10.1.14

Bossuet e l’orazione funebre per il Gran Condé

Da un aureo libretto della serie “I grandi discorsi” della manifestolibri, riprendo l’introduzione della traduttrice e curatrice e l’incipit del discorso che il grande predicatore gesuita Jacques-Benigne Bossuet pronunziò nella cattedrale di Netre-Dame a Parigi a qualche mese dalla morte del principe di Condé. Si tratta probabilmente della fonte più importante del Cinque Maggio manzoniano. (S.L.L.)
 
Jacques-Benigne Bossuet in un celebre ritratto
 L’ultimo volo dell’aquila di Meaux
di Maria Teresa Ricci

Il 10 marzo del 1687, dietro ordine di Luigi XIV, il famoso predicatore gesuita Jacques-Bénigne Bossuet pronuncia l’orazione funebre per Louis de Bourbon, detto il Grand Condé, primo principe del sangue, fortunato generale e al contempo orgoglioso ribelle.
Come l’orazione funebre per Enrichetta d’Inghilterra, e forse come ogni orazione di Bossuet, anche la presente si potrebbe riassumere nelle parole dell’Ecclesiaste: «Vanità delle vanità, tutto è vanità». La morte è annientamento: l’uomo non è che un’ombra destinata a sparire, la vita non è che un sogno e la gloria è soltanto apparenza. E tuttavia, è proprio la morte che permette all’uomo di scoprire ciò che è, e soprattutto essa appare come la sola garante sicura dell’immortalità.
«State attenti, e imparate a morire, o piuttosto imparate a non attendere l’ultima ora per cominciare a viver bene», dirà Bossuet riproponendo il tema della «buona morte», così caro al XVII secolo, al pensiero gesuitico barocco in cui è proprio la visione della morte il mezzo per accedere al gran teatro della vita. La morte non è la fine della storia ma la sua origine, il suo fondamento. Tra le artes bene vivendi e le artes bene moriendi vi è reciprocità: saper vivere significa sempre saper morire. «Non essendo la morte se non il termine della vita, certamente chi vivrà bene fino alla fine morirà bene; né potrà morir male chi non è mai vissuto male; allo stesso modo che chi è vissuto male, muore anche male, né può non morir male chi non è mai vissuto bene» (così il cardinale Bellarmino in un suo opuscolo sul ben morire).
Contrariamente alla nostra epoca, in cui la vita non ha altro scopo che la sua durata e l’allontanamento e la rimozione della morte, ai tempi di un Bossuet non è la lunghezza della vita, la quantità del tempo ciò che conta, ma l’uso che se ne fa. «Non abbiamo di nostro che il tempo, nel quale vive chi non ha neppure spazio per vivere», dice Baltasar Gracián; e Bossuet, nell’elogio funebre di Jolanda di Monterby, affermerà che «è perduto tutto quel tempo cui non abbiamo attaccato qualcosa di meno mutabile di lui, qualcosa che possa passare alla beata eternità».
Della morte bisogna perciò imparare a servirsi, sostiene il predicatore gesuita, se si vuole ottenere l’immortalità e dire così: Ubi est, mors, victoria tua?, dov’è, o morte, la tua vittoria? E servirsene vuol dire abbandonare la vanità delle cose terrene e dedicarsi alla pratica di una vita cristiana, ovvero a Dio: solo così, per Bossuet, si può sottrarre alla morte il proprio tempo e guadagnare la salvezza eterna, la beata eternità.
Tuttavia, dei grandi personaggi per cui Bossuet pronunciò elogi funebri, non tutti furono dei buoni cristiani. Enrichetta d’Inghilterra, Anna di Gonzaga o lo stesso principe di Condé, sono divenuti leggendari, hanno guadagnato quell’immortalità che dà la storia, attraverso la costruzione di vite appassionate, avventurose, e spesso scandalose, soprattutto agli occhi di un austero predicatore antilibertino.
Il Grand Condé, cui era ispirato Le Grand Cyrus di Madeleine de Scudery, uno degli interminabili romanzi del preziosismo francese, incarnazione dunque dell’ideale prezioso, è così ritratto dal Cardinal de Retz: «Il principe di Condé è nato capitano, cosa che è accaduta soltanto a lui, a Cesare e a Spinola. Ha uguagliato il primo; ha superato il secondo. L’intrepidezza è uno dei tratti minori del suo carattere. La natura gli aveva dato un’intelligenza grande quanto il coraggio. La fortuna, facendolo nascere in un secolo di guerre, ha permesso al suo coraggio di manifestarsi in tutta la sua pienezza; la nascita, o piuttosto l’educazione, in una casa legata e sottomessa al governo, ha imposto limiti troppo stretti alla sua intelligenza. Non gli sono state inculcate a tempo opportuno le grandi e generali massime, che fanno e che formano ciò che si chiama spirito di coerenza. Non ha avuto il tempo di impararle da sé, perché sin dalla giovinezza è stato coinvolto nella grande politica, e si è abituato alla fortuna. Per questa manchevolezza egli, con l’anima meno cattiva del mondo, ha commesso ingiustizie; con il coraggio di Alessandro, non è stato meno di lui immune dalla debolezza; con una mente meravigliosa, è caduto in imprudenze; e, pur avendo tutte le qualità di Francesco di Guisa, in certe occasioni non ha servito lo Stato così bene come avrebbe dovuto e, avendo anche le doti di Enrico dello stesso nome, non ha portato il suo partito così lontano come avrebbe potuto. La sua azione non ha potuto corrispondere pienamente ai suoi meriti; è un difetto; ma è raro, ma è bello».
