25.2.14

L'uomo d'affari (di Italo Svevo)

Su “La letteratura e noi”, il sito diretto da Romano Luperini, sono stati pubblicati di recente, per l’introduzione e la cura di Maria Borio due inediti. Si tratta di due articoli, L’uomo d’affari e Il collaboratore avventizio, apparsi nel 1883 su «L’Inevitabile», periodico triestino, e firmati Justus, dei quali alcune recenti scoperte documentarie rendono sicura l’attribuzione a Italo Svevo. Ringrazio Riccardo Cepach, direttore del Museo sveviano di Trieste, per la aver permesso la circolazione in rete di questi sapidi testi, tra cui quello qui ripreso. Mi pare evidente che “uomo d’affari” aveva allora un significato leggermente diverso dall’attuale: oggi si direbbe “faccendiere”, per di più di basso livello. (S.L.L.)
Tra i mille e un mestieri, cui si consacra la misera umanità per combattere la grande battaglia del pane quotidiano ve n’ha uno di recente invenzione che si chiama: far degli affari. Far degli affari vuol dir nulla, e vuol dir tutto; vuol dire: andare in busca di quel che capita, far d’ogni erba fascio e attaccarsi anche alle lame dei rasoi per istrizzare il soldo di borsa al prossimo, poiché, come ha detto benissimo Dumas figlio: les affaires c’est l’argent des autres.
Ma badiamo a non cadere in equivoci. Gli affari propriamente detti, sono le grandi speculazioni industriali, commerciali e finanziarie, le operazioni di borsa, le imprese ferroviarie, i lavori publici, [sic] ecc. Ma, a questi si dedicano, com’è naturale, banchieri, capitalisti, grossi negozianti, uomini di polso, che occupano già un posto in società. Il mestiere di far degli affari consiste, invece, nel non averne mai sottomano nessuno e andarne cercando a fiuto, per la piazza, come il maiale cerca i tartufi. Chi esercita un siffatto mestiere è, generalmente, una pecora segnata: o merciaiuolo fallito, o impiegatuzzo messo alla porta per uno di quegli irresistibili allungamenti di zampe, che la umana benignità ha convenuto di chiamare indelicatezze.
Nei primi tempi, dopo la sua disgrazia, pensò un momento al suicidio, tanto più che è di moda; ma l’acqua gli parve sempre troppo fredda, il fuoco troppo caldo, le finestre troppo alte, il carbone troppo soffocante e troppo ignobile l’impiccagione. Fece quindi il sacrificio di vivere e, non riuscendo a trovare impieghi, pe’ quali d’altronde provava un’invincibile repugnanza nella congenita sua tendenza al dolce far nulla, si consacrò sin che gli riuscì facile, a quello accattonaggio inguantato, che consiste nell’arrestare per via l’amico, il conoscente, spesso il primo capitato e dopo avergli sciorinato tutta una interminabile geremiade di sventure e di guai, domandargli a prestito una diecina di fiorini con l’obbligo sottinteso di non restituirli mai più.
Ma, per quanto vecchio, è sempre vero il proverbio, che è il giuoco che dura poco. A non lungo andare, i primi capitati, i conoscenti ed amici odorarono in lui il repellente tanfetto del frecciatore, e cominciarono a guardare i cornicioni delle case, quando l’incrociavano per via, a salutarlo in fretta, non più salutarlo e, se messi alle strette, tirar a lungo con una significante sgrullata di spalle, o lanciargli sul naso un conchiusivo: “seccatore importuno!” Allora si vide nuovamente spalancato sotto i piedi quello sconfinato abisso della miseria, che non ha altre uscite fuor che lo spedale o l’ergastolo, e allora si decise a far degli affari.
Se si fosse trovato in possesso solo del tanto quanto necessario ad appigionare uno stambugio di botteguccia; avrebbe aperto, lì per lì, un’agenzia di collocamento: sarebbe stato il suo sogno! Ma gli mancavano perfino quei quattro da farsi risuolare le scarpe. Si buttò, quindi, come a nuoto, per le publiche vie e per le piazze, frammettendosi a sensali di professione, rigattieri e piccoli cottimanti di lavori, e studiandosi di insinuarsi, a mo’ di conio, nelle loro operazioni.

L’ufficio suo si limita a scuoprire bighellonando gli affarucci che si trovano, dirò così, in istato d’incubazione. C’è una famigliola che si vorrebbe disfare di un gioiello, di un quadro, di un mobile? Ed egli galoppa diritto dal rigattiere e gli susurra all’orecchio: “Eh, ci sarebbe il tale oggetto da vendere!” Sa che un proprietario, un pigionale, un negoziante vuol fare eseguire alcuni restauri alla sua casa, al suo quartiere, alla sua bottega? Corre dal cottimista, dal capomastro, magari dal muratore, e gli mormora sotto i buchi del naso: “Eh, c’è un lavoro da fare!” Trova un mercante di campagna, un fittaiuolo, che ha disponibile una partita di grano, di legna da ardere, di fichi secchi? E vola dal sensale e gli grida levando alte le braccia e gli occhi al cielo: “Magnifico affare! magnifico affare!” E se il magnifico affare viene conchiuso, o il restauro eseguito, o l’oggetto comprato, stende la mano e raccoglie nel palmo il “caffè”.
Voi lo vedete, là, ad un canto di Piazza del Teatro o a girondolare nei caffè, unto, bisunto, col cappello sfondato, la camicia sudicia, la cravatta cenciosa, il panciotto assente, la giacca a rappezzi, i pantaloni a frange, le scarpe a crepacci... aspettare in agguato l’“affare” che passa.
Justus

da “L’inevitabile” del 17 ottobre 1883

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