14.3.14

Dall’arte della boxe una garanzia di pace (Maurice Maeterlinck)

Drammaturgo, entomologo e poeta belga di lingua francese nato a Gand nel 1862, Maurice Maeterlinck ottenne il premio Nobel per la letteratura nel 1911. Dopo studi di diritto, all'età di ventisette anni Maeterlinck diede alle stampe la sua prima raccolta di poemi Serres chaudes, a cui fece seguito, a distanza di pochi mesi, la pièce teatrale Princesse Maleine. In lui, come scrisse Rémy de Gourmont, convivevano «due uomini, il poeta e il saggista, entrambi capaci di rinnovare la disciplina a cui si avvicinavano». Fra le sue opere, oltre a «Serre calde» (a cura di Milo De Angelis, Mondadori, 1989) e «La principessa Maleine» (Sellerio, 1994), ricordiamo La vita delle api (Rizzoli, 2003). Il testo qui postato, tratto dalla raccolta di saggi L'intelligence des Fleurs edito a Parigi nel 1907, faceva parte dei “ritagli d’autore scelti dal “manifesto” come lettura per l’estate nell’agosto 2007. (S.L.L.)
Succede che, fra tante preoccupazioni intellettuali, talvolta capiti di occuparsi delle caratteristiche del nostro corpo e, in particolare, degli esercizi che più accrescono la sua forza, la sua agilità e le sue molte qualità di animale sano, temibile e pronto a far fronte a tutte le esigenze della vita. A questo proposito, mi ricordo che, poco tempo fa, parlando della spada e del pugno, trascinato dalla discussione, fui abbastanza ingiusto nei confronti della sola arma specifica che la natura ci ha dato: il pugno, appunto. Terrei a porre rimedio alla mia ingiustizia.
Spada e pugno si completano a vicenda e possono fare - anche se non è elegante esprimersi in questa maniera - dei buoni «traffici» insieme. Ma la spada non è, o non dovrebbe essere, altro che un'arma eccezionale, una sorta di ultima et sacra ratio. Non vi si dovrebbe far ricorso che dopo solenni precauzioni e un cerimoniale equivalente a quelli di cui si contorna un processo che può concludersi con una condanna a morte. Al contrario, il pugno è l'arma dei nostri giorni, l'arma umana per eccellenza, la sola che sia organicamente adatta alla sensibilità, alla resistenza, alla struttura offensiva e di difesa del nostro corpo.

Aberrazioni fantastiche
In effetti, a osservarci bene, ci dovremmo schierare senza grandi vanti tra gli essere meno protetti, fra i più nudi, fragili, vulnerabili e flaccidi della creazione. Compariamo, per esempio, il nostro corpo a quello degli insetti, formidabilmente attrezzati per l'attacco e così fantasticamente corazzati. Osservate, fra gli altri, la formica sulla quale potete caricare fino a dieci o ventimila volte il peso del suo corpo, senza che ne appaia infastidita. Osservate l’hanneton, il meno robusto fra i coleotteri, e pesate ciò che riesce a portare prima che gli si schiantino gli anelli del ventre. Quanto alla resistenza della lumaca, essa non ha, per così dire, limiti. Se confrontati agli insetti, noi e la maggior parte dei mammiferi siamo esseri non solidificati, ancora allo stato gelatinoso e vicinissimi al protoplasma primitivo. Soltanto il nostro scheletro, simile a un abbozzo della nostra forma definitiva, offre qualche consistenza. Ma com'è miserabile, questo scheletro, quasi fosse stato concepito da un elefante! Prendete la nostra spina dorsale, base di tutto il sistema, dove le vertebre mal assemblate non reggono se non per miracolo, e la nostra gabbia toracica non presenta se non una serie di sporgenze che osiamo sfiorare a malapena con la punta delle dita. In opposizione a questa macchina molle e incoerente che è il nostro corpo, quasi una prova malriuscita della natura, e contro questo organismo dal quale la vita tende a scappare da ogni parte, abbiamo immaginato armi capaci di annientarci anche qualora possedessimo la favolosa corazza, la prodigiosa forza e l'incredibile vitalità dei più indistruttibili fra gli insetti.
Lo si deve ammettere, in tutto questo c'è una curiosa e sconcertante aberrazione, una follia originaria propria della specie umana, follia che, ben lontana dall'emendarsi, cresce ogni giorno di più. Per restare nell'ambito della logica naturale seguita da ogni altro essere vivente, noi, fra uomini, non dovremmo usare altro mezzo di difesa o di attacco che non sia quello offerto dal nostro proprio corpo. In una umanità che si conformasse strettamente ai dettami della natura il pugno – che sta all’uomo come il corno al toro, o l’artiglio o il dente al leone basterebbe per ogni nostra esigenza di protezione, di giustizia e di vendetta. Ogni specie, appena più saggia, interdirebbe ogni altra arma di scontro, pena la punizione che si riserva a un crimine irremissibile. In capo a poche generazioni si arriverebbe a diffondere e a rimettere in piedi una sorta di timore panico della vita umana. E che selezione rapida, nel senso preciso delle volontà di natura, produrrebbe la pratica intensiva del pugilato, nel quale si concentrerebbero tutte le speranze della gloria militare! La selezione, dopo tutto, è la sola cosa realmente importante di cui dovremmo preoccuparci. È il primo, il più vasto e imperituro dei nostri doveri verso la specie.

