, in Italia si discusse vivacemente in merito al suffragio universale per i cittadini di sesso maschile.
Nel 1908, il governo di Giolitti promosse un consistente allargamento del diritto di voto, che quasi triplicò gli aventi diritto. Nel 1912, infine, il diritto di voto venne concesso a tutti i cittadini maschi. Molti politici e intellettuali si schierarono contro questa scelta, sostenendo che permettere agli italiani illetterati di votare avrebbe portato al caos. Anche la questione del diritto alle donne fu parzialmente affrontata, ma respinta da tutti. L’ampliamento del diritto di voto, e i dibattiti che lo accompagnarono, ebbero un forte impatto sulla politica e società italiana all’inizio del secolo scorso.
«Con la vittoria dell’ostruzionismo dopo le elezioni generali del 1900 il liberalismo fu sopraffatto dalla democrazia: sopraffatto a tal segno che questa assorbì quello e le si sostituì, mentre sono termini sostanzialmente antitetici». Così scriveva Antonio Salandra nel volume di «ricordi e pensieri» edito da Mondadori nel 1928, La neutralità italiana. Salandra continuava additando Giolitti come «maggior rappresentante» della tendenza democratica, «colpevole» di credere e sostenere «essere i democratici i veri liberali».
Non a caso Salandra indicava nell’anno 1900 lo spartiacque, l’anno di svolta che aveva aperto le porte alla deriva in senso democratico, giacché quello fu il momento, nella storia dell’Italia da poco unita, in cui la «destra storica» fu, e per un lungo tratto, travolta a seguito della repressione feroce dei moti di Milano del 1898 e dell’indignazione popolare contro Bava Beccaris, Di Rudinì e consorti. Dopo Zanardelli, pacificatore, fu l’ora di Giolitti e si avviò un’era - quella «giolittiana» appunto - in cui non solo non si rispose più con le fucilate agli scioperanti, ma si cominciò a porre seriamente la questione di allargare significativamente il suffragio in direzione quasi «universale», come poi accadde - escluse rimanendo pur sempre le donne - nel 1912, ad opera appunto di Giolitti.
Nel 1892 aveva ancora diritto al voto solo il 9,4% della popolazione e solo il 56% di tale 9% andò effettivamente a votare. Nel 1912 Giolitti, superando resistenze e perplessità (anche di autorevoli suoi consiglieri come Croce), allargò di molto il suffragio, pur lasciando fuori coloro che, «maggiorenni sotto i 30 anni», non avessero prestato il servizio militare o non corrispondessero a determinate condizioni di censo (Siotto-Pintor, voce Elezione dell’Enciclopedia italiana, vol. XIII, del 1932). E il corpo elettorale salì da 3 milioni e 300.000 a 8.700.000 di cui circa due milioni e mezzo di analfabeti.
Giolitti intuì che il suffragio allargato si poteva concedere perché non era più un pericolo. In questa svolta epocale della nostra storia si colloca la riflessione di Gaetano Mosca (1858-1941), docente di Diritto costituzionale, sottosegretario alle colonie con Salandra (1914-1916), senatore del Regno dal 6 ottobre 1919, ammiratore del Di Rudinì. L’elogio che egli ne tesse in uno scritto importante apparso nel «Corriere della Sera» l’8 agosto 1908 è raccolto nel bel volume, da poco in libreria, Gaetano Mosca e il «Corriere della Sera», curato egregiamente da Alberto Martinelli per la Fondazione Corriere della Sera.
La ricchezza del volume impone di trascegliere qui solo alcuni temi. Quello cruciale dell’allargamento del suffragio campeggia. E Mosca si impegna, con argomenti assiduamente proposti, nel corso degli anni, al grande quotidiano milanese, contro il voto alle donne e contro il suffragio universale.
Nel primo caso i suoi argomenti sono talvolta comici, come quando mostra aperture verso le professoresse (cui è difficile opporre l’argomento dell’inconsapevolezza e dell’eventuale analfabetismo) o quando evoca l’influenza dei «parroci» sul voto allargato. E in questo caso l’allarme riguarda l’influenza degli uomini di Chiesa non solo sulle donne, ma anche sugli analfabeti. Contro il suffragio universale (che a un certo punto osserva non essere neanche più tanto desiderato dagli stessi socialisti) i suoi argomenti sono quelli «classici» delle aristocrazie di tutti i tempi. È sarcastico verso Salvemini, che chiama con ironia «il geniale storico pugliese», il quale vorrebbe dare il voto ai contadini analfabeti della Basilicata, della Puglia o della Calabria. L’argomento più pungente che adduce è però quello dell’effettivo assenteismo: anche chi avrebbe diritto al voto non va a votare, non va a richiedere il certificato elettorale. (Si è visto che nel 1892 aveva votato poco più della metà degli aventi diritto).
È tema ritornante, anche in tempi di suffragio universale, e in particolare nel tempo presente, che potremmo definire l’età della «stanchezza del suffragio universale». Una tale massiccia rinuncia a esercitare il diritto di voto è, per Mosca, la prova dell’assurdità di voler imporre a masse ancora più grandi l’esercizio del voto.
Egli non poteva immaginare che, oltre un secolo dopo l’introduzione in Italia di quel suffragio semi-universale che tanto lo allarmava, si sarebbero sviluppate ingegnerie elettorali più o meno sofisticate, più o meno arbitrarie, miranti a creare de facto , con leggi di tipo maggioritario, una differenza e un diverso valore civile tra voto «utile» e voto «inutile». Allarmante distinzione contro cui sapientemente si espresse Michele Ainis su questo giornale il 6 febbraio 2013. Le escogitazioni «maggioritarie» miranti a dare il governo in mano ad una minor pars del corpo elettorale possono apparirci oggi come la forma attuale dell’antico sogno «elitistico» di dare il potere effettivo soltanto a una minoranza qualificata.
Come ben scrive Martinelli in prefazione, Mosca, con Albertini, guardava al declino dello Stato liberale «col disincantato pessimismo del conservatore». Essi «condividevano una analoga fedeltà all’eredità e al mito della Destra storica». Le aperture riformiste di Giolitti li allarmavano: e ritennero di fare un gran passo quando approvarono (1901) il riconoscimento giuridico dei sindacati.
Le questioni che Mosca affronta, e che ritornano costantemente pur nel cambiamento, spesso apparente, dei contesti storici, possono ridursi a una sola grande difficoltà: la rappresentanza della «volontà generale». Non è perciò forse privo di significato che un esponente importante della sinistra italiana del Novecento, Palmiro Togliatti, per un verso raccomandasse (teste Italo De Feo) la lettura di Gaetano Mosca e per l’altro elogiasse Giolitti, nel celebre saggio a lui intitolato. La questione dei modi di attuazione e di funzionamento del suffragio universale è tuttora aperta.


Corriere della Sera - 23 gennaio 2013 

La “Diceria dell’untore” di Gesualdo Bufalino (Fabio Stassi)

Da “Case di cura (Insofferenza per)”, una delle voci ‘italiane’ di Curarsi con i libri, il bel repertorio edito da Sellerio, ho già postato un breve brano.
Riprendo la breve trattazione sul capolavoro di Gesualdo Bufalino, ottimo libro da cronicario e, più generalmente, da ospedale, lettura spesso indimenticabile. (S.L.L.)

Affidatevi a Diceria dell'untore. Una sua sola pagina sarà per voi un piacere degli occhi e delle orecchie, migliorerà le vostre condizioni generali e terrà occupate la vostra in­telligenza e la vostra sensibilità per tutto il tempo. Sapete ormai che le parole possono lenire. Sono come bende da mettere su una ferita, o fazzoletti per espettorare, le parole sono balsamiche, salutari, sedative, analgesiche, antipiretiche, antibiotiche. Se credete alle loro proprietà taumaturgiche, Gesualdo Bufalino vi soccorrerà con una valigetta ampia come un vocabolario. 
Diceria è un libro sulla tubercolosi e le sue metafore. Prima del cancro, la tubercolosi o tbc è stata la malattia letteraria per eccellenza. Malattia nobile, dell'anima più che dei polmoni, destinata agli esseri ipersensibili, agli artisti di talento, malattia romantica, che consuma e smagra. La schiera dei personaggi tubercolotici, tra Otto e Novecento, è lunghissima. Ne hanno scritto tutti, da Stendhal a Hugo a Dickens, Tarchetti, Turgenev, Schnitzler, Gide, Joyce, James, Volponi e naturalmente Thomas Mann. Alcuni ne sono morti, come Kafka. 
Diceria dell'untore racconta di un Sanatorio della Conca d'Oro come ce n'erano molti, un tempo, e dei suoi malati. E’ la montagna incantata della letteratura italiana: l'apprendistato alla vita, all'amore e alla morte di un ex soldato un anno dopo la guerra. Gli verrà as­segnata la camera sette bis. Alla Rocca, questo reduce scoprirà come la malattia possa diventare la grande av­ventura della propria vita. All'interno del Sanatorio, tra un pneumotorace e un altro, vivrà i giorni più ricchi della sua esistenza, che dopo, da sano, si farà «inaspettatamente interminabile», e senza iperboli. Malattia come eccezione, quindi. Come vita di contrabbando più piena, pericolosa e intensa del passato e del futuro Una pantomima del desiderio. L'insospettabile occasioni di fumare di frodo un po' di umanità nella stanza di un ospedale.
Pensateci, mentre aprirete le vaschette incellophanate ­del vostro pranzo con un coltello di plastica: se fate at­tenzione, proverete sulla lingua come il sapore agrodolce di una vacanza.

