23.3.14

Com'era fatta la caravella? (Giovanni Maria Pace)

Le navi antiche, di legno naturale e senza trattamenti, quando venivano attaccate dai parassiti non avevano scampo. Così, ridotte a un colabrodo dai vermi, due caravelle della quarta e ultima spedizione di Colombo nel Nuovo Mondo furono abbandonate nella baia di Sant'Anna in Giamaica, sul cui fondo ora giacciono. Per trovarle, il dottor Roger C. Smith e un gruppo di studiosi dell'università del Texas si immergono in quelle acque cristalline dall'inizio dell'estate. Se, come sperano, la fortuna li assiste, ci troveremo di fronte a un ritrovamento importante non solo per ragioni storiche ma per tutto quello che i relitti, prevedibilmente bene conservati dalla natura dei fondali, potranno dirci sul modo in cui erano costruite queste navi, protagoniste di esplorazioni e commerci durante il Rinascimento. Ciò che apprenderemo sulla struttura delle caravelle servirà agli artigiani spagnoli che si apprestano a ricostruire la Nina, la Pinta e la Santa Maria. Le tre repliche ripeteranno nel 1992, cinquecentesimo anniversario della scoperta dell' America, il viaggio di Colombo.
Benché immagini d'epoca non manchino e neppure imitazioni moderne (basti pensare a film e sceneggiati televisivi) le caravelle rimangono sostanzialmente un oggetto misterioso. Com'era fatta esattamente la carena? E l'armamento? Il timone? Snelle e ardite, in grado di solcare il tempestoso oceano, le caravelle posseggono, tra gli scafi antichi, un fascino particolare. Come riuscivano a raggiungere, con forte vento, gli undici nodi, velocità-limite anche per i moderni scafi di lunghezza comparabile?
Con una delle tante discontinuità che punteggiano il suo procedere, l'archeologia marina ha scavato - si dice così nonostante l' improprietà del termine - più navi classiche, cioè greche, etrusche, romane, che vascelli recenti. Tra i grandi ritrovamenti d'epoca romana ricordiamo quello delle due navi di Caligola nel lago di Nemi, prosciugato per l' occasione tra gli anni 1928- 32. Lunghe ben 71 metri l' una e 73 l' altra, i vascelli imperiali erano, come si direbbe oggi, navi "di rappresentanza", scafi d' acqua dolce più adatti a mostrare opulenza che ad affrontare i flutti. Sul ponte della più piccola erano costruiti lussuosi ambienti in muratura, coperti da un tetto di tegole di rame dorato, con pavimenti intarsiati e ornati di mosaici. Travi di sostegno rivestite di bronzo, balaustrate con teste di Satiri completavano la decorazione, mentre l' opera viva, cioè la parte immersa della nave, aveva il fasciame rivestito di lana catramata, a sua volta coperto di sottili lamine di piombo. Purtroppo le navi di Nemi andarono distrutte in un incendio nella primavera del 1944.
Dopo questo "colossal", l'archeologia navale italiana non ha più dato grandi prove di sé. Ci sono stati, sì, ritrovamenti, ma modesti rispetto alla quantità di tesori adagiati lungo le nostre coste. Neppure i guerrieri di Riace sono riusciti a dare l' impulso sperato. L'archeologia subacquea è da sempre la sorella minore e dimenticata dell'archeologia di terra ferma, i suoi cultori si contano sulle dita di una mano, manca un centro di coordinamento a livello nazionale come pure una università che riesca a dare impulso a questa branca della scienza. Così quel museo sommerso che sono i litorali della Penisola viene soprattutto visitato da altri, come alla fine del secolo scorso gli scavi nelle grotte preistoriche della Liguria furono appannaggio dello straniero. Gli inglesi dell'università di Oxford sono appena partiti dall'isola del Giglio dove il mese scorso hanno recuperato una nave etrusca del quinto secolo avanti Cristo con la struttura lignea bene conservata. L'isola era sulle rotte mercantili dell'impero ed è dunque un posto in cui le immersioni archeologiche possono dare buoni frutti. Un altro relitto, del secondo secolo dopo Cristo, è infatti stato avvistato e attende di essere studiato.
Ma se il Giglio è importante, tutti gli ottomila chilometri di coste italiane sono una miniera; e i fondali del Mediterraneo in generale. L'anno scorso è stata annunciata la scoperta di quello che è certamente il più antico relitto finora identificato. Si tratta di una nave da carico che raggiunse la sua silenziosa, liquida tomba 3.400 anni fa, quando sul trono dell'Egitto sedeva Tutankhamen. La scoperta è avvenuta a Kas, lungo la costa meridionale della Turchia.
Il dottor Smith e il suo gruppo hanno ancora davanti un mese abbondante per individuare le navi di Colombo. Il compito non è facile, ci è stato detto in una intervista telefonica, perché la baia di Sant'Anna è grande e i relitti colà affondati numerosi. Ma per l'autunno forse ci saranno novità. Anche per un altro verso. Uno studioso dell'Università della Florida ha trovato in Spagna un documento di 400 pagine che descrive la Nina, lo sta esaminando e tra poco rivelerà al mondo ciò che ha decifrato. Il documento e l' eventuale recupero da parte di Smith aggiungeranno dettagli fondamentali a quanto già sappiamo sulle caravelle. La Nina, la preferita di Colombo, era lunga una ventina di metri e poteva trasportare 60 tonnellate di carico. La Pinta, un po' più larga, era più veloce della Nina, mentre la Santa Maria, l'ammiraglia della piccola flotta, raggiungeva i 27 metri di lunghezza. Più lenta delle altre due, finì in secca e dovette essere abbandonata nel Nuovo Mondo. Il suo aspetto panciuto ha portato qualcuno a supporre che non si trattasse di una vera caravella ma di un nao, un robusto vascello da carico di origine ispanica. Secondo il dottor Smith, le caravelle avevano fiocco e randa, cioè la vela anteriore e quella principale, quadrate, mentre la mezzana, cioè la vela di poppa, era tagliata a triangolo come le vele latine. Le vele quadrate sono più adatte all'andatura con vento in poppa, che era poi l'assetto di navigazione prevalente delle navi antiche. Ma le caravelle dovevano destreggiarsi con vento di bolina, cioè quasi contrario, altrimenti, dato il regime prevalente dei venti estivi, sarebbero state loro precluse molte rotte mediterranee. Le vele latine sono più manovrabili e adatte a questa andatura sfavorevole. Senza vele in kevlar nè scafi in lega leggera, le navi di Colombo riuscivano a coprire duecento miglia al giorno, una media del tutto rispettabile anche oggi.


“la Repubblica”, 5 settembre 1985  

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