2.3.14

Ricordi di scuola (Salvatore Lo Leggio)


Mi capitò una sola volta in tutta la carriera di insegnante di far scuola a ragazzi piccoli, anzi a ragazze piccole. In assegnazione alle magistrali quasi certamente per un solo anno (al classico – ove avevo perso il posto - c’erano ben tre pensionandi), il preside, il buon Morelli, mi affidò una prima, la classe di collegamento del corso (allora) quadriennale. Non so se fui all'altezza, ma mi affezionai presto.
Erano in maggioranza ragazze di campagna, figlie di mezzadri, o metalmezzadri, o mezzadri piccoli imprenditori. Diverse venivano da lontano, il lago, l'alta valle del Tevere. Qualcuna doveva svegliarsi alle sei e mezza per prendere il bus o il trenino della Centrale Umbra: la stanchezza si leggeva nelle facce, negli occhi, nei capelli scombinati dal sonnecchiare in viaggio.
Da insegnante ero esigente, bisognava studiare ogni giorno: lo fui anche con loro. Niente interrogazioni programmate e niente “giustificazioni”: per l’ultima lezione si era sempre scusati, senza dover dare spiegazioni; approfittavo della cosa per ridiscutere qualche argomento importante dei giorni e delle settimane precedenti. Chiamavo alla cattedra a sorteggio: la povera Pepponi, numero 16, che ora fa – immagino ottimamente – la poliziotta, veniva estratta spessissimo. A Latino orale accumulò una decina di valutazioni sul registro.
Per i voti, in quella come in altre classi, non usavo né il “più” né (tanto meno) il “meno meno”, solo il voto pieno o i mezzi voti. Usavo però tutta la scala: dal 10 all’1. L’1 era riservato solo a chi rifiutava la verifica rimanendo al suo posto; bastava venire alla cattedra e fare scena muta per guadagnarsi un 2. Ma non succedeva quasi mai: negli ultimi dieci anni proprio mai. Le ragazze e i ragazzi capivano come funzionava e tentavano comunque di dialogare (non senza i prevedibili effetti comici in caso di impreparazione); io avevo sempre una domanda di riserva. Per decidere il voto facevo un computo mentale, rapidissimo: i contenuti, il linguaggio, la capacità di ragionare e argomentare, il senso critico; poi la tara, mezzo voto in più ai più antipatici, mezzo in meno a quelle e a quelli che mi erano più cari. In quella prima magistrale non rammento ragazze antipatiche, se non forse la prima della classe a cui, una volta o due, assegnai perfino il 10.
Non ricordo lamentazioni o proteste, allieve ed allievi generalmente sembravano accettare la valutazione come giusta,. Rivedo, sì, qualche faccia delusa e mortificata, più per un esito del colloquio al di sotto dell’impegno e delle aspettative che per il voto. Io ne soffrivo un po’. In quella classe di ragazze studiose la cosa succedeva soprattutto per il latino: alcune sembravano negate, forse per un qualche rifiuto originario a base psicologica, forse per la didattica. Nel triennio non avevo mai insegnato le basi del latino e dovendolo fare per quell’unico anno, scelsi di seguire pedissequamente il testo adottato dai predecessori, senza tentare strade nuove. I risultati non furono appaganti: una decina di quelle trenta ragazze andava assai male nella pratica della traduzione ed anche le altre, con poche eccezioni, stentavano. Ai compiti in classe facevo una vigilanza occhiuta: non si doveva imbrogliare; si poteva del resto rimediare all’orale, ove oltre alla lingua si studiavano, attraverso letture adatte, alcuni aspetti della civiltà di Roma antica. Alla fine non feci una carneficina: rimandai a settembre sei o sette ragazze che ci misero un po’ d’impegno e, in qualche modo, passarono. Una sola fu bocciata: andava male in tutte le materie. A noi insegnanti confessò che era a causa di un amore ingarbugliato: evidentemente ne capitano anche a quattordici anni.
In ogni caso il giorno della versione in classe (come quello del compito di matematica) era per quelle ragazze tremendo e faticoso. Ricordo una volta che vidi molte di quelle figliole scapigliate, sospiranti, con le facce preoccupate, pallide. Passai tra i banchi e capii che c’era più di un intoppo: non avrebbe dovuto esserci, ma c’era. Commosso, mi assalì la tentazione di dare qualche dritta, ma mi bloccò l’esigenza di capire chi ce la faceva e chi no.
Qualcosa tuttavia volli fare. Lì al vecchio convento del Parione, di fronte al carcere ove i fascisti rinchiusero Camilla Ravera, c’era una bidella all’antica, più nonna che mamma; anche se non era tra i suoi compiti istituzionali, la mandai a comprare caramelle e cioccolatini e, a sorpresa, ne feci distribuzione tra i banchi, 5 o 6 pezzi per alunna. Le ragazze diedero vista di apprezzare molto. Certo è che la versione andò molto meno male del prevedibile e addirittura meglio del solito. Non è da escludere che alla base della difficoltà ci fosse una crisi glucidica.

Un’altra volta vidi passare un bigliettino da un primo a un secondo banco e corsi a sequestrarlo. Era una disperata richiesta di aiuto: “Se mi passi la versione, ti regalo un cane”. Dovetti fare il severo e frenare la risata, ma non riuscii a frenare l’ondata di tenerezza e una lacrimuccia di commozione. Forse era pena troppo lieve per una tentata corruzione, ma mi limitai a cambiare collocazione alla colpevole: la misi in cattedra, al mio posto.   

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