Vienna 1780-1830. L’età classica della musica (Giorgio Pestelli)

L’articolo, recensione e sintesi di un libro per specialisti e appassionati, riesce a comunicare con grande efficacia il senso di una grande stagione musicale e del suo tramonto. (S.L.L.)

Franz Schubert al pianoforte in un salone viennese. Stampa d'epoca
A differenza di quanto avvenuto in altre arti, l'«età classica» della musica, con il suo centro a Vienna nel mezzo secolo circa fra il 1780 e il 1830, è una età di profondo rinnovamento, di vera e propria rivoluzione; infatti è nella musica di quell'epoca che il linguaggio musicale si costituisce in modo autonomo ed esemplare, articolandosi in una «vicenda» interiore di cui anche l'ascoltatore ingenuo avverte il riflesso nel ritmo della propria coscienza; non è certo un caso che in quell'epoca, per la prima e unica volta, la musica sia stata considerata come l'arte per eccellenza, quella a cui anche le altre arti dovevano tendere per il loro perfezionamento. 
Una sintesi di questa età aurea, ammirevole per profondità di definizioni e ampiezza di vedute, è contenuta nell'ultimo volume di Carlo Piccardi dedicato ai «Maestri viennesi» (Maestri viennesi. Haydn, Mozart, Beethoven, Schubert. Verso e oltre, Ricordi LIM, 2012): ovvero, le quattro sommità di Haydn, Mozart, Beethoven e Schubert, più la distesa di una infinità di maestri minori o minimi che tutti testimoniano la nascita della civiltà musicale viennese e il suo perdurare fino alla fine dell'impero asburgico. 
La prima cosa che risalta dalla lettura complessiva è la constatazione che la rivoluzione della «classicità viennese», a differenza delle rivoluzioni artistiche moderne, non è di opposizione al passato, di ribaltamento radicale, ma un prodigioso fenomeno di assorbimento che trova nella città di Vienna la sua camera di compensazione; qui vengono metabolizzate e fuse in unità le più diverse tendenze della cultura e del gusto, che il libro illustra con vivacissima abbondanza di dati: la tradizione colta e quella popolare, sublimità di sinfonie e farsa di operette, la tradizione del contrappunto e il rapimento della danza, «il soffio slavo e il riflesso luminoso d'Italia» (come diceva Hofmannsthal), l'aulicità francese e il dialetto viennese, con il robusto apporto delle correnti provenienti dalle «province» di Boemia e Ungheria; tutto un fermento di prospettive, nutrito nel nostro libro da un sostrato di discussioni letterarie, dibattiti, trattazioni teoriche e critiche giornalistiche che denotano l'insediarsi della musica come realtà totalizzante di un'epoca storica irripetibile.
Il merito principale del vasto saggio è come riesca, diciamo così, a rendere solubili dei colossi come i quattro super-maestri nel tessuto di una storia tanto diffusa e ramificata; è chiaro che personalità come Haydn, Mozart, Beethoven e Schubert, tutti ripercorsi nelle loro individualità, non sono riducibili a una entità «viennese» (del resto solo Schubert era nato a Vienna, e Gluck, Brahms e Mahler venivano da altre contrade), ma tutti si nutrono delle sue linfe e la bravura di Piccardi consiste proprio nel farli uscire e rientrare continuamente sullo sfondo dello scenario viennese, nel vederli aderire a un codice corrente e poi rimbalzare con un colpo d'ala alle loro altezze solitarie. Decisivo poi per il mordente della narrazione è il suo modo di parlare di musica: sempre concreto e legato alla realtà fonica delle partiture, in modo che i dati culturali sono ricercati e ricavati nella e dalla musica, non in riferimento a forme astratte o a generiche necessità evolutive.
Non si può qui dare conto di tutta la portata di un libro così ricco di scorci storici, spunti originali e intuizioni critiche; limitiamoci a segnalare l'ultimo e fondamentale capitolo, «La parabola musicale dell'impero estinto», che lo compendia e lo illumina a ritroso; una parabola che va dal severo barocco cattolico all'ebbrezza del valzer e ai frizzi dell'operetta, passando attraverso un avvincente paragrafo dedicato alle «turcherie»: che a Vienna o Praga erano poi il lessico degli zigani inurbati, fonte di centinaia di pezzi «all'ungherese» (nello Schubert del celebre Divertimento il pianoforte riesce anche a imitare «l'arpeggiato gesto percussivo del cymbalum»). L'ultimo sguardo penetrante dell'autore va al valzer di Johann Strauss figlio, dove «la spirale del ritmo che gli zigani sapevano tendere dalla più cupa prostrazione fino al più esilarante vortice di note staccate» si esalta fino allo stordimento, alla perdita del senso stesso della realtà: simbolo eloquente di «uno stato imperiale dalle basi politiche sempre più sfuggenti e che, dal Congresso di Vienna in poi, si ostinò a vivere il suo destino dell'utopia della Restaurazione».


“Tuttolibri – La Stampa”, 26 maggio 2012

29.1.14

Il Machiavelli di Gabriele Pedullà. Un Principe superbo e sciocco?

Il 10 dicembre 1513 Niccolò Machiavelli in una lettera giustamente famosa a Francesco Vettori annunciava la composizione del Principe. Per i cinquecento anni Donzelli ha realizzato una nuova edizione corredata da una riscrittura in italiano moderno di Carmine Donzelli, l’editore, da una introduzione e da un commento di Gabriele Pedullà. L’intenzione dichiarata è di offrire un Principe nuovo perché antico, perché liberato da tutte le incrostazioni ideologiche del Moderno e restituito al suo tempo nell’asse della continuità, riconnesso cioè alla discussione umanistica e caso mai riletto in una prospettiva “antropologica”, di “mentalità”, un po’ alla maniera degli storici novecentisti delle Annales francesi. Il rischio è di offrire un Machiavelli “revisionato”, edulcorato e castrato, appropriato a un “secol superbo e sciocco” che si vanta del tornare indietro e lo chiama progredire. Leggeremo questo nuovo commento senza pregiudizi, ma l’anteprima dell’introduzione pubblicata da “Il Sole – 24 Ore”, che qui riprendo, non promette niente di buono. (S.L.L.)

