22.4.14

De Amicis e Rapisardi (di Leonardo Sciascia)

Nel pezzo che segue Sciascia, per allusioni, connette il passato al tempo in cui scriveva, quasi cinquant'anni fa. Mi domando se il testo non conservi tuttora una sua attualità. (S.L.L.)

Edmondo De Amicis era stato in Sicilia, da militare, nel 1865-66. Quaranta anni dopo tornava a rivedere l’isola: e ne cavava un libretto che l’editore catanese Giannotta pubblicava nel 1908, un libretto pieno di acute notazioni, di cordiali impressioni, di malinconie, di entusiasmi.
Del carattere dei siciliani scrive: “Strano carattere, violento e tenace nella passione, debole e mutevole nella volontà, facile egualmente all’entusiasmo e allo scetticismo, eroico nei suoi impeti generosi e pazientissimo nelle sue rassegnazioni indolenti; nel quale quel fortissimo sentimento individuale, che in altri popoli è il suo grande propulsore delle iniziative, produce l’effetto di far curvare l’individuo dinanzi all’individuo, di far idolatrare la forza, di assoggettare le moltitudini a pochi padroni, di perpetrare lo spirito del feudalesimo nella politica, nelle amministrazioni, in tutti i campi… Un grande errore è però il giudicare il siciliano dalla collettività, come la maggior parte di noi italiani facciamo. Egli ha tanto da guadagnare a esser conosciuto individualmente e da vicino. Lavoratore, ragionatore, padre di famiglia, amico, ospite, egli si rivela tutt’altro uomo da quel che pare visto da lontano, nella moltitudine. Per questo c’è una grande diversità nel giudicarlo fra gli italiani del continente che hanno vissuto lungo tempo nell’isola e quelli che non v’hanno mai posto piede o non vi passarono che come viaggiatori. Questi sono ingiusti”. E’ un concetto che esprimerà anche il Lawrence, nella introduzione al Mastro don Gesualdo.
E si potrebbero stralciare altre impressioni, altri giudizi del De Amicis; ma più importerà al lettore questo ritrattino del Rapisardi: “Benché malato, egli non dimostra i suoi sessantatre anni: è ancora dritto nella sua alta statura, ha i lunghi capelli ancora nereggianti, e negli occhi una espressione di energia vivacissima, tutta la fierezza dell’antico poeta ribelle, fulminatore di ogni superstizione e d’ogni tirannia, tribuno ardente degli oppressi e dei miseri, apostolo battagliero di libertà e di giustizia. E’ una figura elegante e fiera di poeta romantico del passato secolo o di rivoluzionario mazziniano dei tempi della Giovane Italia. Quanto diverso nella conversazione e nelle maniere dalla immagine che se ne fanno i suoi avversari, e anche la più parte dei suoi ammiratori! Il “bieco arcangelo fulminato” ha la parola affettuosa e il sorriso gentile… Cessa di sorridere, però, e s’oscura in viso e fa vibrare lo sdegno nella parola profetando che la viltà della borghesia liberale, clericaleggiante per terrore dello spettro rosso, finirà col dare l’Italia nelle mani del partito cattolico, il quale vi rifarà la rivoluzione a rovescio”.
Forse è il caso di tornare a leggere Rapisardi.

“L’Ora”, 16 gennaio 1965

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