26.2.14

Il sorriso di Eleandro. L'ultimo scritto (leopardiano) di Walter Binni


Alla cerimonia di apertura delle manifestazioni del bicentenario della nascita di Giacomo Leopardi, programmate a Roma, in Campidoglio, per il19 gennaio 1998, Walter Binni non poté partecipare. Era morto il 27 novembre 1997. Ma qualche giorno prima, intorno al 20 novembre, già malato, inviò al comitato organizzatore un breve testo. È l’ultimo scritto di Walter Binni, non casualmente uno scritto leopardiano, rimasto a lungo inedito. Fu in gran parte pubblicato, con il titolo Leopardi contro la palude, su «Micropolis» del maggio 2010 e integralmente da “Il Ponte”, Anno LXVII nn. 7-8, luglio-agosto 2011, in un numero speciale dedicato a Walter Binni. (S.L.L.)


Sono molto grato a chi, a nome dei miei numerosi allievi di ieri e di oggi, mi ha invitato a pensare a un saluto inaugurale per la cerimonia di apertura delle molte manifestazioni dell’«anno  leopardiano».
Chi mi ha chiesto questo gesto simbolico ha certamente voluto ricordare ancora una volta sia la funzione, che mi è stata attribuita, di «maestro di maestri» (molti dei miei allievi di un tempo sono infatti maestri di nuovi allievi) sia il segno che la mia opera davvero lunga di critico leopardiano e di docente di numerosi corsi leopardiani in anni cruciali e vitali della nostra università ha complessivamente inciso (forse piú di quanto io stesso abbia realizzato) sulle vite di chi ha voluto in molti modi ascoltare e ricordare quello che ho detto su Leopardi e che per me non è stato mai svincolato da una pratica intellettuale e politica che è la chiave di volta delle mie interpretazioni.
Come indicare, anche per sommi capi, il nodo tensivo di esperienze personali e pubbliche che hanno nutrito e articolato sempre piú in profondo le mie intuizioni su Leopardi, saldandole poi in una sistematica teorizzazione di poetica? Mentre scrivo ricorre il cinquantesimo anniversario della pubblicazione della Nuova poetica leopardiana (di cui esce proprio in questi giorni una tempestiva ristampa) che, a detta di molti, segnò una svolta nel pensiero critico su Leopardi, e che io stesso ho sempre considerato come una tappa della mia vita desanctisianamente personale-creativa e pubblica (ero allora deputato dell’Assemblea Costituente e intervenni piú volte in difesa della scuola pubblica).
È da lí che, per dirla con le parole veramente affettuose di un leopardista di vaglia come Luigi Blasucci, la mia funzione di critico fu quella di «smuovere le acque del leopardismo di metà secolo, acque di placida laguna». E questo con una «appassionata unilateralità», tesa ad affermare una «nuova poetica» che svegliasse la critica leopardiana fino a quel punto «dal suo sonno dogmatico (idillico)».
Non posso qui diffondermi sulle tappe successive a quel libro cruciale, ma voglio almeno ribadire come il mio gesto critico di allora (derivato da oltre un decennio di prove in quella direzione a cominciare da una tesina leopardiana alla Normale nel ’33) potesse sí sembrare «unilaterale», ma certamente non era «unidimensionale» come gli esiti della critica precedente, critica appunto di un Leopardi «a una dimensione».
La mia interpretazione ebbe certo la funzione di far pensare per la prima volta a un Leopardi del tutto intransigente a essere assimilato a pratiche conformate a strutture preesistenti. Essa proponeva invece un Leopardi che le infrangeva vitalmente e fondava un discorso complessivo di piú dimensioni, aperto a molte possibilità liberatorie che trascendevano lo status quo.
So che quella lezione ha avuto la sua funzione, a suo modo «eroicamente» energetica e coerente con se stessa, e che questa sua voce, netta e comprensibile a molti in questo minaccioso fin de siècle, può anche risuonare invisa, per la sostanza indiscutibile storica e metodologica che riesce a trasmettere in tempi di crepuscolo dell’attività critica, a chi ripropone oggi le «acque di placida laguna» di cui parla cosí bene Blasucci per tendenze di mezzo secolo fa. La falsa disperazione omologata a mode «nere» e nefaste che si vorrebbe leggere in Leopardi, una sua ineffabilità reclusa in se stessa, rispondono certo a retoriche «di laguna». Certo non meritano che il sorriso di Eleandro.