Da cinquecento anni il Principe funziona come una sorta di specchio nel quale non smette di riflettersi la coscienza occidentale, proiettando sulle parole di Machiavelli ansie, ossessioni, speranze, paure. Politica e morale, mezzi e fini, il partito come moderno principe, la libertà positiva e la libertà negativa, l'emergere dello Stato, il governo degli uomini e delle anime, la politica come tecnica, i fantasmi del totalitarismo, lo stato d'eccezione...
Niente di strano, dal momento che ancora oggi Machiavelli entra obbligatoriamente in qualsiasi discorso filosofico sulla vita associata. Eppure, un simile successo planetario ha avuto, e ha, il suo prezzo. Chiosato, interpretato, adattato e spesso violentemente frainteso, il Principe ha troppo spesso finito per smarrire la propria fisionomia e assumere quella dei suoi ammiratori o detrattori.
Questo processo di appropriazione si è ulteriormente intensificato negli ultimi due secoli, da quando cioè, negli anni a cavallo tra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento, la Rivoluzione francese in politica e il Romanticismo in letteratura hanno segnato una duplice cesura rispetto al mondo nel quale il Principe o i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio erano stati concepiti. Consapevolmente o inconsapevolmente, da quel momento indicare Machiavelli come padre della modernità ha voluto dire proiettare su di lui un giudizio, a seconda dei casi positivo o negativo, sul processo che si era aperto con la grande cesura del 1789. Negli ultimi anni l'esigenza di liberare Machiavelli da questa pesante ipoteca non riguarda più soltanto i guardiani del sapere storico. Impegnarsi per riportare il Principe alle categorie del suo tempo non vuol dire insomma per forza tessere l'apologia di un fantomatico Machiavelli-come-era-per-davvero contro le esigenze, spesso spudoratamente attualizzanti, della teoria. Le incrostazioni degli ultimi due secoli di letture non soltanto, infatti, deformano l'immagine di Machiavelli ma ormai rischiano di renderlo anche e soprattutto inutilizzabile: se non a costo di ripetere, fuori tempo massimo, le letture otto-novecentesche che si sono servite delle sue opere e ancor più del suo feticcio allo scopo di elaborare la propria apologia (Hegel, Croce, Gramsci) o la propria condanna (Schmitt, Strauss, Arendt) del Moderno in quanto tale.
Quel mondo non è più il nostro, ed è anzitutto per questo che c'è bisogno di un nuovo Machiavelli. Per trovare questo nuovo Machiavelli è necessario però liberare le sue parole dai materiali che si sono depositati negli ultimi duecento anni, un poco come insegnano le istruzioni di qualsiasi colla attaccatutto: detergere accuratamente con l'acqua ragia le superfici da saldare assieme prima di applicare il prodotto. Ed è qui che gli acidi della storiografia diventano ancora una volta essenziali. Nel caso del Principe la strada più appropriata è parsa quella di un nuovo commento interamente ripensato nei contenuti e nei metodi. A questo scopo l'edizione del cinquecentennale propone una nuova ricognizione sistematica degli autori classici utilizzati nel Principe (con decine e decine di scoperte che mutano, spesso in maniera decisiva, l'interpretazione), ma soprattutto sfrutta per la prima volta in maniera approfondita quella letteratura quattrocentesca che è il punto di riferimento polemico implicito di gran parte delle affermazioni più scandalose di Machiavelli. Se dalla schedatura di oltre duecento opere umanistiche molti nuovi tasselli sono emersi, mai, tuttavia, si è trattato di una mera caccia alla fonte. Diversi sono infatti anzitutto gli obiettivi che questo commento si è proposto. Nell'età di wikipedia e delle enciclopedie open access è inutile stendere una lunga voce biografica per spiegare chi era Alessandro Magno o Scipione l'Africano; ma può essere molto utile, e addirittura indispensabile per comprendere i passi del Principe che li riguardano, sapere come l'uno e l'altro venissero giudicati dai contemporanei di Machiavelli. Assai più importante che aggiungere nuovi scaffali alla biblioteca delle ipotetiche letture di Machiavelli è infatti aiutare i lettori a familiarizzare con le grandi categorie concettuali del Rinascimento (un poco come, in anni recenti, Amedeo Quondam ha fatto nelle sue edizioni di Boccaccio e Castiglione). È una regola che forse oggi dovrebbe valere per qualsiasi commento a un classico, ma che nel caso di un'opera come il Principe, abitualmente interpretata alla luce delle categorie della discontinuità radicale rispetto a tutto ciò che l'ha preceduta e del precorrimento del nostro presente, si fa sentire con tanta più forza.
È dunque soprattutto qui, sui concetti generali e sulla semantica delle parole chiave del discorso politico e morale del Rinascimento al cui interno va compresa la novità machiavelliana, che il commento pone l'accento. Questa scelta ha voluto dire prendere le distanze da una delle lezioni del massimo machiavellista italiano del secolo scorso, Carlo Dionisotti, il quale riversava volentieri la propria tagliente ironia contro quanti avevano addotto «a proposito di Machiavelli, testi a noi oggi familiari dell'Alberti, Della famiglia e Iciarchia» senza «gettar l'occhio sull'apparato dell'edizione critica di quei testi e informarsi come siano giunti a noi, e sapere che, come il De maiestate di Maio, la Iciarchia è sopravvissuta in un unico testimone». Tale caveat ha avuto dapprima l'effetto indubbiamente positivo di richiamare gli studiosi alla materialità della diffusione delle idee (codici, edizioni, manoscritti), ma con il tempo ha finito per scoraggiare nuove ricerche. E questo è stato un male. Se Iciarchia, De maiestate e altre decine e decine di opere anche meno note e diffuse sono essenziali per intendere il Principe non è infatti perché Machiavelli le abbia necessariamente lette, ma perché, nella loro ripetitività, gli scritti degli umanisti ci permettono di entrare in un sistema di pensiero che ha indubbiamente contato molto per il fiorentino.
Infine, parecchio spazio è stato dato alle pratiche sociali, alle istituzioni e alle credenze indispensabili per comprendere il discorso machiavelliano: la giurisprudenza e la medicina, la teoria degli umori, il dibattito sull'astrologia giudiziale e sul libero arbitrio, il sistema del mecenatismo, le convenzioni dei generi letterari, il principio di imitazione, le tecniche belliche, l'origine del debito pubblico, le ansie di rinnovamento religioso... Un approccio che, nel complesso, potrebbe definirsi "antropologico": con un richiamo al ruolo speciale che l'antropologia ha giocato nel rinnovamento degli studi storici del secondo Novecento, contribuendo a liberarli dalla gabbia di una histoire evenementielle sino a quel momento fatta unicamente di nascite, morti, battaglie e insurrezioni. Nella convinzione che anche il Principe abbia tutto da guadagnare da una lettura che faccia piazza pulita di ogni illusione ingenuamente continuista con il nostro tempo.
L'edizione del cinquecentannale si presenta perciò, in definitiva, come un esercizio di restauro o, se si vuole, di filologia politica: che punta a liberare il testo del Principe dalle incrostazioni sedimentatesi nei secoli per offrire ai lettori, al tempo stesso, un classico sottratto alle formule ideologiche degli ultimi duecento anni e un'opera "fresca" (anche grazie alla rispettosissima "traduzione" a fronte di Carmine Donzelli). Un'opera da leggere senza i pregiudizi e le prevenzioni che accompagnano quasi inevitabilmente il nome di Machiavelli: anzitutto affinché sul Principe si possano proiettare le passioni del XXI secolo e non – come ancora oggi troppo spesso succede – quelle del XIX o del XX.

“Il Sole 24 ore – Domenica”, 8 dicembre 2013


“I sette piani” di Buzzati per capire a che punto siamo e (forse) per curarci

Nei primi mesi dell’anno scorso uscì per l’editore Canongate Books di Edimburgo un curioso repertorio dal titolo The novel cure, con qualche approssimazione, che si può rendere “La cura dei romanzi”. Consisteva nell’indicazione per una lungo elenco alfabetico di malattie e disturbi, fisici, psichici e ambientali, uno o più romanzi (o racconti), la cui lettura potrebbe fungere da terapia. 
Ne erano autrici Ella Berthoud e Susan Elderkin. Sul finire dell’anno Sellerio ne ha pubblicato l’edizione italiana dal titolo Curarsi con i libri. Rimedi letterari per ogni malanno. Non si tratta di una pura e semplice traduzione, ma di un adattamento. Alle cure consigliate, infatti, se ne sono aggiunte altre, romanzi e racconti d’autore italiano, a integrazione delle ‘voci’ già presenti o in nuove voci. La traduzione dall’inglese è di Roberto Serrai, mentre la cura è stata affidata a Fabio Stassi, autore delle integrazioni e di un introduzione assai bella. Eccone la conclusione ‘italiana’: 
Nel tentativo di seguire i frammenti di questo discorso letterario sulla malattia, mi sono ritrovato fra le dita un filo comune che legava insieme tutti i nostri scrittori più sensibili all’argomento. Quasi involontariamente, unendo tare, fissazioni e difetti, si è disegnata da sé la mappa di un paese che soffre da secoli degli stessi mali e delle stesse idiosincrasie. La peste della burocrazia, il narcisismo, la deformità del potere, la falsificazione della Storia, l’indecente e complice ammirazione della furbizia, il culto e l’esibizione della virilità, l’ipnotico consenso a un capo, l’alfabeto del servilismo, lo specchio delle dicerie, la fede nelle superstizioni, l’attitudine a restare adolescenti, il senso di orfanezza, la meschineria infantile, l’ultima sigaretta sempre rimandata, lo strabico sdoppiamento di personalità, la paura di invecchiare, la tetra ossessione della lussuria. E’ stato come rinnovare un breve ma riepilogativo viaggio nel cuore infermo della nazione, mettendo in fila l’avidità di Mastro don Gesualdo, la vigliaccheria di don Abbondio, l’impotenza del bell’Antonio…”.

