5.1.14

Il cappotto di Saba, dall'occhio rapace. Lettere dal dopoguerra (Alfredo Giuliani)

Ho letto le sessanta lettere di Umberto Saba, fin qui inedite, che Gianfranca Lavezzi e Rossana Saccani hanno scelto tra le trecentocinquanta conservate nel Fondo manoscritti dell'Università di Pavia. Indirizzate alla moglie Lina e alla figlia Linuccia nel periodo 1945-1953, le lettere appaiono da Bompiani (pagg. 224, lire 20.000) con un titolo suggestivo, per non dire pittoresco, tratto da un passo dello scrivente: Atroce paese che amo. Ammetto che suona molto sabiano, e che si addice a quegli anni umilianti, squallidi, di povere passioni e di paure. Qualcuno potrebbe affermare che si addice anche a questi anni, e agli anni appena passati e agli strapassati. E' un titolo che fa colore, è poetico drammatico nazionalpopolare. Ciò non toglie che nel leggere le lettere privatissime di uno scrittore morto trent'anni fa mi sono sentito a volte un ficcanaso; e a parlarne divento un ficcanaso pubblico, ovviamente autorizzato.
Probabilmente il mio imbarazzo dipende dal fatto che non sono mai stato, nemmeno nei tempi giovanili, un patito della poesia sabiana. La percepivo prontamente e la trovavo ammirevole, ma i miei gusti s'invaghivano di altri suoni e altre orchestrazioni. Come se a uno, viziato ascoltatore di Satie e Bartòk, Webern e Casella, o per venire più vicini a noi di Cage e Giacinto Scelsi proponessero una stagione di Ottorino Respighi.
Primo: per quanto posso, mi sforzo spesso di comprendere gli artisti e gli scrittori che i miei gusti m'indurrebbero a trascurare. Dieci anni fa (qualche antico lettore di queste pagine forse vagamente se ne ricorderà) lessi da cima a fondo il Canzoniere di Saba e, mettendomi dal punto di vista della sua poetica, trovai almeno venti poesie che avrebbero dovuto rappresentarlo in qualsiasi antologia.
Secondo: nelle prose di Saba sono molte e molte le pagine memorabili (e qui sarebbe fuor di luogo enumerarle).
Terzo: se veniamo a sapere qualche cosa della vita d'uno scrittore, quel qualche cosa confermerà quanto già sapevamo della sua opera? né più, né meno? Quanto a lui in persona, conosceremo fatti, manie, aneddoti, di cui avremmo potuto tranquillamente far senza, ma che, una volta conosciuti, aumenteranno la nostra portatile collezione di malinconie buffe, metafisici sogghigni o appigli di conversazione colta. Tipo: la sai la storia del cappotto di Saba, a Trieste nel ' 52? Se il nostro interlocutore non avrà letto Atroce paese che amo, potremo fornirgli, eccola, la graziosa storia raccontata dal poeta a Linuccia.
Carletto, il commesso-socio della libreria antiquaria di Saba, è pieno di rimorsi per il cappotto del vecchio Umberto, diventato proprio indecente, e vorrebbe comprargliene uno nuovo spendendo non più di 30-35.000 lire. Ora un buon cappotto costava allora pressappoco il doppio. “Così ho avuto un'idea felice. Gli ho proposto di darmi il suo (a lui non piaceva perché troppo scuro, gliel'ha regalato suo cognato di Palermo, a me sta benissimo ed è di ottima stoffa) e comperarsi invece lui, a spese della bottega, uno nuovo e di suo gusto. Ha accettato, con sua e mia grande soddisfazione. Come sai odio gli indumenti nuovi di sartoria. Il cappotto di Carletto invece lo conoscevo già, me lo prestava anche quando andavo alla radio”.
Come si vede, l'idea felice ha un sottofondo complicato, nel quale gira tortuosamente vittorioso il senso del regalo e della compensazione. Considerando che un cappotto è regalato due volte, due cappotti verranno a costare quanto mezzo cappotto; è una mossa di taccagneria magica, inventiva, gratificante! Da un cappotto usato si ricavano due cappotti nuovi (uno dei quali meglio che nuovo), e ciò a spese della bottega, ossia senza esborso di capitale.
Il più bel ritratto di Saba in quegli anni è di Mario Spinella in Memoria della Resistenza, citato dalle curatrici nell' introduzione: poeta vecchio e mite cui balena talvolta negli occhi uno sguardo duro e freddo di rapace. E' il Saba perseguitato (Spinella lo incontra nel ' 44 a Firenze, dove s'è rifugiato con la famiglia per sfuggire alla deportazione), o non è il Saba di sempre? Il poeta impoverito fa vita grama, gode anche di qualche aiuto; chi lo ospita, chi gli dona pacchi di sigari e tabacco per la pipa; cerca un po' di fortuna a Roma e a Milano, scrive, pubblica e molto si amareggia: perché non gli danno un premio di 100.000 lire con la scusa che, essendo triestino e in odore di comunismo, la scelta avrebbe un risvolto politico (viltà probabilissima nel ' 46), perché la sua Trieste è sempre più fascista (una città infernale) e l'Italia del ' 48 è diventata un boccone da preti; e si amareggia ancor più per esser sempre posposto a Montale e Ungaretti, e magari a Quasimodo. Si arrabatta, alterna umiliazioni e rivincite. Ha tenacissima stima di sé e non molla. Nelle difficoltà si difende. E nel difendere il proprio spazio letterario è, sì, duro e all'erta come un rapace.
