29.1.14

Il Machiavelli di Gabriele Pedullà. Un Principe superbo e sciocco?

Il 10 dicembre 1513 Niccolò Machiavelli in una lettera giustamente famosa a Francesco Vettori annunciava la composizione del Principe. Per i cinquecento anni Donzelli ha realizzato una nuova edizione corredata da una riscrittura in italiano moderno di Carmine Donzelli, l’editore, da una introduzione e da un commento di Gabriele Pedullà. L’intenzione dichiarata è di offrire un Principe nuovo perché antico, perché liberato da tutte le incrostazioni ideologiche del Moderno e restituito al suo tempo nell’asse della continuità, riconnesso cioè alla discussione umanistica e caso mai riletto in una prospettiva “antropologica”, di “mentalità”, un po’ alla maniera degli storici novecentisti delle Annales francesi. Il rischio è di offrire un Machiavelli “revisionato”, edulcorato e castrato, appropriato a un “secol superbo e sciocco” che si vanta del tornare indietro e lo chiama progredire. Leggeremo questo nuovo commento senza pregiudizi, ma l’anteprima dell’introduzione pubblicata da “Il Sole – 24 Ore”, che qui riprendo, non promette niente di buono. (S.L.L.)

Da cinquecento anni il Principe funziona come una sorta di specchio nel quale non smette di riflettersi la coscienza occidentale, proiettando sulle parole di Machiavelli ansie, ossessioni, speranze, paure. Politica e morale, mezzi e fini, il partito come moderno principe, la libertà positiva e la libertà negativa, l'emergere dello Stato, il governo degli uomini e delle anime, la politica come tecnica, i fantasmi del totalitarismo, lo stato d'eccezione...
Niente di strano, dal momento che ancora oggi Machiavelli entra obbligatoriamente in qualsiasi discorso filosofico sulla vita associata. Eppure, un simile successo planetario ha avuto, e ha, il suo prezzo. Chiosato, interpretato, adattato e spesso violentemente frainteso, il Principe ha troppo spesso finito per smarrire la propria fisionomia e assumere quella dei suoi ammiratori o detrattori.
Questo processo di appropriazione si è ulteriormente intensificato negli ultimi due secoli, da quando cioè, negli anni a cavallo tra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento, la Rivoluzione francese in politica e il Romanticismo in letteratura hanno segnato una duplice cesura rispetto al mondo nel quale il Principe o i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio erano stati concepiti. Consapevolmente o inconsapevolmente, da quel momento indicare Machiavelli come padre della modernità ha voluto dire proiettare su di lui un giudizio, a seconda dei casi positivo o negativo, sul processo che si era aperto con la grande cesura del 1789. Negli ultimi anni l'esigenza di liberare Machiavelli da questa pesante ipoteca non riguarda più soltanto i guardiani del sapere storico. Impegnarsi per riportare il Principe alle categorie del suo tempo non vuol dire insomma per forza tessere l'apologia di un fantomatico Machiavelli-come-era-per-davvero contro le esigenze, spesso spudoratamente attualizzanti, della teoria. Le incrostazioni degli ultimi due secoli di letture non soltanto, infatti, deformano l'immagine di Machiavelli ma ormai rischiano di renderlo anche e soprattutto inutilizzabile: se non a costo di ripetere, fuori tempo massimo, le letture otto-novecentesche che si sono servite delle sue opere e ancor più del suo feticcio allo scopo di elaborare la propria apologia (Hegel, Croce, Gramsci) o la propria condanna (Schmitt, Strauss, Arendt) del Moderno in quanto tale.
Quel mondo non è più il nostro, ed è anzitutto per questo che c'è bisogno di un nuovo Machiavelli. Per trovare questo nuovo Machiavelli è necessario però liberare le sue parole dai materiali che si sono depositati negli ultimi duecento anni, un poco come insegnano le istruzioni di qualsiasi colla attaccatutto: detergere accuratamente con l'acqua ragia le superfici da saldare assieme prima di applicare il prodotto. Ed è qui che gli acidi della storiografia diventano ancora una volta essenziali. Nel caso del Principe la strada più appropriata è parsa quella di un nuovo commento interamente ripensato nei contenuti e nei metodi. A questo scopo l'edizione del cinquecentennale propone una nuova ricognizione sistematica degli autori classici utilizzati nel Principe (con decine e decine di scoperte che mutano, spesso in maniera decisiva, l'interpretazione), ma soprattutto sfrutta per la prima volta in maniera approfondita quella letteratura quattrocentesca che è