Una conferma vistosa di questa suggestiva ipotesi è in uno dei due testi indicati come rimedio alle Case di cura (Insofferenza per le). E’ un bozzetto “sanitario” di Dino Buzzati, I sette piani, un realistico racconto del terrore e dell’orrore; ma a leggerlo oggi appare una sorta di metafora di quanto collettivamente ci è accaduto nella cosiddetta “Seconda repubblica”, una impietosa denuncia dell’ottusità del potere e delle conseguenze nefaste del nostro servile ‘affidarci’. Trattandosi di un testo abbastanza noto, immagino che ci siano tra i visitatori di questo blog quelli che l’hanno letto. Invito anche loro a rileggerlo. Per questo lo “posto” qui come appendice, sollecitando riflessioni. (S.L.L.)
Se l'ospedale o la clinica nella quale siete ricoverati, vi sembreranno freddi, inospitali e deprimenti, prima di varcarne la soglia introducete nella vostra valigia, tra il pigiama e il dentifricio, un breve racconto di Dino Buzzati dal titolo I sette piani. In una mattina di marzo, Giuseppe Corte giunse nella città dove c'era la famosa casa di cura che si occupava esclusivamente della sua malattia. L'aveva già vista in una circolare pubblicitaria e la riconobbe su­bito. Da fuori sembrava un albergo, recintato dagli alberi. Mobili «chiari e lindi», poltrone di legno, cuscini colorati, la lampadina sopra il capezzale e il personale gentile e ciarliero. Seppe così, da un'infermiera, quanta razionalità e competenza governava quel sanatorio, e la sua caratte­ristica: il settimo piano era destinato alle forme leggeris­sime, il sesto ai malati meno gravi ma non trascurabili, il quinto ospitava i casi più seri giù giù fino ai gravissimi del secondo piano e a quelli per cui ormai era inutile sperare del primo. Questo sistema era vantaggioso sotto molti punti di vista: creava in tutto l'edificio un'atmosfera omogenea e salvaguardava gli assistiti dall'involontaria vicinanza di qualche degente molto più grave. A Giuseppe Corte fu assegnata una camera piena di luce al settimo piano, dalla cui finestra si poteva ammirare uno dei quar­tieri più belli della città. Vi assicuriamo che alla fine della lettura di questo racconto, accompagnando l'ineso­rabile discesa di Giuseppe Corte di piano in piano fino all'oscurità definitiva del primo, la vostra stanza, anche se con la vernice scrostata sui muri e i letti da caserma, vi apparirà una eccellente ludoteca per bambini. 
Fabio Stassi - In Curarsi con i libri, Sellerio, 2013
Dino Buzzati

I sette piani
di Dino Buzzati
Dopo un giorno di viaggio in treno, Giuseppe Corte arrivò, una mattina di marzo, alla città dove c'era la famosa casa di cura. Aveva un po' di febbre, ma volle fare ugualmente a piedi strada fra la stazione e l'ospedale, portandosi la sua valigetta. Benché avesse soltanto una leggerissima forma incipiente, Giuseppe Corte era stato consigliato di rivolgersi al celebre sanatorio, dove non si curava che quell'unica malattia. Ciò garantiva un'eccezionale competenza nei medici e la più razionale ed efficace sistemazione d'impianti.
Quando lo scorse da lontano - e lo riconobbe per averne già visto la fotografia in una circolare pubblicitaria - , Giuseppe Corte ebbe un'ottima impressione. Il bianco edificio a sette piani era solcato da regolari rientranze che gli davano una fisionomia vaga d'albergo. Tutt'attorno era una cinta di alti alberi.
Dopo una sommaria visita medica, in attesa di un esame più accurato Giuseppe Corte fu messo in una gaia camera del settimo ed ultimo piano. I mobili erano chiari e lindi come la tappezzeria, le poltrone erano di legno, i cuscini rivestiti di policrome stoffe. La vista spaziava su uno dei più bei quartieri della città. Tutto era tranquillo, ospitale e rassicurante.
Giuseppe Corte si mise subito a letto e, accesa la lampadina sopra il capezzale, cominciò a leggere un libro che aveva portato con sé... Poco dopo entrò un'infermiera per chiedergli se desiderasse qualcosa...