Lezioni di umiltà animale
Nell'attesa, lo studio della boxe ci offre eccellenti lezioni di umiltà e getta una luce inquietante sul declino di alcuni fra i nostri istinti più preziosi. Ben presto ci accorgiamo che per tutto quanto concerne l'uso dei nostri arti, l'agilità, la destrezza, la forza muscolare, la resistenza al dolore, siamo caduti all'ultimo rango dei mammiferi o dei batraci. Da questo punto di vista, in un gerarchia bene intesa, noi abbiamo diritto a un modesto posticino fra la pecora e la rana. Il calcio di un cavallo, così come l'incornata di un toro o il morso di un cane sono meccanicamente e anatomicamente non perfettibili. Sarebbe impossibile migliorare, anche attraverso le più dotte lezioni, l'uso istintivo delle loro armi naturali. Ma noi, gli «ominidi», i più originali fra i primati, non sappiamo più sferrare un pugno! Non sappiamo neppure quale sia l'arma caratteristica della nostra specie.
Prima che un maestro ce l'abbia laboriosamente e metodicamente insegnato, noi ignoriamo totalmente la maniera di mettere in opera e di concentrare nelle braccia la forza relativamente enorme che risiede nelle nostre spalle e nel bacino. Osservate due carrettieri, due contadini che vengono alle mani: niente di più penoso. Dopo avere rovesciato una copiosa bordata di ingiurie e di minacce, si prendono per i capelli e per la gola, lottano coi piedi, le ginocchia a casaccio ciò, si mordono, si graffiano, si invischiano nella loro rabbia immobile, non osano mollare la presa e se uno dei due libera un braccio, sferra colpi alla cieca e quasi sempre a vuoto, piccoli colpi alla rinfusa, ridicoli. La lotta non finirebbe mai se, da una o dall'altra tasca, non uscisse a tradimento un coltello.
Osservate, invece, i pugili: non una parola fuori luogo, nessun brancolare, niente collera. Soltanto la calma e molte certezze su ciò che va fatto. Lo stare in guardia, una delle più belle posture del corpo virile, mette in risalto tutti i muscoli dell'organismo. Dalla testa ai piedi, nessuna particella di forza può più disperdersi. Ciascuna di esse ha il suo polo nell'uno o nell'altro dei pugni sovraccarichi di energia. Quanta nobile semplicità nell'attacco! Tre colpi, non uno di più, frutto di una secolare esperienza, esauriscono matematicamente le mille, inutili possibilità in cui si avventurano i profani. Tre colpi essenziali, irresistibili, non si può fare di meglio. Dal momento in cui si colpisce l'avversario, la lotta ha fine, con completa soddisfazione del vincitore che trionfa tanto incontestabilmente da non nutrire alcun desiderio di abusare della propria vittoria, e senza pericolosi
danni per il vinto, ridotto all'incoscienza e all'impotenza per il solo tempo necessario a che il rancore svapori. Ben presto, lo sconfitto si rialzerà, senza danni permanenti, perché la resistenza delle ossa e degli organi è strettamente e naturalmente proporzionata alla potenza dell'arma umana che l'ha colpito e buttato a terra. Può sembrare paradossale, ma è facile constatare che, laddove praticata e coltivata, l'arte della boxe diventa garanzia di pace e mansuetudine. Il nostro aggressivo nervosismo, la nostra sensibilità in agguato, la sorte del continuo “chi va là” in cui si agita una vanità sospettosa, tutto in fin dei conti deriva dal sentimento della nostra impotenza e della nostra inferiorità fisica che fatica come può per mettere paura, grazie a una maschera fiera e irritabile, a quegli uomini il più delle volte volgari, ingiusti e malvagi che ci circondano. Più ci sentiamo disarmati di fronte a un oltraggio, più ci tormenta il desiderio di provare agli altri e a noi stessi che nessuno può impunemente offenderci. Il coraggio è tanto intrattabile che l'istinto spaventato, ricacciato in fondo al corpo che riceverà il colpo, si domanda con più ansia come finirà.

Risorse magiche della prudenza
Cosa farà, questo istinto di prudenza, se la crisi volge al peggio? È su di esso che si fa affidamento nell'ora del pericolo. A questo è affidata la preoccupazione dell'attacco, la cura della difesa. Ma così spesso, nella vita quotidiana, lo si è cacciato dalla luce del giorno. Che parte prenderà? Dove bisognerà colpire, agli occhi, al ventre, al naso, alle tempie, alla gola? Che arma scegliere? Il piede, i denti, la mano, il gomito, le unghie... Non lo si sa più. Si vaga in una dimora che si sta deteriorando, e mentre ci si confonde e si tira l'istinto della prudenza per la manica, il coraggio, l'orgoglio, la vanità, la superbia, l'amor proprio, tutti i grandi e magnifici signori, magnifici ma irresponsabili, inaspriscono la lite che, dopo innumerevoli e grotteschi sviamenti, arriva infine all'inefficace scambio di botte rumorose, cieche, piagnucolose e ibride, penose e puerili e indefinitamente impotenti.
Al contrario, colui che conosce la fonte di giustizia e la tiene stretta fra le sue mani chiuse, non ha bisogno di autoconvincersi. Una volta per tutte, egli sa e conosce. La longanimità, come un fiore tranquillo, emana dalla sua vittoria ideale, ma certa. L'insulto più volgare non può ormai alterare il suo sorriso indulgente. Aspetta, pacifico, le prime violenze, e può dire con tranquillità a tutto ciò che lo offende: «vi sbatterò fino là in fondo». Un solo gesto magico, al momento giusto, sa porre fine all'insolenza. A cosa serve questo gesto? Non ci si pensa neppure più, tanto è certa la sua efficacia. Con la stessa vergogna che si prova nel colpire un ragazzo indifeso, ci si risolverà, alla fin fine, ad alzare contro una persona violenta la propria mano sovrana, una mano che rimpiange in anticipo la troppo facile vittoria.


“il manifesto”, 2 agosto 2007

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