Leopardi ha prima di tutto trasmesso, a chi ne ha ritrasmesso e interpretato i valori formali e la sostanza dei contenuti, il superamento del fondale libresco cui pensano i proponenti di questa linea asfittica e rudimentale. Auguro alle molte vive voci che animeranno il dibattito dell’anno leopardiano di poter riasserire la verità della poesia leopardiana e il suo cruciale esempio per il millennio che verrà.
Sono molto grato a chi, a nome dei miei numerosi allievi di ieri e di oggi, mi ha invitato a pensare a un saluto inaugurale per la cerimonia di apertura delle molte manifestazioni dell’«anno  leopardiano».
Chi mi ha chiesto questo gesto simbolico ha certamente voluto ricordare ancora una volta sia la funzione, che mi è stata attribuita, di «maestro di maestri» (molti dei miei allievi di un tempo sono infatti maestri di nuovi allievi) sia il segno che la mia opera davvero lunga di critico leopardiano e di docente di numerosi corsi leopardiani in anni cruciali e vitali della nostra università ha complessivamente inciso (forse piú di quanto io stesso abbia realizzato) sulle vite di chi ha voluto in
molti modi ascoltare e ricordare quello che ho detto su Leopardi e che per me non è stato mai svincolato da una pratica intellettuale e politica che è la chiave di volta delle mie interpretazioni.
Come indicare, anche per sommi capi, il nodo tensivo di esperienze personali e pubbliche che hanno nutrito e articolato sempre piú in profondo le mie intuizioni su Leopardi, saldandole poi in una sistematica teorizzazione di poetica? Mentre scrivo ricorre il cinquantesimo anniversario della pubblicazione della Nuova poetica leopardiana (di cui esce proprio in questi giorni una tempestiva ristampa) che, a detta di molti, segnò una svolta nel pensiero critico su Leopardi, e che io stesso ho sempre considerato come una tappa della mia vita desanctisianamente personale-creativa e pubblica (ero allora deputato dell’Assemblea Costituente e intervenni piú volte in difesa della scuola pubblica).
È da lí che, per dirla con le parole veramente affettuose di un leopardista di vaglia come Luigi Blasucci, la mia funzione di critico fu quella di «smuovere le acque del leopardismo di metà secolo, acque di placida laguna». E questo con una «appassionata unilateralità», tesa ad affermare una «nuova poetica» che svegliasse la critica leopardiana fino a quel punto «dal suo sonno dogmatico (idillico)».
Non posso qui diffondermi sulle tappe successive a quel libro cruciale, ma voglio almeno ribadire come il mio gesto critico di allora (derivato da oltre un decennio di prove in quella direzione a cominciare da una tesina leopardiana alla Normale nel ’33) potesse sí sembrare «unilaterale», ma certamente non era «unidimensionale» come gli esiti della critica precedente, critica appunto di un Leopardi «a una dimensione».
La mia interpretazione ebbe certo la funzione di far pensare per la prima volta a un Leopardi del tutto intransigente a essere assimilato a pratiche conformate a strutture preesistenti. Essa proponeva invece un Leopardi che le infrangeva vitalmente e fondava un discorso complessivo di piú dimensioni, aperto a molte possibilità liberatorie che trascendevano lo status quo.
So che quella lezione ha avuto la sua funzione, a suo modo «eroicamente» energetica e coerente con se stessa, e che questa sua voce, netta e comprensibile a molti in questo minaccioso fin de siècle, può anche risuonare invisa, per la sostanza indiscutibile storica e metodologica che riesce a trasmettere in tempi di crepuscolo dell’attività critica, a chi ripropone oggi le «acque di placida laguna» di cui parla cosí bene Blasucci per tendenze di mezzo secolo fa. La falsa disperazione omologata a mode «nere» e nefaste che si vorrebbe leggere in Leopardi, una sua ineffabilità reclusa in se stessa, rispondono certo a retoriche «di laguna». Certo non meritano che il sorriso di Eleandro.

Leopardi ha prima di tutto trasmesso, a chi ne ha ritrasmesso e interpretato i valori formali e la sostanza dei contenuti, il superamento del fondale libresco cui pensano i proponenti di questa linea asfittica e rudimentale. Auguro alle molte vive voci che animeranno il dibattito dell’anno leopardiano di poter riasserire la verità della poesia leopardiana e il suo cruciale esempio per il millennio che verrà.

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