Giuseppe Corte non desiderava nulla ma si mise volentieri a discorrere con la giovane, chiedendo informazioni sulla casa di cura. Seppe così la strana caratteristica di quell'ospedale. I malati erano distribuiti piano per piano a seconda della gravità. Il settimo, cioè l'ultimo, era per le forme leggerissime. Il sesto era destinato ai malati non gravi ma neppure da trascurare. Al quinto si curavano già affezioni serie e così di seguito, di piano in piano. Al secondo erano i malati gravissimi. Al primo, quelli per cui era inutile sperare.
Questo singolare sistema, oltre a sveltire grandemente il servizio, impediva che un malato leggero potesse venir turbato dalla vicinanza di un collega in agonia, e garantiva in ogni piano un'atmosfera omogenea. D'altra parte la cura poteva venir così graduata in modo perfetto.
Ne derivava che gli ammalati erano divisi in sette progressive caste.
Ogni piano era come un piccolo mondo a sé, con le sue particolari regole, con le sue speciali tradizioni. E siccome ogni settore era affidato a un medico diverso, si erano formate, sia pure minime, ma precise differenze nei metodi di cura, nonostante il direttore generale avesse impresso all'istituto un unico fondamentale indirizzo.
Quando l'infermiera fu uscita, Giuseppe Corte, sembrandogli che la febbre fosse scomparsa, raggiunse la finestra e guardò fuori, non per osservare il panorama della città, che pure era nuovo per lui, ma nella speranza di scorgere, attraverso le finestre, altri ammalati dei piani inferiori. La struttura dell'edificio, a grandi rientranze, permetteva tale genere di osservazione. Soprattutto Giuseppe Corte concentrò la sua attenzione sulle finestre del primo piano che sembravano lontanissime, e che si scorgevano solo di sbieco. Ma non poté vedere nulla di interessante. La maggioranza erano ermeticamente sprangate dalle grigie persiane scorrevoli.
Il Corte si accorse che a una finestra di fianco alla sua stava affacciato un uomo. I due si guardarono a lungo con crescente simpatia, ma non sapevano come rompere il silenzio. Finalmente Giuseppe Corte si fece coraggio e disse: "Anche lei sta qui da poco?"
"Oh no - fece l'altro - sono qui già da due mesi..." tacque qualche istante e poi, non sapendo come continuare la conversazione, aggiunse: "Guardavo giù mio fratello."
"Suo fratello?"
"Sì." spiegò lo sconosciuto. "Siamo entrati insieme, un caso veramente strano, ma lui è andato peggiorando, pensi che adesso è già al quarto."
"Al quarto che cosa?"
"Al quarto piano" spiegò l'individuo e pronunciò le due parole con una tale espressione di commiserazione e di orrore, che Giuseppe Corte restò quasi spaventato.
"Ma son così gravi al quarto piano?" domandò cautamente.
"Oh Dio" fece l'altro, scuotendo lentamente la testa "non sono ancora così disperati, ma comunque poco da stare allegri."
"Ma allora", chiese ancora il Corte, con una scherzosa disinvoltura come di chi accenna a cose tragiche che non lo riguardano, "allora, se al quarto sono già così gravi, al quinto chi mettono allora?"
"0h, al primo sono proprio i moribondi. Laggiù i medici non hanno più niente da fare. C'è solo il prete che lavora. E naturalmente..."
"Ma ce n'è pochi al primo piano" interruppe Giuseppe Corte, come se gli premesse di avere una conferma "quasi tutte le stanze sono chiuse laggiù."
"Ce n'è pochi, adesso, ma stamattina ce n'erano parecchi" rispose lo sconosciuto con un sottile sorriso. "Dove le persiane sono abbassate lì qualcuno è morto da poco. Non vede, del resto, che negli altri piani tutte le imposte sono aperte? Ma mi scusi, aggiunse ritraendosi lentamente "mi pare che cominci a far freddo. Io ritorno in letto.
Auguri, auguri..."
L'uomo scomparve dal davanzale e la finestra venne chiusa con energia; poi si vide accendersi dentro una luce. Giuseppe Corte se ne stette ancora immobile alla finestra fissando le persiane abbassate del primo piano. Le fissava con un'intensità morbosa, cercando di immaginare i funebri segreti di quel terribile primo piano dove gli ammalati venivano confinati a morire; e si sentiva sollevato di sapersene cosi lontano. Sulla città scendevano intanto le ombre della sera. Ad una ad una le mille finestre del sanatorio si illuminavano, da lontano si sarebbe potuto pensare a un palazzo in festa. Solo al primo piano, laggiù in fondo al precipizio, decine e decine di finestre rimanevano cieche e buie.
Il risultato della visita medica generale rasserenò Giuseppe Corte. Incline di solito a prevedere il peggio, egli si era già in cuor suo preparato a un verdetto severo, e non sarebbe rimasto sorpreso se il medico gli avesse dichiarato di doverlo assegnare al piano inferiore. La febbre infatti non accennava a scomparire, nonostante le condizioni generali si mantenessero buone. Invece il sanitario gli rivolse parole cordiali e incoraggianti. Un principio di male c'era - gli disse - ma leggerissimo; in due o tre settimane probabilmente tutto sarebbe passato.
"E allora resto al settimo piano?" aveva domandato ansiosamente Giuseppe Corte a questo punto.
"Ma naturalmente!" gli aveva risposto il medico battendogli amichevolmente una mano su una spalla. E dove pensava di dover andare? Al quarto forse? chiese ridendo, come per alludere alla ipotesi più assurda.
"Meglio così, meglio così!" fece il Corte. "Sa? Quando si è ammalati si immagina sempre il peggio".
Giuseppe Corte infatti rimase nella stanza che gli era stata assegnata originariamente. Imparò a conoscere alcuni dei suoi compagni di ospedale, nei rari pomeriggi in cui gli veniva concesso d'alzarsi. Seguì scrupolosamente la cura, mise tutto l'impegno a guarire rapidamente, ma ciononostante le sue condizioni pareva rimanessero stazionarie.
Erano passati circa dieci giorni, quando a Giuseppe Corte si presentò il capo-infermiere del settimo piano. Aveva da chiedere un favore in via puramente amichevole: il giorno dopo doveva entrare all'ospedale una signora con due bambini; due camere erano, libere, proprio di fianco alla sua, ma mancava la terza; non avrebbe consentito il signor Corte a trasferirsi in un'altra camera, altrettanto confortevole? Giuseppe Corte non fece naturalmente nessuna difficoltà; una camera o un'altra per lui erano lo stesso; gli sarebbe anzi toccata forse una nuova e più graziosa infermiera.
"La ringrazio di cuore", fece allora il capo-infermiere con un leggero inchino; da una persona come lei le confesso non mi stupisce un così gentile atto di cavalleria. Fra un'ora, se lei non ha nulla in contrario, procederemo al trasloco. Guardi che bisogna scendere al piano di sotto" aggiunse con voce attenuata come se si trattasse di un particolare assolutamente trascurabile. "Purtroppo in questo piano non ci sono altre camere libere. Ma è una sistemazione assolutamente provvisoria, " si affrettò a specificare vedendo che Corte, rialzatosi di colpo a sedere, stava per aprir bocca in atto di protesta, "una sistemazione assolutamente provvisoria. Appena resterà libera una stanza, e credo che sarà fra due o tre giorni, lei potrà tornare di sopra."
"Le confesso", disse Giuseppe Corte sorridendo, per dimostrare di non essere un bambino "le confesso che un trasloco di questo genere non mi piace affatto."
"Ma non ha alcun motivo medico questo trasloco; capisco benissimo quello che lei intende dire, si tratta unicamente di una cortesia a questa signora che preferisce non rimaner separata dai suoi bambini... Per carità", aggiunse ridendo apertamente "non le venga neppure in mente che ci siano altre ragioni".
"Sarà", disse Giuseppe Corte "ma mi sembra di cattivo augurio".
Corte così passò al sesto piano, e sebbene fosse convinto che questo trasloco non corrispondesse a un peggioramento del male, si sentiva a disagio al pensiero che tra lui e il mondo normale, della gente sana, già si frapponesse un netto ostacolo. Al settimo piano, porto d'arrivo, si era in un certo modo ancora in contatto con il consorzio degli uomini; esso si poteva anzi considerare quasi un prolungamento del mondo abituale. Ma al sesto già si entrava nel corpo autentico dell'ospedale; già la mentalità dei medici, delle infermiere e degli stessi ammalati era leggermente diversa. Già si ammetteva che a quel piano venivano accolti dei veri e propri ammalati, sia pure in forma non grave. Dai primi discorsi fatti con i vicini di stanza, con il personale e con i sanitari, Giuseppe Corte si accorse come in quel reparto, il settimo piano venisse considerato come uno scherzo, riservato ad ammalati dilettanti, affetti più che altro da fisime; solo dal sesto, per così dire, si cominciava davvero.
Comunque Giuseppe Corte capì che per tornare di sopra, al posto che gli competeva per le caratteristiche del suo male, avrebbe certamente incontrato qualche difficoltà; per tornare al settimo piano, egli doveva mettere in moto un complesso organismo, sia pure per un minuto sforzo; non c'era dubbio che se egli non avesse fiatato, nessuno avrebbe pensato a trasferirlo di nuovo al piano superiore dei "quasi-sani".
Giuseppe Corte si propose perciò di non transigere sui suoi diritti e di non cedere alle lusinghe dell'abitudine. Ai compagni di reparto teneva molto a specificare che trovarsi con loro, soltanto per pochi giorni, ch'era stato lui a voler scendere d'un piano per fare un piacere a una signora, e che appena fosse rimasta libera una stanza sarebbe tornato di sopra. Gli altri lo ascoltavano senza interesse e annuivano con scarsa convinzione.
II convincimento di Giuseppe Corte trovò piena conferma nel giudizio del nuovo medico. Anche questi ammetteva che Giuseppe Corte poteva benissimo essere assegnato al settimo piano; la sua forma era as-so-lu-ta-men-te leg-ge-ra e scandiva tale definizione per darle importanza - ma in fondo riteneva che al sesto piano Giuseppe Corte forse potesse essere meglio curato.
"Non cominciamo con queste storie", interveniva a questo punto il malato con decisione. "Lei mi ha detto che il settimo piano è il mio posto e voglio ritornarci".