il punto di riferimento polemico implicito di gran parte delle affermazioni più scandalose di Machiavelli. Se dalla schedatura di oltre duecento opere umanistiche molti nuovi tasselli sono emersi, mai, tuttavia, si è trattato di una mera caccia alla fonte. Diversi sono infatti anzitutto gli obiettivi che questo commento si è proposto. Nell'età di wikipedia e delle enciclopedie open access è inutile stendere una lunga voce biografica per spiegare chi era Alessandro Magno o Scipione l'Africano; ma può essere molto utile, e addirittura indispensabile per comprendere i passi del Principe che li riguardano, sapere come l'uno e l'altro venissero giudicati dai contemporanei di Machiavelli. Assai più importante che aggiungere nuovi scaffali alla biblioteca delle ipotetiche letture di Machiavelli è infatti aiutare i lettori a familiarizzare con le grandi categorie concettuali del Rinascimento (un poco come, in anni recenti, Amedeo Quondam ha fatto nelle sue edizioni di Boccaccio e Castiglione). È una regola che forse oggi dovrebbe valere per qualsiasi commento a un classico, ma che nel caso di un'opera come il Principe, abitualmente interpretata alla luce delle categorie della discontinuità radicale rispetto a tutto ciò che l'ha preceduta e del precorrimento del nostro presente, si fa sentire con tanta più forza.
È dunque soprattutto qui, sui concetti generali e sulla semantica delle parole chiave del discorso politico e morale del Rinascimento al cui interno va compresa la novità machiavelliana, che il commento pone l'accento. Questa scelta ha voluto dire prendere le distanze da una delle lezioni del massimo machiavellista italiano del secolo scorso, Carlo Dionisotti, il quale riversava volentieri la propria tagliente ironia contro quanti avevano addotto «a proposito di Machiavelli, testi a noi oggi familiari dell'Alberti, Della famiglia e Iciarchia» senza «gettar l'occhio sull'apparato dell'edizione critica di quei testi e informarsi come siano giunti a noi, e sapere che, come il De maiestate di Maio, la Iciarchia è sopravvissuta in un unico testimone». Tale caveat ha avuto dapprima l'effetto indubbiamente positivo di richiamare gli studiosi alla materialità della diffusione delle idee (codici, edizioni, manoscritti), ma con il tempo ha finito per scoraggiare nuove ricerche. E questo è stato un male. Se Iciarchia, De maiestate e altre decine e decine di opere anche meno note e diffuse sono essenziali per intendere il Principe non è infatti perché Machiavelli le abbia necessariamente lette, ma perché, nella loro ripetitività, gli scritti degli umanisti ci permettono di entrare in un sistema di pensiero che ha indubbiamente contato molto per il fiorentino.
Infine, parecchio spazio è stato dato alle pratiche sociali, alle istituzioni e alle credenze indispensabili per comprendere il discorso machiavelliano: la giurisprudenza e la medicina, la teoria degli umori, il dibattito sull'astrologia giudiziale e sul libero arbitrio, il sistema del mecenatismo, le convenzioni dei generi letterari, il principio di imitazione, le tecniche belliche, l'origine del debito pubblico, le ansie di rinnovamento religioso... Un approccio che, nel complesso, potrebbe definirsi "antropologico": con un richiamo al ruolo speciale che l'antropologia ha giocato nel rinnovamento degli studi storici del secondo Novecento, contribuendo a liberarli dalla gabbia di una histoire evenementielle sino a quel momento fatta unicamente di nascite, morti, battaglie e insurrezioni. Nella convinzione che anche il Principe abbia tutto da guadagnare da una lettura che faccia piazza pulita di ogni illusione ingenuamente continuista con il nostro tempo.
L'edizione del cinquecentannale si presenta perciò, in definitiva, come un esercizio di restauro o, se si vuole, di filologia politica: che punta a liberare il testo del Principe dalle incrostazioni sedimentatesi nei secoli per offrire ai lettori, al tempo stesso, un classico sottratto alle formule ideologiche degli ultimi duecento anni e un'opera "fresca" (anche grazie alla rispettosissima "traduzione" a fronte di Carmine Donzelli). Un'opera da leggere senza i pregiudizi e le prevenzioni che accompagnano quasi inevitabilmente il nome di Machiavelli: anzitutto affinché sul Principe si possano proiettare le passioni del XXI secolo e non – come ancora oggi troppo spesso succede – quelle del XIX o del XX.

“Il Sole 24 ore – Domenica”, 8 dicembre 2013


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