16.4.14

Robert Capa a colori (Roberto Saviano)

L'altro giorno, su “Repubblica”, Saviano ha raccontato una mostra newyorkese dedicata a Robert Capa, il reporter del Novecento. Posto qui una parte dell'articolo. (S.L.L.)
Capucine in un ritratto di Robert Capa
I suoi scatti più noti sono ormai proprietà della memoria di tutti: il miliziano anarchico colpito a morte nella guerra di Spagna, la sua foto forse più citata, le madri in lutto intorno alle bare dei ragazzi del liceo Sannazaro morti combattendo i tedeschi nelle Quattro Giornate di Napoli. Le immagini sfocate dello sbarco in Normandia, quelle a cui Spielberg si ispirò per la sequenza iniziale di Salvate il soldato Ryan. Foto per definizione in bianco e nero. Per questo la mostra "Capa in Color" allestita qui per celebrarne il centenario rappresenta una sorta di shock visivo.
Prima di tutte c'è quella, incredibile, di Capucine, donna bellissima e sfortunata, morta suicida a sessantadue anni. Incredibile perché standole accanto senti le sue narici respirare. Il mento posato sul pugno, la luce di Piazza di Spagna, la camicia rossa. In quello scatto sembra esserci già tutto il suo destino, ed è la prova dell'arte di Capa che con il suo occhio, con il suo sguardo unico fonda un genere letterario.
La mia formazione, tutto ciò che ho scritto e tutto ciò che hanno scritto gli autori che mi hanno influenzato, discende direttamente da lui. Il neorealismo letterario, iconografico e cinematografico si è nutrito di Robert Capa. Di questo fotografo che arrivava a stento al metro e sessanta ed è raccontato dalle biografie come indomito amante, cronometrico nello sparire quando l'amata mostrava di volerglisi legare in un progetto di vita assieme. [...]
Il suo modo di scattare non è denuncia, non è indignazione, non è scelta d'arte, ma è tutte e tre queste cose insieme. E può esserlo solo perché il suo è uno sguardo che compromette, immerso nella vita, che della vita si bagna e si sporca. Che della vita non ha paura. Che dell'uomo non ha paura. "Se le tue foto non sono abbastanza buone vuol dire che non eri abbastanza vicino", recita la sua massima più famosa. Stare dentro le cose. Le foto di Capa a colori mostrano proprio questo: che lui non è in guerra ma è dentro la guerra, è tra i soldati, talmente vicino da rischiare la pelle. E questo vale per ogni sua fotografia. Anche per quando fotografa Truman Capote a Ravello, o Martha Gellhorn mentre passeggia tra le rovine del tempio di Cerere a Paestum. È dentro tutto ciò che fotografa. Dentro tutte le persone che fotografa.
I suoi scatti gli sono costati odi eterni, profondi. Non è mai stato perdonato per la foto del miliziano anarchico, sulla cui inautenticità esiste un'intera letteratura. Così come non gli sono mai state perdonate le foto a colori dell'Urss stalinista pubblicate con i testi di John Steinbeck, detestate dai comunisti perché anticomuniste e dagli anticomunisti perché filocomuniste. Qualunque foto facesse sapeva che avrebbe smosso reazioni istintive. […]
Sulla rivista Holiday Capa scrive: "Sono tornato a fotografare Budapest perché mi è capitato di essere nato lì; ho avuto modo di fotografare Mosca che di solito non si offre a nessuno; ho fotografato Parigi perché ho vissuto lì prima della guerra; Londra perché ho vissuto lì durante la guerra; e Roma perché mi dispiaceva non averla mai vista e avrei invece voluto viverci".
Aveva imparato da Gerda Taro, che fu sua compagna. Gerda morì a ventisette anni, investita da un carrarmato "amico" del Fronte Popolare Repubblicano. Stava guardando in camera mentre era sul predellino di un mezzo militare. Urtato, lei cadde e finì sotto i cingolati. Anche Robert Capa nel 1954 in Indocina stava guardando in camera. Aveva deciso di anticipare una colonna militare francese mentre avanzava. Andò su un terrapieno. Indietreggiando mise il piede su una mina. Gerda e Robert non avevano messo alcuna distanza tra loro stessi e i soggetti delle loro foto. […]

“la Repubblica, 13 aprile 2014

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