"Nessuno ha detto il contrario". ribatteva il dottore "il mio era un puro e semplice consiglio non da dot-to-re, ma da au-ten-ti-co a-mi-co! La sua forma, le ripeto, è leggerissima, non sarebbe esagerato dire che lei non è nemmeno ammalato, ma secondo me si distingue da forme analoghe per una certa maggiore estensione. Mi spiego: l'intensità del male è minima, ma considerevole l'ampiezza; il processo distruttivo delle cellule" (era la prima volta che Giuseppe Corte sentiva là dentro quella sinistra espressione "il processo distruttivo delle cellule") è assolutamente agli inizi, forse non è neppure cominciato, ma tende, dico, solo tende, a colpire contemporaneamente vaste porzioni dell'organismo. Solo per questo, secondo me, lei può essere curato più efficacemente qui, al sesto, dove i metodi terapeutici sono più tipici ed intensi. Un giorno gli fu riferito che il direttore generale della casa di cura, dopo essersi lungamente consultato con i suoi collaboratori, aveva deciso un mutamento nella suddivisione dei malati. Il grado di ciascuno di essi - per così dire - veniva ribassato di un mezzo punto. Ammettendosi che in ogni piano gli ammalati fossero divisi, a seconda della loro gravità, in due categorie, (questa suddivisione veniva effettivamente fatta dai rispettivi medici, ma ad uso esclusivamente interno) l'inferiore di queste due metà veniva d'ufficio traslocata a un piano più basso. Ad esempio, la metà degli ammalati del sesto piano, quelli con forme leggermente più avanzate, dovevano passare al quinto; e i meno leggeri del settimo piano passare al sesto. La notizia fece piacere a Giuseppe Corte, perché in un così complesso quadro di traslochi, il suo ritorno al settimo piano sarebbe riuscito assai più facile.
Quando accennò a questa sua speranza con l'infermiera egli ebbe però un'amara sorpresa. Seppe cioè che egli sarebbe stato traslocato, ma non al settimo, bensì al piano di sotto. Per motivi che l'infermiera non sapeva spiegargli, egli era stato compreso nella metà più "grave" degli ospiti del sesto piano e doveva perciò scendere al quinto.
Passata la prima sorpresa, Giuseppe Corte andò in furore; gridò che lo truffavano, che non voleva sentir parlare di altri traslochi in basso, che se ne sarebbe tornato a casa, che i diritti erano diritti e che l'amministrazione dell'ospedale non poteva trascurare così sfacciatamente le diagnosi dei sanitari.
Mentre egli ancora gridava arrivò il medico per tranquillizzarlo. Consigliò al Corte di calmarsi se non avesse voluto veder salire la febbre, gli spiegò che era successo un malinteso, almeno parziale. Ammise ancora una volta che Giuseppe Corte sarebbe stato al suo giusto posto se lo avessero messo al settimo piano, ma aggiunse di avere sul suo caso un concetto leggermente diverso, se pure personalissimo. In fondo in fondo la sua malattia poteva, in un certo senso s'intende, essere anche considerata di sesto grado, data l'ampiezza delle manifestazioni morbose. Lui stesso però non riusciva a spiegarsi come il Corte fosse stato catalogato nella metà inferiore del sesto piano. Probabilmente il segretario della direzione, che proprio quella mattina gli aveva telefonato chiedendo l'esatta posizione clinica di Giuseppe Corte, si era sbagliato nel trascrivere. o meglio la direzione aveva di proposito leggermente "peggiorato" il suo giudizio, essendo egli ritenuto un medico esperto ma troppo indulgente. Il dottore infine consigliava il Corte a non inquietarsi, a subire senza proteste il trasferimento; quello che contava era la malattia, non il posto in cui veniva collocato un malato.
Per quanto si riferiva alla cura - aggiunse ancora il medico - Giuseppe Corte non avrebbe poi avuto da rammaricarsi; il medico del piano di sotto aveva certo più esperienza; era quasi dogmatico che l'abilità dei dottori andasse crescendo, almeno a giudizio della direzione, man mano che si scendeva. La camera era altrettanto comoda ed elegante. La vista ugualmente spaziosa: solo dal terzo piano in giù la visuale era tagliata dagli alberi di cinta.
Giuseppe Corte, in preda alla febbre serale, ascoltava ascoltava le meticolose giustificazioni con una progressiva stanchezza. Alla fine si accorse che gli mancavano la forza e soprattutto la voglia di reagire ulteriormente all'ingiusto trasloco. E senza altre proteste si lasciò portare al piano di sotto.
L'unica, benché povera, consolazione di Giuseppe Corte, una volta che si trovò al quinto piano, fu di sapere che per giudizio concorde di medici, di infermieri e ammalati, egli era in quel reparto il menu grave di tutti. Nell'ambito di quel piano insomma egli poteva considerarsi di gran lunga il più fortunato. Ma d'altra parte lo tormentava il pensiero che oramai ben due barriere si frapponevano fra lui e il mondo della gente normale.
Procedendo la primavera, l'aria intanto si faceva più tepida, ma Giuseppe Corte non amava più come nei primi giorni affacciarsi alla finestra; benché un simile timore fosse una pura sciocchezza, egli si sentiva rimescolare tutto da uno strano brivido alla vista delle finestre del primo piano, sempre nella maggioranza chiuse, che si erano fatte assai più vicine.
Il suo male sembrava stazionario. Dopo tre giorni di permanenza al quinto piano, si manifestò anzi sulla gamba destra una specie di eczema che non accennò a riassorbirsi nei giorni successivi. Era un'affezione - gli disse il medico - assolutamente indipendente dal male principale; un disturbo che poteva capitare alla persona più sana del mondo. Ci sarebbe voluta, per eliminarlo in pochi giorni, una intensa cura di raggi digamma.
"E non si possono avere qui i raggi digamma?", chiese Giuseppe Corte.
"Certamente" rispose compiaciuto il medico, "il nostro ospedale dispone di tutto. C'è un solo inconveniente....
"Che cosa?" fece il Corte con un vago presentimento.
"Inconveniente per modo di dire". si corresse il dottore, "volevo dire che l'installazione per i raggi si trova soltanto al quarto piano e io le sconsiglierei di fare tre volte al giorno un simile tragitto".
"E allora niente?"
"Allora sarebbe meglio che fino a che l'espulsione non sia passata lei avesse la compiacenza di scendere al quarto."
"Basta!" urlò allora esasperato Giuseppe Corte. Ne ho già abbastanza di scendere! Dovessi crepare, al quarto non ci vado!"
"Come lei crede" fece conciliante il medico per non irritarlo "come medico curante, badi che le proibisco di andar da basso tre volte al giorno".
Il brutto fu che l'eczema, invece di attenuarsi, andò lentamente ampliandosi. Giuseppe Corte non riusciva a trovare requie e continuava a rivoltarsi nel letto. Durò così, rabbioso, per tre giorni, fino a che dovette cedere. Spontaneamente pregò il medico di fargli praticare la cura dei raggi e di essere trasferito al piano inferiore.
Quaggiù il Corte notò, con inconfessato piacere, di rappresentare un'eccezione. Gli altri ammalati del reparto erano decisamente in condizioni molto serie e non potevano lasciare neppure per un minuto il letto. Egli invece poteva prendersi il lusso di raggiungere a piedi, dalla sua stanza, la sala dei raggi, fra i complimenti e la meraviglia delle stesse infermiere.
Al nuovo medico, egli precisò con insistenza la sua posizione specialissima. Un ammalato che in fondo aveva diritto al settimo piano veniva a trovarsi al quarto. Appena l'espulsione fosse passata, egli intendeva ritornare di sopra. Non avrebbe assolutamente ammesso alcuna nuova scusa. Lui, che sarebbe potuto trovarsi legittimamente ancora al settimo.
"Al settimo, al settimo!." esclamò sorridendo il medico, che finiva proprio allora di visitarlo. Sempre esagerati voi ammalati. Sono il primo io a dire che lei può essere contento del suo stato; a quanto vede, dalla tabella clinica, grandi peggioramenti non ci sono stati. Ma da questo a parlare di settime, piano - mi scusi la brutale sincerità - c'è una certa differenza! Lei è uno dei casi meno preoccupanti, ne convengo io, ma è pur sempre un ammalato!"
"E allora, allora" fece Giuseppe Corte accendendosi tutto nel volto, "lei a che piano mi metterebbe?"
"0h, Dio, non è facile dire, non le ho fatto che una breve visita, per poter pronunciarmi dovrei seguirla per almeno una settimana."
"Va bene" insistette Corte "ma pressapoco lei saprà"
Il medico per tranquillizzarlo, fece finta di concentrarsi un momento in meditazione e poi, annuendo con il capo a se stesso, disse lentamente: "Oh Dio, proprio per accontentarla, ecco, ma potremo in fondo metterla al sesto!"
"Sì sì" aggiunse come per persuadere se stesso. "Il sesto potrebbe andar bene."
II dottore credeva così di far lieto il malato. Invece sul volto di Giuseppe Corte si diffuse un'espressione di sgomento: si accorgeva, il malato, che i medici degli ultimi piani l'avevano ingannato; ecco, qui questo nuovo dottore, evidentemente più abile e più onesto, che in cuor suo - era evidente - lo assegnava, non al settimo, ma al quinto piano, e forse al quinto inferiore! La delusione inaspettata prostrò il Corte. Quella sera la febbre salì sensibilmente. La permanenza al quarto piano segnò il periodo più tranquillo passato da Giuseppe Corte dopo l'entrata all'ospedale.
Il medico era persona simpaticissima, premurosa e cordiale; si tratteneva spesso anche per delle ore intere a chiacchierare degli argomenti più svariati. Giuseppe Corte discorreva pure molto volentieri, cercando argomenti che riguardassero la sua solita vita d'avvocato e d'uomo di mondo. Egli cercava di persuadersi di appartenere ancora al consorzio degli uomini sani, di essere ancora legato al mondo degli affari, di interessarsi veramente dei fatti pubblici. Cercava, senza riuscirvi. Invariabilmente il discorso finiva sempre per cadere sulla malattia.
Il desiderio di un miglioramento qualsiasi era divenuto in Giuseppe Corte un'ossessione. Purtroppo i raggi digamma, se erano riusciti ad arrestare il diffondersi dell'espulsione cutanea, non erano bastati ad eliminarla. Ogni giorno Giuseppe Corte ne parlava lungamente col medico e si sforzava in questi colloqui di mostrarsi forte, anzi ironico, senza mai riuscirvi.
"Mi dica, dottore. disse un giorno, come va il processo distruttivo delle mie cellule?"
"0h, ma che brutte parole!" lo rimproverò scherzosamente il dottore. "Dove mai le ha imparate? Non sta bene, non sta bene, soprattutto per un malato! Mai più voglio sentire da lei discorsi simili"
"Va bene" obiettò il Corte "ma così lei non mi ha risposto"
