17.3.14

Gli eschimesi di Rasmussen (Graziella Pulce)

Rasmussen (a destra) con un amico eschimese 
Knud Rasmussen (1879 1933), autore del Grande viaggio in slitta, nato e vissuto a lungo in Groenlandia, terra di ghiaccio e di solitudine, sembrerebbe meritarsi proprio un  «chi era costui?» Eppure è uno dei grandi esploratori del Polo Nord, meta di sette spedizioni scientifiche realizzate con una équipe di archeologi, geografi, cartografi e naturalisti. In particolare, la quinta spedizione Thule ebbe inizio nel 1921, durò tre anni e fruttò circa 20.000 oggetti, centinaia di foto, svariati disegni e ben 5.500 pagine di interessantissimi appunti scientifici. Una parte di questo materiale, pubblicato nel 1932 e tradotto in varie lingue, è ora per la prima volta disponibile in italiano (trad. di Bruno Berni, Quodlibet, pp. 308, € 16,00, con una sezione di fotografie e disegni).
Gli interessi di Rasmussen riguardavano essenzialmente il versante etnografico degli eschimesi, nome con cui si comprende l'insieme di popoli abitanti i territori artici in quella parte estrema del mondo compresa tra Polo Nord, Groenlandia, Canada e Alaska, il cosiddetto Passaggio a Nord Ovest. Essi sono gli akilinermiut, le persone che vivono dall'altra parte del mare. Rasmussen parte dalla baia di Hudson, prosegue lungo le coste e le isole del Canada e l'Alaska, arriva in Russia, e riesce a raccogliere testimonianze su una cultura di cui fino ad allora non si avevano se non sparute informazioni. Con gli eschimesi lui, danese della Groenlandia, comunica con estrema facilità sul piano linguistico e culturale e condivide con loro caratteristiche fisiche, come la resistenza al freddo e la capacità di adattamento. Ma questo Rasmussen non è un Carneade e se i suoi resoconti hanno una certa aria di famiglia è perché sulle sue notazioni Mircea Eliade o Ernesto De Martino andavano a raccogliere informazioni di cui poi leggevamo in scritti dedicati allo sciamanesimo e alla magia, ed è da lì che abbiamo imparato l'esistenza di arcani viaggi nelle terre dei morti e degli dei.
Il fascino esercitato da terre così inaccessibili (solo pochi anni prima Jack London aveva raccontato le sue storie di cani, di foreste e di freddo) deriva dalla loro sostanziale estraneità rispetto ai modelli culturali della “modernità” e dall'allure esercitato dalla forza fisica e psichica con cui intorno al mar Glaciale artico ognuno sa affrontare una natura leopardianamente avversa al genere umano. Degli eschimesi impariamo a conoscere tutto ed è un tutto che si circoscrive con facilità. Gli esseri umani sono un mero accidente rispetto all'immensità di neve, ghiaccio e tundra e l'intelligenza di queste sparute comunità risulta tutta finalizzata alla pura e semplice sopravvivenza (-18° quando è bel tempo,  - 50° quando il freddo si mette l'abito da cerimonia), alle risorse esterne (ghiaccio, neve, rade sterpaglie), al cibo disponibile: renna per primo, per secondo e per contorno; per dessert larve di tafani – di renna – che crepitano sotto i denti. Limitate le variabili: a seconda delle zone e delle stagioni, carne e grasso di foca, merluzzo, lepre. Festa grande e canti epici quando i cacciatori mezzo congelati e tramortiti dalle privazioni conseguenti al protrarsi della caccia trascinano fino al campo un tricheco, da cui la reazione di esultanza delle donne e dei bambini che vedono arrivare un quintale, un quintale e mezzo di carne, grasso e pelle, e la felicità di alzare la fiamma del fuoco o delle lucerne perché solo in quel momento gli spettri della fame, del freddo e buio sono allontanati per qualche giorno. Tutto ciò comunica al lettore di oggi (pure abituato a credere di non doversi stupire più di nulla) un misto di terrore e di gioia profonda, uno scuotimento capace di far ricordare all'essere protetto da un carapace di mura, metalli e vetri blindati quanto sia tenera la sua pelle e quanto i suoi arti abbiano disimparato la fatica e la rude arte di aspettare anche un'intera giornata che il muso di una foca si affacci ad un buco nel ghiaccio per riprendere aria in quello che sarà il suo ultimo atto respiratorio.
Ecco, gli eschimesi fanno ripartire l'orologio del genere umano dalla preistoria, con un sistema di riferimento nel quale si può trovare a suo agio la dura scorza di un groenlandese, figlio di un pastore protestante, nato con il pallino dei viaggi oltre i confini del vivibile. Ben prima del generale Kutuzov, gli eschimesi hanno compreso che l'inverno non è il nemico da cui cercare scampo, ma il grande alleato, che gela le acque e rende il ghiaccio stabile consentendo alle slitte di correre alla ricerca di nuovo cibo. E gli animali sono le mani della natura da cui strappare cibo, luce, forza. Senza i cani da traino e la loro determinazione nessuna spedizione avrebbe mai avuto luogo e nessun antropologo avrebbe appurato alcunché di questi popoli straordinari, dei loro canti e dei loro voli estatici, degli amuleti con cui difendevano se stessi e i loro piccoli.
Sotto il profilo etnologico, gli eschimesi non costituiscono un unico gruppo: ci sono quelli delle foche e quelli delle renne, quelli del bue muschiato e quelli del Mackenzie e la narrazione procede in modo lineare, a illustrare le storie e le ritualità di popoli osservati con umana simpatia e discrezione. Al termine del libro abbiamo imparato a conoscere una modalità di vita dimenticata da millenni e viva ancora allo sbocciare del XX secolo, secondo la quale gli eventi hanno il valore di segni annunciatori di fenomeni non ancora completamente percepibili. Apprendiamo che è rilevante anche la posizione in cui viene disposto un pesce appena pescato ed è bene conoscerla se non si vuole suscitare l'ira del mare e patire la fame. Dunque il fenomeno dello sciamanesimo – comune a tutti i gruppi di eschimesi – indica nettamente un atteggiamento di soggezione nei confronti delle forze naturali. Lo sciamano agisce su mandato di un'intera comunità che lo accompagna, lo sostiene e lo riaccoglie nel suo seno, per cui colpisce la totale assenza di individualismo e il prevalere dell'istanza di coesione, in virtù della quale le avversità risultano almeno affrontabili. Questo il grande valore di un libro che senza enfasi e con il tono dimesso del cronista racconta storie fantastiche, di morti che danzano e di vivi che ascoltano la musica della neve che si scioglie, di dei offesi e di bambini che giocano ad acchiapparella.


«il manifesto alias» 23-04-2011

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