25.3.14

Cercasi sinistra disperatamente (Dimitri D’Andrea)

Disegno di Daniela Tini
Alla “crisi della sinistra” è riuscito il miracolo di aver colonizzato l’intera gamma dei generi della comunicazione contemporanea: dalla canzone più o meno di autore alla satira televisiva, dal giornalismo alle memorie di protagonisti sul viale di un tramonto prossimo o recente. In questo scenario, all’appello sembra sottrarsi soltanto la filosofia. Non tanto i filosofi, che qualche volta capita di incrociare negli stanchi rituali della politica virtuale, quanto la filosofia o, comunque, una riflessione che cerchi di confrontarsi con il tema all’altezza della sua complessità e profondità anche storica.
Fra le poche eccezioni si segnala il libro di Carlo Galli, Sinistra. Per il lavoro, per la democrazia (Mondadori, Milano 2013) in cui, senza indulgere in tecnicismi filosofici, l’analisi delle ragioni e delle vicende che hanno condotto alla crisi attuale si intreccia con un serio tentativo di ripensare i fini e i confini della “sinistra-sinistra” all’altezza dei dilemmi e delle sfide del presente.
Punto di partenza è la disincantata presa d’atto che si è consumata una sconfitta e che la sinistra ormai latita in un mondo politico e sociale divenuto inospitale. La sinistra vive oggi una vita stentata e dispersa sia dal punto di vista “culturale”, sia da quello “organizzativo”: “Nessuna parte politica che abbia peso significativo, oggi in Italia, si dichiara senz’altro di sinistra”. La crisi della sinistra si legge prima e meglio nella marginalità in cui è stata sospinta nel senso comune che nella riduzione del consenso elettorale. Quello della sinistra è un mondo in frantumi perché la sinistra ha perso la capacità di farsi mondo, di costruire istituzioni e società, di pensare e progettare un equilibrio contingente fra parti e tutto più avanzato di quello esistente.
L’altra premessa del ragionamento di Galli è che si scrive sinistra, ma si legge da sempre sinistre: “Sinistra è il nome di una parte, di un settore della società e di uno schieramento ideale; ed è anche il nome di una direzione, di un orientamento che questa Parte, con l’azione politica, vuol dare al Tutto, all’ordine politico. (…) Come questa Parte venga individuata, in quale relazione stia con il Tutto, come e a quali fini lo voglia trasformare, e con quali strumenti politico-istituzionali” dipende dalla tradizione filosofica della modernità all’interno della quale ci si colloca. Insomma, si è di sinistra in modo diverso in funzione, si direbbe in un altro lessico, dell’immagine del mondo all’interno della quale si pensa il rapporto individuo-società e, su questa base, si declina il ruolo del potere politico (della violenza legittima) e il modo in cui è possibile/desiderabile trasformarne il funzionamento.
Nella ricostruzione di Galli queste tradizioni sono essenzialmente tre: il pensiero razionalistico liberal-democratico, il pensiero dialettico e in particolare il marxismo, il pensiero negativo “inaugurato da Nietzsche e rappresentato tra gli altri da Heidegger, Derrida, Foucault”. Ciascuna di queste tradizioni “è portatrice di un’idea di libertà che si rivolge contro avversari diversi (la tradizione, lo sfruttamento, la metafisica occidentale); ma al tempo stesso è soggetta a rischi diversi:
rispettivamente, all’economicizzazione dell’esistenza, alla dittatura burocratica della Verità, all’irrazionalismo”.