"0h, le rispondo subito" fece il dottore cortese. "Il processo distruttivo delle cellule, per ripetere la sua orribile espressione, è, nel suo caso minimo, assolutamente minimo. Ma sarei tentato di definirlo ostinato"
"Ostinato, cronico vuol dire?"
"Non mi faccia dire quello che non ho detto. lo voglio dire soltanto ostinato. Del resto sono così la maggioranza dei casi. Affezioni anche lievissime spesso hanno bisogno di cure energiche e lunghe"
"Ma mi dica, dottore, quando potrò sperare in un miglioramento?"
"Quando? Le predizioni in questi casi sono piuttosto difficili... Ma senta" aggiunse dopo una pausa meditativa "vedo che lei ha una vera e propria smania di guarire... se non temessi di farla arrabbiare, sa che cosa le consiglierei?"
"Ma dica, dica pure, dottore...."
"Ebbene, le pongo la questione in termini molto chiari. Se io, colpito da questo male in forma anche tenuissima, capitassi in questo sanatorio, che è forse il migliore che esista, mi farei assegnare spontaneamente, e fin dal primo giorno, fin dal prima giorno, capisce? a uno dei piani più bassi. Mi farei mettere addirittura al...."
"Al primo?" suggerì con uno sforzato sorriso il Corte.
"Oh no! al primo no!" rispose ironico il medico, "questo poi no! Ma al terzo o anche al secondo di certo. Nei piani inferiori la cura è fatta molto meglio, le garantisco, gli impianti sono più completi e potenti, il personale è più abile. Lei sa poi chi è l'anima di questo ospedale?"
"Non è il professor Dati?"
"Già il professor Dati. E' lui I'inventore della cura che qui si pratica, lui il progettista dell'intero impianto. Ebbene, lui, il maestro, sta, per così dire, fra il primo e il secondo piano. Di là irraggia la sua forza direttiva. Ma, glielo garantisco io, il suo influsso non arriva oltre al terzo piano; più in là si direbbe che gli stessi suoi ordini si sminuzzino, perdano di consistenza, deviino; il cuore dell'ospedale è in basso e in basso bisogna stare per avere le cure migliori"
"Ma insomma" fece Giuseppe Corte con voce tremante, "allora lei mi consiglia ..."
"Aggiunga una cosa" continuò imperterrito il dottore "aggiunga che nel suo caso particolare ci sarebbe da badare anche all'espulsione. Una cosa di nessuna importanza ne convengo, ma piuttosto noiosa, che a lungo andare potrebbe deprimere il suo "morale"; e lei sa quanto è importante per la guarigione la serenità di spirito. Le applicazioni di raggi che io le ho fatte sono riuscite solo a metà fruttuose. Il perché può darsi che sia un puro caso, ma può darsi anche che i raggi non siano abbastanza intensi. Ebbene, al terzo piano le macchine dei raggi sono molto più potenti. Le probabilità di guarire il suo eczema sarebbero molto maggiori. Poi vede? una volta avviata la guarigione, il passo più difficile è fatto. Quando si comincia a risalire, è poi difficile tornare ancora indietro. Quando lei si sentirà davvero meglio, allora nulla impedirà che lei risalga qui da noi o anche più in su, secondo i suoi "meriti" anche al quinto, al sesto, persino al settimo oso dire"
"Ma lei crede che questo potrà accelerare la cura?"
"Ma non ci può essere dubbio. Le ho già detto che cosa farei io nei suoi panni"
Discorsi di questo genere il dottore ne faceva ogni giorno a Giuseppe Corte. Venne infine il momento in cui il malato, stanco di patire per l'eczema, nonostante l'istintiva riluttanza a scendere, decise di seguire il consiglio del medico e si trasferì al piano di sotto.
Notò subito al terzo piano che nel reparto 'regnava una speciale gaiezza', sia nel medico, sia nelle infermiere, sebbene laggiù fossero in cura ammalati molto preoccupanti. Si accorse anzi che di giorno in giorno questa gaiezza andava aumentando: incuriosito, dopo che ebbe preso un po' di confidenza con l'infermiera, domandò come mai fossero tutti così allegri.
"Ah, non lo sa?" rispose l'infermiera "fra tre giorni andiamo in vacanza"
"Come andiamo in vacanza?"
"Ma sì. Per quindici giorni, il terzo piano si chiude e il personale se ne va a spasso. Il riposo tocca a turno ai vari piani"
"E i malati? come fate?"
"Siccome ce n'è relativamente pochi, di due piani se ne fa uno solo.."
"Come? riunite gli ammalati del terzo e del quarto?"
"No, no" corresse l'infermiera "del terzo e del secondo. Quelli che sono qui dovranno discendere da basso"
"Discendere al secondo?" fece Giuseppe Corte, pallido come un morto. "lo dovrei cosi scendere al secondo?"
"Ma certo. E che cosa c'è di strano? Quando torniamo, fra quindici giorni, lei ritornerà in questa stanza. Non mi pare che ci sia da spaventarsi"
Invece Giuseppe Corte - un misterioso istinto lo avvertiva - fu invaso da una crudele paura. Ma, visto che non poteva trattenere il personale dall'andare in vacanza, convinto che la nuova cura coi raggi più intensi gli facesse bene - l'eczema si era quasi completamente riassorbita - egli non osò muovere formale opposizione al nuovo trasferimento. Pretese però, incurante dei motteggi delle infermiere, che sulla porta della sua nuova stanza fosse attaccato un cartello con su scritto "Giuseppe Corte, del terzo piano, di passaggio". Una cosa simile non trovava precedenti nella storia del sanatorio, ma i medici non si opposero, pensando che in un temperamento nervoso quale il Corte anche una piccola contrarietà potesse provocare una grave scossa. Si trattava in fondo di aspettare quindici giorni non uno di più, non uno di meno. Giuseppe Corte si mise a contarli con avidità ostinata, restando per delle ore intere immobile sul letto, con gli occhi fissi sui mobili, che al secondo piano non erano più così moderni e gai come nei reparti superiori, ma assumevano dimensioni più grandi e linee più solenni e severe. E di tanto in tanto aguzzava le orecchie poiché gli pareva di udire dal piano di sotto, il piano dei moribondi, il reparto dei "condannati", vaghi rantoli di agonie.
Tutto questo naturalmente contribuiva a scoraggiarlo. E la minore serenità sembrava aiutare la malattia, la febbre tendeva a salire, la debolezza generale si faceva più fonda. Dalla finestra - si era oramai in piena estate e i vetri si tenevano quasi sempre aperti - non si scorgevano più i tetti e neppure le case della città, ma soltanto la muraglia verde degli alberi che circondavano l'ospedale.
Dopo sette giorni, un pomeriggio verso le due, entrarono improvvisamente il capo-infermiere e tre infermieri, che spingevano un lettuccio a rotelle.
"Siamo pronti per il trasloco?" domandò in tono di bonaria celia il capo-infermiere.
"Che trasloco?" domandò con voce stentata Giuseppe Corte "che altri scherzi sono questi? Non tornano fra sette giorni quelli del terzo piano?"
"Che terzo piano?" disse il capo-infermiere come se non capisse "io ho avuto l'ordine di condurla al primo, guardi qua." e fece vedere un modulo stampato per il passaggio al piano inferiore firmato nientemeno che dallo stesso professore Dati.
Il terrore, la rabbia infernale di Giuseppe Corte esplosero allora in lunghe irose grida che si ripercossero per tutto il reparto. "Adagio, adagio per carità", supplicarono gli infermieri "ci sono dei malati che non stanno bene". Ma ci voleva altro per calmarlo. Finalmente accorse il medico che dirigeva il reparto, una persona gentilissima e molto educata. Si informò, guardò il modulo, si fece spiegare dal Corte. Poi si rivolse incollerito al capo-infermiere, dichiarando che c'era stato uno sbaglio, lui non aveva dato alcuna disposizione del genere, da qualche tempo c'era un'insopportabile confusione, lui veniva tenuto all'oscuro d tutto... Infine, detto il fatto suo al dipendente, si rivolse, in tono cortese, al malato, scusandosi profondamente. "Purtroppo però" aggiunse il medico "purtroppo il professor Dati proprio un'ora fa è partito, per una breve licenza, non tornerà che fra due giorni. Sono assolutamente desolato, ma i suoi ordini non possono essere trasgrediti. Sarà lui il primo a rammaricarsene, glielo garantisco... un errore simile! Non capisco come possa essere accaduto!"
Ormai un pietoso tremito aveva preso a scuotere Giuseppe Corte. La capacità di dominarsi gli era completamente sfuggita. Il terrore l'aveva sopraffatto come un bambino. I suoi singhiozzi risuonavano lenti e disperati per la stanza.
Giunse così, per quell'esecrabile errore, all'ultima stazione. Nel reparto dei moribondi lui, che in fondo, per la gravità del male, a giudizio anche dei medici più severi, aveva il diritto di essere assegnato al sesto, se non al settimo piano! La situazione era talmente grottesca che in certi istanti Giuseppe Corte sentiva quasi la voglia di sghignazzare senza ritegno.
Disteso nel letto, mentre il caldo pomeriggio dell'estate passava lentamente sulla grande città, egli guardava il verde degli alberi attraverso la finestra con l'impressione di esser giunto in un mondo irreale, fatto di assurde pareti a piastrelle sterilizzate, di gelidi androni mortuari, di bianche figure umane vuote di anima. Gli venne persino in mente che anche gli alberi che gli sembrava di scorgere attraverso la finestra non fossero veri; finì anzi per convincersene, notando che le foglie non si muovevano affatto.
Questa idea lo agitò talmente, che il Corte chiamò col campanello l'infermiera e si fece porgere gli occhiali da miope, che in letto non adoperava; solo allora riuscì a tranquillizzarsi un poco: con l'aiuto delle lenti poté assicurarsi che erano proprio alberi veri e che le foglie, sia pur leggermente, ogni tanto erano mosse dal vento.
Uscita che fu l'infermiera, passò un quarto d'ora di completo silenzio. Sei piani, sei terribili muraglie, sia pure per un errore formale, sovrastavano adesso Giuseppe Corte con implacabile peso. In quanti anni, sì, bisognava pensare proprio ad anni, in quanti anni egli sarebbe riuscito a risalire fino all'orlo di quel precipizio?
Ma come mai la stanza si faceva improvvisamente così buia? Era pur sempre pomeriggio pieno. Con uno sforzo supremo Giuseppe Corte, che si sentiva paralizzato da uno strano torpore, guardò l'orologio, sul comodino, di fianco al letto. Erano le tre e mezzo. Voltò il capo dall'altra parte, e vide che le persiane scorrevoli, obbedienti a un misterioso comando, scendevano lentamente, chiudendo il passo alla luce.