Ha in cantiere, tra le altre cose, il proprio monumento psicologico-critico: Storia e cronostoria del Canzoniere. S' è trasferito da poco a Milano, dove s' è impegnato a finire o ristampare sue opere per Mondadori, che dovrebbe passargli un modesto mensile in conto diritti d'autore per sei mesi, quando da Roma riceve proposte allettanti e inquietanti: dirigere la rivista “L'Italia che scrive” e fondare una libreria antiquaria. Dopo qualche dubbio e turbamento rifiuta allegando varie ragioni, la principale delle quali è la più tranciante: la direzione della rivista mi avrebbe messo a contatto con tutta la letteratura contemporanea italiana (mi avrebbe messo cioè al servizio dei miei nemici). Ci teneva, Saba, al proprio isolamento monumentale; e questo si può anche capire.
Ciò che colpisce di più il lettore delle lettere è l'incerto rapporto di Saba con la scrittura. Lasciamo stare il tono, raramente vivace, spesso patetico, querulo o semplicemente depresso. Su questo punto non si scopre nulla di nuovo. Dopo la pubblicazione del Canzoniere da Einaudi (1945) e di Scorciatoie da Mondadori (1946) Saba si sente tremendamente sottovalutato. Non occorreva essere né molto intelligenti né molto profeti per capire che in Italia in questo atroce paese che amo la mia voce non poteva avere una sorte diversa. In un paese di letterati e di petrarchisti, un poeta di grande razza è come Gesù in un paese di preti; l'unica cosa che questi possono offrirgli con tutto il loro nero cuore è il martirio.
Tutti i poeti (alcuni sono bravi a nasconderlo) provano il bisogno infantile di essere gratificati dalla gloria, la quale li assicuri; tu sei grande, tu sei il primo. No, non è questo il punto. Si avverte piuttosto, e fa perfino tenerezza nel vecchio poeta, che a Saba non veniva naturale lo scrivere bene e correttamente in italiano. Come se la sua vera lingua fosse il dialetto e dovesse fare uno sforzo segreto con se stesso, tranne forse che nei momenti di grazia, per elevare la scrittura fino alla lingua. Si possono spiegare così certe forme scorrette: aver l'aggradimento, a gratis, andare al Brasile e il buffo carcioffi alessi e la volpina alessa.
Da Roma nel ' 45 scrive: “Mi hanno tanto pregato un articolo su Trieste”. E Bobi Bazlen gli consiglia di non farlo: faccia invece mi ha detto un sonetto postumo. Sembrerebbe uno scherzo, una scorrettezza caricaturale, la insistita sgrammaticatura di questo passo:“Come tu sai, non so scrivere, o meglio scrivere mi costa una fatica enorme. La stesura attuale (si riferisce a Storia e cronistoria del Canzoniere) è la quinta, me ne occorerebbero ancora due... Mi occorerebbe anche una signorina che copiasse tutto in bella forma esterna ed un professore di lingua italiana molto intelligente per rivedere tutto un' ultima volta. Quante cose mi occorerebbero!”.
E francamente comico è il terrore della letteratura, e dei letterati, che Saba cerca di comunicare a Linuccia: è un lavoro terribile, addirittura pericoloso. “A fare le cose onestamente, urti contro malattie assai gravi dei letterati. Perché non si tratta solo di vanità, e di interesse, ma anche del fatto che la maggior parte di essi scrive per reagire a qualche debolezza nascosta, e questo tutti, me compreso, ad un senso d'inferiorità di origine infantile, cioè fatale”.
Che schietto, questo Saba; che melodrammatico, dirà qualcun altro. Ma in fondo è lo stesso modo passionale con cui il poeta vaticina le conseguenze del 1948 democristiano scrivendo alla moglie: “Fra 6 mesi o un anno l' Italia sarà la Spagna di Franco. Non occorre ti dica che tutti i letterati sono dalla parte di Franco. Avranno così soldi, oneri, ecc.; mentre sul Canzoniere e sulle altre mie opere scenderà (è già sceso) un velo nero...”.

I poeti sono per natura come i Guasconi dell'Imbriani: esageratori, iperboleggiatori, trasformatori di mosche in elefanti. Anche uno che pare così aggradirsi delle cose umili come il dimesso Umberto Saba, il poeta e prestigiatore dei cappotti usati e nuovi. Alla fine mi guizza un'impressione che mi scatenerà addosso la muta dei sabiani. Nell'introduzione le curatrici citano una deliziosa lettera del '46 (non compresa in questo volume) a proposito di certi dialoghi tra il poeta e Carletto. Con perfetta naturalezza e magnifico effetto di stile s'intrersecano nel racconto lingua e dialetto. Così succede nella novella Ernesto (o romanzo incompiuto), che resta un libro sorprendente. E l'impressione è questa: e se Saba avesse concepito anche le sue poesie mescolando lingua e dialetto? Avremmo forse avuto una poesia meno sublimante e più giocata espressionisticamente sui piaceri-dolori della vita in versi?

La Repubblica, 14 novembre 1987

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