Nato a Parigi nel 1621 da Henri II de Bourbon e da Charlotte-Marguerite di Montmorency, il principe di Condé non fu soltanto quel famoso capitano la cui «ombra avrebbe potuto ancora vincere delle battaglie». All’epoca del preziosismo, il Grand Condé, conoscitore della lingua latina, appassionato di ogni sorta di letture, aveva fatto sì che il suo hôtel non valesse meno del famoso hôtel di Rambouillet, regno della galanteria, della conversazione e delle arti.
E tuttavia, ciò che più si ricorda di lui non è certo la sua cultura o il suo prezioso charme di intellettuale mondano ma il suo coraggio di guerriero. A soli ventidue anni inaugura la serie delle sue grandi vittorie con la battaglia di Rocroi, in cui sconfigge gli spagnoli rivelando tutte le sue qualità di condottiero. Durante la Fronda lo vediamo dapprima schierarsi contro il movimento parlamentare, accrescendo così il suo prestigio agli occhi dell’autorità, e poi contro l’odiato Mazzarino. Il disprezzo verso costui e la sua ambizione lo misero contro la corte e venne perciò arrestato con l’accusa di cospirazione.
Rimesso in libertà nel 1651, dopo un anno di prigionia, orgoglioso e assetato di vendetta, si mise alla testa della Fronda dei principi. Marciò su Parigi, ma fu respinto da Turenne. Dichiarato decaduto dai suoi beni e titoli, fu condannato in contumacia. Lasciò dunque Parigi mettendosi al servizio degli spagnoli, contro cui la Francia era ancora in guerra. Con la pace dei Pirenei (1658) venne tuttavia reintegrato nel suo rango, e così, sotto Luigi XIV, partecipò all’occupazione della Franca Contea (1668) e alla guerra contro Guglielmo d’Orange (1674). Gli ultimi anni della sua vita li trascorse nel suo castello di Chantilly, circondato da artisti e letterati. Morì a Fontainebleu nel 1686.
Il discorso qui presentato non è soltanto, come spesso accade per le orazioni di Bossuet, un mezzo per convertire gli ascoltatori, un’occasione per mostrare, attraverso il destino del personaggio, verità di dottrina e di morale. In realtà, povera di insegnamenti religiosi, l’orazione è piuttosto una glorificazione del defunto e al contempo una pagina di storia, in cui però alla verità si sovrappone spesso l’idealizzazione. In una prosa maestosa ed epica, Bossuet narra le campagne e le vittorie del principe, le cui qualità militari appaiono già tutte nel racconto dettagliato della battaglia di Rocroi, che costituisce il passaggio più famoso dell’orazione. Ma sul suo coinvolgimento nella Fronda, guerra pervasa di intrighi, passioni e galanterie, che sconvolse il regno, e in particolare Parigi, dal 1648 al 1653, non dirà quasi nulla limitandosi a condannare il principe attraverso il suo stesso pentimento, il suo «umile ravvedimento», e mostrando perciò forzatamente che il Grand Condé non fu mai veramente infedele al re.
Pur fustigando la vacuità dei desideri umani e la falsa gloria dei conquistatori, pur proclamando con veemenza che la morte smaschera comunque l’ambizione e mostra la vanità delle grandezze umane, Bossuet non può qui astenersi dall’esaltare le virtù guerriere del principe sorvolando sul suo orgoglio e sulla sua violenza. Ritraendolo nelle sue gesta eroiche e nel suo «temperamento così vivace», egli tenta però di mostrare non solo i pregi del capitano ma anche quelli dell’uomo, attribuendogli, contrariamente a quanto fanno molti dei suoi contemporanei, virtù, modestia, bontà, devozione, e paragonandolo a quell’astro «fatto per abbellire e per rischiarare questo grande teatro del mondo». Lo redimerà quindi anche da ciò che per lui costituiva la più grave colpa, ovvero l’irreligione, esaltando, nel racconto degli ultimi momenti della sua vita, il suo abbandono nelle braccia di Dio.
A Condé, Bossuet aveva già dedicato, nel 1648, la sua dissertazione, detta «tentativo», per la chiusura dei corsi preparatori al baccellierato di teologia. Alla discussione fu presente lo stesso principe con tutto il suo corteggio. Diversi anni più tardi, nella Chiesa di Notre-Dame di Parigi, Bossuet e il Grand Condé saranno ancora una volta i protagonisti di una solenne cerimonia. L’«aquila di Meaux», così veniva chiamato Bossuet, pronuncerà questa sua ultima orazione con cui dirà addio alla grande eloquenza per riserbare al suo gregge «i resti di una voce che si affievolisce, e di un ardore che si spegne».