da Dino Buzzati, La boutique del mistero, Oscar Mondadori 2006 

Ultimo brindisi. Una poesia di Anna Achmatova

Bevo a una casa distrutta,
alla mia vita sciagurata,
a solitudini vissute in due
e bevo anche a te:
all'inganno di labbra che tradirono,
al morto gelo dei tuoi occhi,
ad un mondo crudele e rozzo,
ad un Dio che non ci ha salvato.

1913

28.1.14

Ritratto di un romanziere. Pizzuto, Joyce di Sicilia (Franco Cordelli)


Si riparano bambole 
è l'equivalente novecentesco 
di Una vita 
Che ne è di Antonio Pizzuto? Coetaneo di Gadda (Pizzuto nacque a Palermo nel 1893), egli ebbe più travagliata vicenda. Quando nel 1959 Romano Bilenchi e Mario Luzi pubblicarono per Lerici Signorina Rosina, scoppiò il caso. Era un esordio tardivo. Aleggiava Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, lontano dall' essere il classico che oggi è; non erano pervenuti all'attenzione o alla conoscenza gli altri due stilisti siciliani, Stefano D'Arrigo e Gesualdo Bufalino. 
Il caso Pizzuto ebbe risonanza mentre si affermava la neoavanguardia in Francia, in Germania e in Italia. Ma Pizzuto non fu riconosciuto come uno dei padri. Il primo a prendere atto di quell'eccezionale debutto fu Luigi Baldacci, che dell'avanguardia non era un compagno di strada. Grande interesse mostrarono, tra gli altri, Ruggero Jacobbi, Oreste Del Buono e Giuliano Gramigna. Ma quando Gianfranco Contini dichiarò la sua predilezione e poi amicizia per l' ex questore siciliano, quello apparve il momento della consacrazione. Pure, non c' è consacrazione che tenga. Dopo i primi tre romanzi (mi riferisco a Signorina Rosina, a Si riparano bambole del 1960 e a Ravenna del 1962), la cui fisionomia narrativa è, secondo Contini, «garantita anche al lettore comune», Pizzuto, già ritenuto sconcertante se non troppo arduo alla lettura, proseguì imperterrito per la sua strada di epigono joyciano. Ma un epigono testardo, che non si arrende alla sua propria condizione, non può che essere estremista, andare fino in fondo alla sua vocazione. È ciò che accadde all'autore di Paginette, di Sinfonia, di Testamento, di Pagelle e di Ultime e penultime (postumo, del 1978) - libri che potrebbero essere un equivalente, sul piano della sperimentazione, di Finnegans Wake.
Con prefazione di Walter Pedullà, l'unico critico vicino all' avanguardia che abbia sostenuto la causa di Pizzuto, nel 1985 Mondadori pubblicò Sul ponte di Avignone, un romanzo del 1938, uscito con uno pseudonimo e da Pizzuto ripudiato. Negli anni Novanta vennero alla luce due romanzi degli anni Quaranta, decisamente minori, Rapin e Rapier e Così: Gabriele Frasca e Andrea Cortellessa ne furono, della nuova generazione critica, tra i pochissimi sostenitori. Un filo di lettori, tenace e che non si vuole spezzare, come si vede c'è: mi riferisco anche alla riedizione di Sellerio del romanzo più bello di Pizzuto, Si riparano bambole, curata da Gualberto Alvino (pagine 328, euro 9,30). Ed è proprio Si riparano bambole che ho avuto la ventura di leggere oggi per la prima volta. Ragazzo, fui da Pizzuto abbagliato. Ma me ne dimenticai, me ne ero dimenticato anch'io. Leggendo Si riparano bambole colpisce la qualità opposta a quella per cui a vent'anni mi sarei fatto sbudellare, come si diceva avrebbe fatto la gioventù di allora per Capriccio italiano di Sanguineti. Non mi è sembrato un romanzo d'avanguardia, né un romanzo difficile, se vogliamo usare un termine così generico, ma un romanzo di prosa sostanzialmente classica. Perché a quasi mezzo secolo di distanza (ma è uno ieri che sembra ancora oggi) Si riparano bambole risulta tanto diverso da allora, da come negli anni Sessanta a me e a tutti appariva la prosa di Pizzuto? Per sommi capi, Si riparano bambole è un equivalente novecentesco di Una vita di Maupassant, il suo rovescio. Vi è, appunto, narrata una vita (narrare, diceva Pizzuto, poiché raccontare pietrifica, astrae il dettato dai fatti, non ne è parte in causa - come Artaud voleva fosse parte in causa l'attore con il teatro nella sua totalità e istantanea assolutezza). La differenza da Maupassant è che la vita del protagonista, Pofi, è narrata per frammenti minuscoli come coriandoli, dissolti in un poetico fuoco d'artificio. Non solo: questi coriandoli sono accostati per frammenti d'epoche biografiche (infanzia, prima maturità, senilità) e queste epoche sono agglutinate da un continuum narrativo che restituisce il senso di un'opera potente, benché smilza e fuggitiva. La vita di Pofi è, alla lettura, interminabile e nello stesso tempo si dissolve, a fronte di un' attenzione pure costante, come un sogno: essa è fuggita via, non ce ne siamo accorti. Più la vita di ciascuno si carica di esistenziale densità, meglio si rarefà e perde di senso. Celebrando di fatto l'ellittico, l' implicito, addirittura il reticente, se la prosa di Pizzuto esprime al più alto grado di incandescenza il furore distruttivo del moderno e la conseguente vergogna della letteratura, ad un livello più intimo tramanda un sentimento chiuso, raggomitolato, pudico. Nel trionfo della parte per il tutto c'è, dice Pizzuto descrivendo l'attività di Pofi come scrittore dilettante, «una sottile malizia, di spregiudicato che concentra il gusto nel poco». È il sentimento di un bambino che resta per tutta la vita bambino, che non vuole troppa realtà e che, per rifiutarla, la osserva così capillarmente da restituirla nella forma più compatta - nello stesso tempo sottraendola al gusto postmoderno per una storia raccontata con accenti sintatticamente più distesi, ovvero più emotivamente quieti. È la risposta alla domanda iniziale: che ne è di un grande scrittore se la sua opera non viene letta? Quanto quell' opera è grande o si può ritenere tale? Pizzuto morì a Roma, i1 23 novembre del 1976.


Corriere della sera, 27 dicembre 2004

"Rubate ciò che vi è stato rubato" (di Hans Magnus Enzensberger)

Da La fine del Titanic
Canto Quinto
Rubate ciò che vi è stato rubato,
prendetevi finalmente quel che è vostro, gridava,
intirizzito, la giacca gli andava stretta,
i suoi capelli guizzavano sotto le gru
e lui gridava: io sono uno di voi,
cosa state ancora ad aspettare? Adesso
è ora, sfondate le barriere,
gettate la gentaglia a mare,
comprese le valigie, i cani, i lacché,
le donne anch'esse e persino i bambini,
con violenza, coi coltelli, con le nude mani!
E mostrava loro il coltello,
mostrava loro la nuda mano.

Ma quelli della terza classe,
emigranti tutti, stavano lì fermi
nell'oscurità, si toglievano tranquillamente
il berretto e restavano ad ascoltarlo.

Ma quando vi deciderete a prendere vendetta,
se non vi muovete subito?
O forse non siete capaci di vedere del sangue
che non sia quello dei vostri figli e il vostro?
E si graffiava il viso
e si feriva le mani
e mostrava loro il suo sangue.

Ma quelli della terza classe
lo ascoltavano e tacevano.
Non perché non parlasse lituano
(non parlava lituano);
non perché fossero ubriachi
(le loro antiquate bottiglie,
avvolte in panni grossolani,
erano state da tempo scolate);
non perché avessero fame
(avevano anche fame):

non era per via di tutto ciò. Non era
così facile da spiegare.
Capivano, certo, quel che diceva,
ma non capivano lui.
Le sue parole non erano le loro.
Erano rosi da paure diverse
dalle sue, e da altre speranze.
Rimasero lì in piedi, pazienti,
con i loro zaini, i loro rosari,
i loro bambini rachitici,
dietro alle barriere, gli fecero largo,
lo ascoltavano, rispettosamente,
e attesero, finché non affondarono.