28.2.14

Surrealismo alla milanese. Intervista a Renato Pozzetto (Egle Santolini)

Primi anni '60.
Renato Pozzetto e Cochi Ponzoni (quasi invisibile)
si esibiscono per Dario Fo e Franca Rame
Doveva essere una “cosa grande” Milano, prima del dominio dei Craxi, dei Ligresti e, soprattutto, di Berlusconi, una rete di circoli, di esperienze, di intelligenze. Nell’intervista che segue Renato Pozzetto, opportunamente sollecitato da Egle Santolini, ne restituisce qualche frammento, più che sufficiente a scatenare in noi la nostalgia per un tempo che abbiamo perduto e per un luogo che abbiamo sognato. (S.L.L.)
1965. Foto di gruppo alla Pasticceria Gattullo
«Ci vede, lì nella foto che hanno appeso al muro, con le nostre belle cravattine precise? Umberto Bindi, Bruno Lauzi, Jannacci, io, Cochi, Sergio Endrigo, Augusto Martelli, Giorgio Gaber. Era il 1965. E il posto era questo, il solito Gattullo». Se un mattino di giugno alle otto e mezza Renato Pozzetto ti convoca in una pasticceria a Porta Lodovica, di sicuro ci vai di corsa. Perché è l'occasione di capire, nel posto giusto e dal testimone più prezioso, come lo spirito del surrealismo sia planato, tra dopoguerra e boom, sul pavè di Milano. In principio era il derby, non inteso ancora come tempio del cabaret ma come duello Milan-Inter. «In quelle domeniche là era tanta l'attesa della partita che ci inventavamo una sfilza di scuse finte per dire agli amici che no, a noi non c'importava, allo stadio non ci saremmo andati: ho la zia da andare a trovare! la comunione del cuginetto! I fiori a portare al cimitero!»

Di che anni stiamo parlando, e voi chi eravate?
Più i 50 che i 60, andavamo ancora a scuola, Milano era piccola piccola e il Gattullo un buco. Noi eravamo io e Cochi che ci conoscevamo da bambini, più gli amici della compagnia: il Cobianchi, lo Zambelli, il Ciccarelli»

Ma il gruppo storico? Beppe Viola, Jannacci?
Nooooo. Per loro c'è tempo. Coi ragazzi si stava seduti sulle panchine, si giocava a palla, si beveva un bianchino. Si prendeva il tram numero 3 e si andava in centro a guardare le vetrine. Non avevamo niente. Niente, a parte le parole. E con quelle giocavamo».

È lì che sono nati i tormentoni del cabaret e poi della tivù?
«Più che altro avevamo un gergo: andare a mangiare si diceva "al pito", bere "al trinco", partire per le ferie "andare al Sant'Anselmo della spesa". Fare l'amore, che di quei tempi era una parola grossa, era “prendersi il gusto”. E le ragazze “le bastone”, nel senso che ci tenevano sotto schiaffo. Ma l’aspetto più interessante era un certo humour nero. Moriva qualcuno nel quartiere e
ci davamo la notizia con un gesto: "hai presente il Mario dell'edicola? Ciao-oo...". E il cancro era il fantolo: gli è venuto un fantolo al melone».

Ma il Cobianchi, lo Zambelli e il Ciccarelli non sono diventati famosi, e lei e Cochi invece sì. Com'è successo che il mondo dello spettacolo è poi arrivato da Gattullo?
«Siamo stati noi a portarlo lì. Milano allora era mescolatissima, capitava che noi studenti finissimo alla galleria d'arte notturna "La Muffola" di Velia e Tinin Mantegazza e conoscessimo Lucio Fontana, Piero Manzoni che poveretto è morto giovane, Luciano Bianciardi, e poi il Dario, Dario Fo: dopo un po' saltava fuori una chitarra e ci si metteva a cantare. Si andava anche all'Oca d'oro di via Lentasio, qualche volta al Giamaica dove passava spesso Mariangela Melato che stava in Montebello: ma io con Mariangela andavo soprattutto a ballare il rock'n'roll in una balera di corso Europa. Con Cochi eravamo appassionati di canti popolari, anarchici e di protesta, come quelli sullo scandalo della Banca romana: "S'affondano le mani nelle casse - crac! si trovano sacchetti pieni d'oro - crac! e noi per governare, come fare? Rubar, rubar, rubar, sempre rubare!"».

Niente di nuovo sotto il sole.
«Appunto. Gino Negri ci ha notati e ci ha portati a cantare nei circoli di sinistra. Ma anche in piedi nelle sale biliardo, se capitava. Ecco, quei nuovi amici son venuti a trovarci da Gattullo, e il posto gli è piaciuto. Dopo la chiusura la cucina la occupavamo noi, c'era un tizio detto il Diavolo che faceva da mangiare da padreterno».

E poi la passione si è trasformata in lavoro.
«È arrivato Jannacci e ha imposto le regole: è stato lui a spiegarci che, se si voleva fare sul serio, bisognava impegnarsi nel lavoro, essere puntuali, non scadere nella volgarità. Ci ha dato coraggio e ci ha aiutato a scrivere le prime canzoni, a cominciare da A me mi piace il mare. Quando è nato il Caber64 in via Santa Sofia è stata la svolta cruciale: dagli scherzi con gli amici si è passati all' "ecco a voi". Poi è arrivato il Gruppomotore, con Enzo, Teocoli, Lino Toffolo. E il Derby, con Dario che è venuto a impostare il lavoro. E la tivù, e Beppe Viola che lavorava in Rai. Bar di riferimento, sempre Gattullo».

Ci racconta la storia dell'ufficio facce?
«Era una specie di circolo virtuale, inesistente, però organizzato come il Rotary o il club di Topolino. Essere ammessi era un'impresa, e se ti riusciva ti davano il timbro. Il presidente era il Cobianchi, ovvio, anche se noi immaginavamo che sopra di lui ci fosse una figura più evanescente, occulta. Qualche anno dopo un ufficio facce me lo volevo comprare davvero, un negozio qui in via Col di Lana, avrei aperto bottega e messo la targa. Poi ho pensato che quegli anni erano finiti, non è più tempo di ufficio facce».

Ma lei è ancora quello del bar.
«E il mio orgoglio è stato quello di aver portato in teatro, al cinema e in tv proprio quell'umorismo lì. Un po' freddo, anzi glaciale. Senza sorridere, senza chiamare l’applauso. Lo faccio da sempre. Lo facevamo tutti a Porta Ludovica».

La Stampa, 16 giugno 2013

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