14.4.14

Salvatore Quasimodo premio Nobel (di Leonardo Sciascia)

Acuto commento di Sciascia ai commenti italiani sul Nobel assegnato a Salvatore Quasimodo, malevoli quasi quanto quelli che salutarono il Nobel a Dario Fo. La foto di cui Sciascia discorre all'inizio del suo articolo purtroppo non l'ho trovata in rete, ne ho rintraccia un'altra scattata nella stessa circostanza, con la stessa regale compagnia. (S.L.L.)
Salvatore Quasimodo con la principessa Margaretha di Svezia
al ricevimento per l'assegnazione del Premio Nobel (1959)
Tra le tante fotografie che accompagnano, su quotidiani e rotocalchi, le cronache delle cerimonie del Nobel, ce n’è una che mi pare sia riuscita a cogliere l’immagine più vera, e più vicina alla sua poesia, di Salvatore Quasimodo. Il poeta è seduto accanto alla principessa Margaretha (che è bellissima ragazza e, insieme all’altra Margherita, quella d’Inghilterra, nel sentimento dei popoli forse rappresenta l’ultimo legame con la regalità: come una frase musicale di Lehar, crepuscolare ed estrema, nel destino ormai grigio delle reali famiglie): forse sta parlando qualcuno, i soliti discorsi e brindisi dei pranzi ufficiali, poiché tutti pare guardino nella stessa direzione. Ma Quasimodo guarda senza vedere, assorto com’è in uno di quei momenti di malinconia e di apprensione che noi siciliani ben conosciamo. Sono momenti che ci colgono all’improvviso, come scattassero da un agguato, quando meno l’occasione li motiva e giustifica: al vertice di una soddisfazione di una gioia di un piacere: quando tutto intorno a noi è lieto e splendido; quando giungiamo al successo o ad un assenso di amore. Una trafittura improvvisa e sottile: e pure apre una profonda malinconia e profonda noia. Il siciliano appoggia allora la testa sulla mano, sperde il suo sguardo nel vuoto dell’apprensione, della solitudine. Il gesto di passarsi la mano sulla faccia, di appoggiare la testa sulla mano, tipico del siciliano, ha in senso direi pirandelliano: come di un accertamento della propria identità, per proiettarla e scomporla, in una prospettiva di solitudine, nella metafisica noia.
Sul pubblico di tutto il mondo i giornali hanno lanciato come spula immagini spavalde ed argute e soddisfatte di Quasimodo: l’altra faccia del siciliano che è, del siciliano che vive dentro “l’occhio del mondo” e per “l’occhio del mondo”, nel dispetto degli altri e per dispetto agli altri; ma nel momento in cui “l’occhio del mondo” si distrae, ecco la faccia della noia e della solitudine, dell’antica malinconia e “pena di vivere così” (e questo avverbio – “così” – non è in relazione a un particolar modo o condizione di vivere: ma è il modo assoluto e la condizione unica della vita stessa.
Da siciliano, capisco benissimo l’atteggiamento “a dispetto” che Quasimodo ha voluto assumere: così come capisco la sua apprensione (uso la parola apprensione nel significato che Brancati, in una finissima pagina di “Paolo il caldo”, le ha conferito). Dopo l’amore, l’amicizia è la sola nostra consolazione, ma è l’inimicizia che ci aiuta a vivere. Se intorno non sentissimo l’ostilità e l’invidia, se il nostro lavoro fosse soltanto lavoro e non difesa e dispetto (esistenziale dispetto come esistenziale è l’invidia che ci circonda), forse non commetteremmo quella che il principe di Lampedusa chiama la colpa del fare. L’invidia, che il Menendez y Pidal analizza come sentimento costitutivo dell’anima spagnola, e che indubbiamente è remora al progresso sociale e alla realizzazione degli istituti civili, e perciò (in Spagna come nel Meridione d’Italia), elemento attivo, di provocazione e di stimolo, relativamente agli individui: causa insomma del sorgere di personalità che, pur scontrose e drammaticamente isolate, rendono ad una costante polemica. In questo senso, il silenzio di Verga è polemico quanto le parole di Quasimodo.
Ma in realtà Quasimodo si trova oggi a dover fare i conti con una meno antica e più ignobile invidia. “Quasimodo avrebbe dovuto” – scrive Mario Schettini su “Corrispondenza socialista” – “come il nostro costume prescriveva con inderogabile legge, rintanarsi nella sua solitudine e rassegnarsi ai postumi riconoscimenti: com’era capitato a Tozzi, a Verga, a Svevo… Una persona che crede fermamente alla sua polemica e al suo lavoro, finisce per essere amabilmente detestata…”. E ad un lettore di “Epoca” che, candidamente e maliziosamente, chiede spiegazione sull’atteggiamento di certi poeti e letterati italiani nei riguardi del premio Nobel assegnato a Quasimodo, Raffaele Carrieri risponde: “Si spiega con l’invidia. Il 95 per cento (ma sono ottimista) dei poeti italiani voleva il premio”. Affermazione che bisognerebbe correggere in questo senso: “voleva il premio o semplicemente desiderava non fosse premiato Quasimodo”. Il lettore sarebbe in diritto di chiedere: se è stata premiata Pearl S. Buck e non è stato finora premiato André Malraux, perché scandalizzarsi di un premio a Quasimodo, anche ad ammettere come valide le ragioni dei suoi detrattori? Facciamo conto che il Nobel sia un grosso, internazionale, Viareggio: e non se ne parli più”.
Il fatto è che il Nobel, dato ormai per fuori giuoco Malraux, quest’anno è stato assegnato bene. Qualche altro poeta ne sarebbe stato degno (Mac Leish, Auden, Guillén, Montale, Cernuda): ma alla pari con Quasimodo. Che tra Quasimodo e Mac Leish, che tra Quasimodo e Guillén e Cernuda e Auden, l’Accademia abbia scelto Quasimodo, è un fatto di cui ci rallegriamo in quanto italiani. Che tra Quasimodo e Montale, abbia scelto Quasimodo, è un fatto di cui ci rendiamo conto, che giustifichiamo, in quanto lettori di poesia: semplici lettori sciolti da motivazioni storiche e critiche, quali immaginiamo siano nei riguardi della nostra letteratura gli accademici svedesi (Personalmente ritengo che Montale offra un importante risultato di “poetica”; ma Quasimodo un notevole risultato di poesia).
In conclusione: la nostra civiltà letteraria è al livello di quella congregazione para-religiosa di un paese siciliano in cui, dovendo eleggersi il priore, allo scrutinio dei voti risultò che ciascun congregato aveva avuto un voto (che era il proprio); e, dopo tre o quattro votazioni, risultò priore uno che aveva larga parentela tra i congregati.

"Galleria", novembre-dicembre 1959

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