4.4.14

Europa, uno spazio obbligato (Renato Covino - micropolis marzo 2014)

Altiero Spinelli
C’è una notizia uscita sui giornali nelle scorse settimane anzi, come sempre più spesso si usa, un retroscena relativo al modo il cui è stato fissato il rapporto deficit/pil non superiore al 3%. Dai giornali risulterebbe che sarebbe il parto di alcuni eurocrati, neppure di primo piano, che avrebbero scelto il numero 3 in quanto evocativo, per certi aspetti “magico”, senza nessuna analisi che ne avrebbe dovuto giustificare la ratio. La notizia in realtà è inverosimile, ma non è tanto questo il punto. La questione è, invece, che ancora rimane avvolta nel mistero la scelta del 3% e, soprattutto, il fatto che ipotesi incredibili vengano raccolte e avvalorate, dando l’impressione che le scelte dell’Unione europea siano immotivate e casuali.

La insostenibile leggerezza dell’Unione
In realtà le cose non stanno così. L’Unione è il frutto di una serie di accelerazioni, seguite da cautele e furbizie dei singoli Stati, in primo luogo dei più forti, che hanno costruito misure legislative che hanno il carattere e il valore di trattati.
Insomma l’Unione non è uno stato, non è una confederazione, né tanto meno una federazione. Perché ci fosse uno Stato sarebbe necessaria una politica estera, un esercito, una giustizia comuni. A tutt’oggi c’è solo una moneta comune – peraltro non adottata da tutti i 27 Stati che fanno parte dell’Unione – ed una banca comune. Non esiste neppure una politica fiscale armonica, né scelte economiche ed industriali convergenti. In realtà dall’inizio della crisi la preoccupazione è stata quella di garantire conti pubblici in ordine (l’austerità e il rigore) per evitare che squilibri eccessivi possano penalizzare le banche e soprattutto i paesi forti dello spazio economico europeo, provocando le evidenti difficoltà che attraversano gli stati mediterranei.

Scelte di lungo periodo ed effetti congiunturali
I motivi di queste difficoltà sono non tanto le ingerenze dell’Unione nelle politiche nazionali e regionali - i livelli di discrezionalità da questo punto di vista sono ampi e solo la cupidigia di servilismo dei governanti italiani poteva mettere il fiscal compact in Costituzione - quanto derivano da alcuni mutamenti intervenuti nel ventennio intercorsi dal Trattato di Mastricht negli equilibri internazionali e nello stesso continente.
In primo luogo la globalizzazione, se ha segnato i livelli di movimenti dei capitali e del flusso di informazioni, ha inciso molto meno sugli scambi e sulle economie reali. Si continua a scambiare, soprattutto, nelle singole aree e la divisione internazionale del lavoro sembra essersi modificata molto meno di quanto appaia. Ciò significa che le economie forti continuano ad essere forti, quelle deboli continuano a restare deboli. Fuori di chiave Germania e, in misura minore, Francia restano i pivot economici dell’Unione.
In secondo luogo ciò incide non solo nei rapporti economici e commerciali, ma anche su quelli tra i singoli Stati. Se si guarda retrospettivamente come è avvenuta l’istituzione dell’Unione, non può sfuggire come le architetture comunitarie derivino dai fatti avvenuti ad Est. L’unificazione tedesca poneva e pone la questione storica dello spazio di influenza della Germania. Con l’unificazione quest’ultima diveniva lo Stato più grande e popoloso d’Europa collocato al centro del continente. Ciò ha posto la questione di rapporti geopolitici con il resto dell’Europa centrale e la necessità di uno sfondamento ad est. E’ questa una costante che la politica tedesca ha da almeno mille anni, da quando il vescovo di Brema nel 1108 sosteneva: “ Gli slavi sono una razza abominevole, ma le loro terre abbondano di miele, grano e selvaggina. O giovani cavalieri teutonici, volgetevi a Oriente”. A ben vedere con toni più o meno ferrigni sarà la politica della Germania gugliemina e poi hitleriana, con le politiche di scambi in clearing con i paesi balcanici, naturalmente favorevoli, come sempre avviene, al paese più forte. Insomma la Germania usa gli ex paesi socialisti come semiperiferie fornitrici non tanto di materie prime come in passato, quanto di semilavorati e forza lavoro a buon mercato. Non altrimenti si spiega il riconoscimento immediato di Slovenia e Croazia e il pronto accoglimento dell’adesione di paesi come la Cechia, la Polonia, l’Ungheria, la Bulgaria e la Romania. Quanto sta avvenendo in Ucraina è parte di questo disegno, con il rischio che tutto esploda, come avviene negli esperimenti degli aspiranti stregoni.
Legato a questo aspetto c’è un ultimo dato da sottolineare, messo in evidenza qualche giorno fa da Marcello De Cecco, relativo ai rapporti monetari. L’economista ha sottolineato “la capacità della Germania di tollerare un cambio elevato dell’euro e persino di trarne vantaggio”, ciò deriva da “una strategia ormai pluriennale … di decentrare parte delle produzioni verso i paesi del centro Europa vicini geograficamente e con monete ancora indipendenti dall’euro e che si sono comportate come hanno fatto quelle dei paesi emergenti, svalutandosi per la fuga dei capitali a breve, ha come risultato che i tedeschi comprano parti e componenti per i propri raffinati prodotti dai paesi satelliti del centro Europa a prezzi sempre più bassi”. De Cecco sostiene che, sia pure in misura minore, anche la Francia è partecipe di questa tendenza, cosa che gli fa ipotizzare la tenuta dell’asse franco tedesco, mentre chi ne risulta penalizzata è l’Europa meridionale. Più semplicemente, complice la crisi, non si accentua solo la forbice tra ricchi e poveri, ma anche quella tra paesi ricchi e paesi poveri, aumentando gli squilibri all’interno del continente.