Luigi di Borbone, il celebrato gran Condé, in un ritratto
 Noi, labili oratori…
di Jacques-Benigne Bossuet
“Nel momento in cui prendo la parola per celebrare la gloria immortale di Luigi di Borbone, principe di Condé, mi sento confuso tanto per la grandezza del soggetto, quanto, se mi si permette di confessarlo, per l’inutilità dell’assunto. Qual parte del mondo abitabile non ha udito delle vittorie del principe di Condé e delle meraviglie della sua vita? Si raccontano dappertutto: il francese che le vanta non insegna nulla allo straniero; e qualunque cosa io oggi ve ne possa riferire, sempre prevenuto dai vostri pensieri, dovrò ancora rispondere al tacito rimprovero che mi farete d’esser rimasto molto al di sotto.
Noi, labili oratori, non possiamo nulla per la gloria delle anime straordinarie: il Saggio ha ragione di dire che «soltanto le loro azioni le possono lodare»; ogni altra lode languisce di fronte ai grandi nomi, e solo la semplicità di un racconto fedele potrebbe sostenere la gloria del principe di Condé. Ma, nell’attesa che la storia, che deve questo racconto ai secoli futuri, lo metta in luce, dobbiamo soddisfare, come potremo, la pubblica riconoscenza e gli ordini del più grande di tutti i re. Che cosa non deve il reame a un principe che ha onorato la casa di Francia, la nazione francese, il suo secolo, e, per così dire, l’umanità intera? Lo stesso Luigi il Grande ha fatto suoi questi pensieri. Dopo aver pianto questo grand’uomo, e avergli fatto con le sue lacrime, in mezzo a tutta la corte, il più glorioso elogio che potesse ricevere, egli aduna, in un tempio così celebre, quanto il suo reame ha di più augusto per rendervi pubblici onori alla memoria di questo principe, e vuole che la mia debole voce animi tutti questi tristi catafalchi e tutto questo funebre apparato. Facciamo dunque questo sforzo sul nostro dolore. Ora un più grande soggetto, e più degno di questo pulpito, si presenta al mio pensiero. È Dio che fa i guerrieri e i conquistatori. «Siete voi, gli diceva Davide, che avete insegnato alle mie mani a combattere e alle mie dita a tenere la spada». Se egli ispira il coraggio, non meno elargisce le altre grandi qualità naturali e sovrannaturali, e del cuore e della mente. Tutto deriva dalla sua mano potente: è lui che invia dal cielo i nobili sentimenti, i saggi consigli, e tutti i buoni pensieri; ma vuole che noi sappiamo distinguere fra i doni che abbandona ai suoi nemici e quelli che riserva ai suoi servi. Ciò che distingue i suoi amici da tutti gli altri è la devozione: finché non si sia ricevuto questo dono dal cielo, tutti gli altri non soltanto sono niente, ma anzi si mutano in rovina per coloro che ne sono dotati. Senza questo dono inestimabile della devozione, cosa sarebbe il principe di Condé con tutto quel grand’animo e quel gran genio? No, fratelli miei, se la devozione non avesse come santificato le altre sue virtù, né questi principi troverebbero alcun conforto al loro dolore, né questo religioso pontefice alcuna fiducia nelle sue preghiere, né io stesso alcun sostegno alle lodi che devo a un sì grand’uomo. Spingiamo dunque alla rovina la gloria umana con questo esempio; distruggiamo l’idolo degli ambiziosi; che esso cada annientato davanti a questi altari. Mettiamo insieme ora, giacché lo possiamo in un sì nobile soggetto, tutte le più belle qualità di un’eccellente natura; e, a gloria della verità, dimostriamo, in un principe ammirato da tutto l’universo, che ciò che fa gli eroi, ciò che porta al culmine la gloria del mondo, valore, magnanimità, bontà naturale quanto al cuore, vivacità, penetrazione, grandezza e sublimità di genio quanto alla mente, non sarebbero che un’illusione, senza l’aggiunta della devozione, e, infine, che la devozione è tutto per l’uomo. Ecco, signori, ciò che vedrete nella vita eternamente memorabile dell’altissimo e potentissimo principe Luigi di Borbone, principe di Condé, primo principe del sangue.
Dio ci ha rivelato che lui solo fa i conquistatori, e che lui solo li adopera per i suoi disegni. Chi altri fece un Ciro se non Dio, che l’aveva menzionato duecento anni prima della sua nascita negli oracoli d’Isaia? Tu non sei ancora, gli diceva, ma io «ti vedo, e ti ho nominato con il tuo nome: tu ti chiamerai Ciro. Io camminerò davanti a te nelle battaglie; al tuo avvicinarti metterò i re in fuga; abbatterò le porte di bronzo. Sono io che distendo i cieli, che sostengo la terra, che nomino ciò che non è come ciò che è, vale a dire sono io che faccio tutto, e io che vedo, dall’eternità, tutto ciò che faccio….”


da I grandi discorsi, manifestolibri, 1996

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