16.2.14

Il Cottolengo e i clericali (di Antonio Gramsci)

Uno scritto di Gramsci del 1917, dall’edizione torinese dell’Avanti di cui era caporedattore. Un pezzo bellissimo e rigoroso, in cui è esercitata al massimo grado l’arte della critica, che è primariamente arte del distinguere e separare. (S.L.L.)
Un'immagine del canonico Cottolengo senza aureola
Ieri ha finalmente avuto termine a Roma la fiera che i clericali hanno allestito intorno alla figura del Cottolengo (G. allude alle cerimonie per la beatificazione, terminate il 29 aprile 1917; ndr). Il municipio ha naturalmente dato la sua cordiale adesione alla fiera e ha inviato a Roma due degli assessori più intinti della pece dell'ipocrisia. Affari di ordinaria amministrazione per la giunta, che è il risultato di un connubio contro natura tra sedicenti liberali e arnesi di sagrestia. Affari che interessano poco la cittadinanza, la quale ormai ha giudicato questa accozzaglia di malnati della vita pubblica.
Dispiace forse un po' che sia stata scelta la figura del Cottolengo come idolo intorno al quale ballare il trescone degli ubbriachi. Perché il Cottolengo non è stato uno qualunque e, ciò che più importa, non è stato un clericale, ma è stato, da vivo, avversato fieramente da clericali e da preti. Il Cottolengo era un uomo, semplicemente, con tutti i difetti e tutte le virtù che caratterizzano gli uomini completi: per caso era cattolico, ma anche se fosse stato buddista o maomettano la sua opera non sarebbe stata diversa da quella che fu. Era un religioso, ma la sua religione non si concretava obiettivamente in una o nell'altra delle credenze in voga; nell'atto essa era la religione del dolore incompreso, della sofferenza che non riesce a trovare nella società moderna un lenimento e un riparo in nessuna organizzazione di comitati o di associazioni borghesemente anguste e grette. Tutti i relitti di umanità, i pezzi anatomici che sono uomini solo perché nella superficie fisica rassomigliano lontanamente all'uomo, ma nei quali il caso ha messo troppo poco o addirittura niente di spirito e di intelligenza : questi detriti, che provocherebbero la nausea e il disgusto nelle damine benefiche dal cuore incipriato e dal cervello di farfalle in fregola, hanno trovato a Torino il loro protettore, il loro sostentatore nel Cottolengo.
Con una pazienza e una fermezza di carattere che il cattolicismo non spiegherebbe (o perché non tutti i cattolici, o almeno un buon numero di essi non rassomigliano a quest'uomo?) egli ha drizzato un edifizio di carità che è diventato il suo monumento maggiore. Il cattolicismo, dopo aver avversato quest'uomo in vita, dopo avergli attraversato in tutti i modi la via, perché egli non seguiva le solite rotaie e non accettava l'autorità ingombrante della gerarchia chiesastica, dopo che morì non volle lasciar cadere l'occasione di sfruttare, per i suoi fini di setta, gli effetti della sua opera. Ha voluto che l'alone di riconoscenza che circondava la memoria dell'uomo fosse trasportato sulla testa di un idolo della sua Kaaba. E lo ha beatificato. Il morto ha insozzato il vivo, il lumacone chiesastico ha voluto deporre il suo nastro argenteo bavoso su un idolo da piazza, perché diventasse redditizio.
Noi, che siamo uomini liberi, riconosciamo i meriti grandi di quest'uomo e le sue virtù. I suoi principi economici non sono certo i nostri; il suo modo di concepire la solidarietà umana non può essere certo il nostro: il Cottolengo era un religioso, un mistico, e noi siamo realisti e vogliamo che la solidarietà sia basata su un ordinamento nuovo della società e non sul buon cuore dei singoli, che vivono e muoiono con l'opera loro. Noi lavoriamo per l'eterno, per la continuità immanente del concreto. Ma, da uomini liberi, ammiriamo gli uomini come il Cottolengo, che hanno espresso il massimo dell'amore e della pietà umana, che hanno realizzato integralmente, in una società avversa, sorda, opaca, un loro ideale individuale. Perciò ci dispiace che di essi si impadronisca la piazza, la turpe speculazione settaria e ipocritamente religiosa.


Non firmato, «Avanti!» ed. piemontese, 30 aprile 1917 poi in Antonio Gramsci - Scritti giovanili, Einaudi, 1958.

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