Il deficit democratico e necessità dell’Unione
Ciò spiega perché l’Unione continui ad essere gestita come venti anni fa. Il Parlamento conta poco o nulla, la Commissione non ha poi un peso rilevante né per qualità né per compiti, quello che conta in maniera determinante è il Consiglio d’Europa formato dai governi dei paesi membri. In altri termini la Commissione propone dopo aver accertato gli impatti economici, sociali, ambientali delle misure, il Parlamento approva congiuntamente al Consiglio, se quest’ultimo non è d’accordo appare evidente che la proposta non passa. Ovviamente nel Consiglio il peso della Germania e dei suoi satelliti e sodali appare prevalente.
Si dirà, allora, ma se lo svantaggio per alcuni paesi è così evidente hanno ragione gli euroscettici che propongono l’uscita dalla moneta unica, se non dall’Unione? La realtà è che hanno torto per molteplici motivi.
Il primo è che venti anni di legislazione europea hanno modificato in modo radicale il funzionamento delle istituzioni nazionali. Smontare un meccanismo di questo genere non è semplice e non è privo di contraccolpi negativi con danni difficilmente calcolabili, a prescindere dalle anime belle che continuano a parlare del federalismo delle origini. D’altro canto appare evidente come ormai venti di crisi politica soffino anche sull’Europa e che un raccordo sia pur minimo ed insufficiente delle politiche estere appare per alcuni aspetti obbligato.
Il secondo motivo è che la crisi non deriva tanto dall’invadenza dell’Europa e della Germania nelle politiche nazionali, ma dal fatto che c’è troppa poca Europa. Uno spazio economico continentale ed un armonizzazione in senso sociale delle politiche economiche ed industriali appare necessaria per l’uscita dalla crisi, ma per fare ciò è necessario che il Parlamento e la Commissione aumentino i loro poteri, mentre diminuiscano quelli degli stati. In altri termini occorre sanare il deficit democratico che l’Unione si porta dietro come peccato di origine.
Il terzo è che l’Europa è ormai lo spazio obbligato in cui si affrontano le politiche e le ideologie neoliberiste che fanno, con varie gradazioni, del rigore e di liberalizzazioni e privatizzazioni il loro asse portante e dove avanzare un’ipotesi di cambiamento del modello di sviluppo dominante, che non significa solo o tanto maggiore intervento pubblico, ma un modo diverso di lavorare, consumare e vivere.

Ma la sinistra dov’è?
L’Europa, insomma, è l’unico spazio in cui si può esprimere una moderna politica di sinistra che non si limiti ad opporsi propagandisticamente al liberismo o alla deriva centrista delle snervate socialdemocrazie, ma che proponga concretamente un diverso modello di relazioni sociali e di civiltà. Se il mito della rivoluzione mondiale è stato battuto già ad inizi anni venti, ancor più risibile è oggi l’idea che il mondo possa cambiare paese per paese, specie quando i paesi hanno la dimensione degli attuali stati europei.
Su questo terreno le sinistre, ma particolarmente quella italiana, sono drammaticamente indietro, risse da pollaio, un dibattito concentrato sui destini, probabilmente infausti, delle singole formazioni politiche, il “concretismo” di una pratica di movimento concentrata sulle singole tematiche congiurano contro un dibattito diffuso ed all’altezza delle emergenze in corso. Probabilmente le prossime elezioni europee riusciranno solo ad avviare un percorso di questo questo genere. Ma non ci sono alternative: o si passa per questa strettoia oppure la sinistra è destinata a rimare marginale nelle scelte politiche anche nei contesti nazionali. Lo abbiamo scritto più volte, ma questa volta non c’è un briciolo di retorica: hic Rhodus hic salta. 

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