A partire da queste premesse è però sul piano delle trasformazioni reali della società e della politica che vanno ricostruite le ragioni della crisi della sinistra. Galli propone di leggere il Novecento come il “secolo delle quattro rivoluzioni”: il comunismo, il fascismo, lo stato sociale, il neoliberismo. Si tratta dei quattro modelli di ordine sociale che hanno segnato il secolo, che ne hanno scandito l’andamento. Ed è in particolare l’ultima, la rivoluzione neoliberale, efficacemente definita come una rivoluzione contro lo stato sociale, che definisce il contesto politico nel quale la crisi dei partiti e della cultura politica della sinistra affonda le sue radici. Nella prospettiva di Galli si è trattato di una rivoluzione che nasce come risposta alla crisi del capitalismo all’inizio degli anni settanta e dalle difficoltà ormai insormontabili alla sua valorizzazione nella cornice stato-nazionale. In questa crisi il capitalismo e le società occidentali cambiano volto: è la transizione dal fordismo al postfordismo dal punto di vista dell’organizzazione della produzione, è la globalizzazione e la finanziarizzazione dell’economia, è lo smantellamento più o meno graduale nei vari contesti politici dello stato sociale. Una vera e propria rivoluzione conservatrice che rimodella la società all’insegna di più libertà, più competizione, più disuguaglianza.
L’esito di questa trasformazione è stato un nuovo ciclo di espansione del capitalismo che ha condotto a un poderoso incremento della ricchezza e dei consumi su scala globale, ma che ha ridisegnato radicalmente i rapporti tra capitale e lavoro, tra economia e politica. La rivoluzione neoliberale ha infatti prodotto uno “spostamento imponente di ricchezza dai salari al profitto”, una società sempre più disuguale e divaricata, ma, al tempo stesso, anche una crescente subalternità della politica alla logica economica. È nella quarta rivoluzione del Novecento che affonda la crisi della sinistra perché lì si è consumata la sconfitta del lavoro e perché, questa è la tesi centrale del libro, il lavoro e la rappresentanza dei suoi interessi, dei suoi diritti, della sua dignità è qualcosa da cui nessun discorso di sinistra può prescindere. Di più: “Non aver posto l’accento sul lavoro con sufficiente convinzione, aver accettato la subalternità del lavoro e le disuguaglianze sociali, è stata una delle maggiori cause di debolezza della sinistra”.
La crisi attuale ha reso più urgente il compito di ripensare una sinistra che sia capace innanzitutto di essere parte, di rappresentare un mondo del lavoro fatto ovviamente di lavoro dipendente, di piccolissimi artigiani e di imprenditori individuali, ma anche della variegata galassia del lavoro precario o di coloro che un lavoro non ce l’hanno più o non l’hanno mai avuto. Una sinistra che nella propria parzialità non rinunci, tuttavia, a pensare l’universale, a “progettare un nuovo compromesso, molto meno squilibrato dell’attuale, oltre che meno burocratico che nel passato, tra economia e diritti di libertà, tra mercato e Stato, tra privato e pubblico”, nella consapevolezza che neutralizzare gli aspetti distruttivi del capitalismo neoliberale è una “missione civilizzatrice” che risponde a un interesse generale: “Un obiettivo che ha la stessa rilevanza epocale del New Deal, anche se non ne può riprodurre le terapie e le soluzioni”.
Il lavoro, dunque, come luogo materiale e simbolico da cui ripartire anche per valorizzare i contributi critici sul piano dei diritti, delle istituzioni, delle forme della politica che le diverse sinistre hanno messo a punto in questi anni. Una prospettiva chiara e impegnativa che dovrà confrontarsi almeno con due diversi generi di difficoltà. Il primo e più immediato è costituito dalla sordità delle forze della sinistra reale (spesso impegnata in tatticismi di ogni genere e in diatribe da ceto politico), a cui sembrano mancare le risorse anche soltanto per mettere in agenda una riflessione che si muova in una direzione così ambiziosa.
Più in prospettiva, la possibilità di fare nuovamente del lavoro un luogo di solidarietà anziché di competizione dipenderà in larga misura dalle possibilità di crescita dei paesi di antica industrializzazione: dalla capacità del capitalismo di “generare” lavoro. Una scommessa che non è scontato vincere.

“L'Indice dei libri del mese”, Anno XXXI, n.1, Gennaio 2014


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