7.5.14

Beruti. Un racconto di Eduardo Cobos (Cile)

Buenos Aires, Calle Beruti, Foto di Matt Harrington (Flickr)
a María Fabiola Álvarez

Vivevamo in una casa del Barrio Norte, a calle Beruti, distante due isolati dall’avenida Santa Fe. Oltre a noi cileni, e a una coppia di uruguaiani, ci abitavano uno zoppo e un’ex-puttana. Erano fidanzati. E si amavano. Come capita spesso, lui l’aveva tirata fuori dalla prostituzione e cose di questo tipo. La loro relazione mi ricordava un romanzo di Onetti. Quella casa l’amministrava León, un uruguaiano discendente da armeni, anarchico come i suoi genitori e, forse, come i nonni. L’idea di una Comune lo affascinava; chiaramente, solo per esserne lui l’amministratore. Per questo, due anni prima, aveva preso la casa in cui stavamo. Senza dubbio la conquista di quel posto era uno dei pochi atti eroici dei suoi ventidue anni e lui parlava continuamente del giorno in cui era riuscito a farcela. Era facile intuire dove andasse a parare la corrente delle sue conversazioni, non faceva che parlare di un socialismo non autoritario e di tutta una serie di fatti consimili che venivano trattati con termini solenni, definitivi. Arrivai in quella casa tramite un amico cileno che, come me, cercava di proteggersi dal maledetto inverno di Buenos Aires. Una volta insediato, feci in modo che la notizia si diffondesse rapidamente tra i miei connazionali più vicini. In qualche settimana, poco a poco, il luogo si affollò. Beruti si riempì di noi, con le nostre lamentazioni sulla dittatura e tutte queste stronzate. Senza poterlo più evitare, León ormai si trovava tra i piedi sette cileni che parlavano un idioletto incomprensibile per lui e per la sua compagna dal naso storto. Le nostre intenzioni erano molto lontane dai propositi della sua sedicente Comune. Quando si rese conto dell’invasione, era già troppo tardi per cacciarci via. A Buenos Aires tutti avevano compassione di noi, per quello che succedeva all’altro lato della Cordigliera. Ci facevamo trattare come esiliati, o qualcosa del genere, e sfruttavamo la situazione. Me ne andavo, per esempio, al centro culturale San Martín dove rappresentavano dei film di alcuni registi che mi interessavano, e mi mettevo accanto al botteghino a chiedere soldi per il biglietto. Dicevo sempre: guarda, amico, sono cileno e piacerebbe anche a me vedere questo film come farai tu tra un po’, non vorresti essere solidale con me; nessuno si negava, eravamo di moda, eppure, bisogna dirlo, disprezzavo quella piccola borghesia di Buenos Aires, pur essendo più o meno uguale a loro.

La relazione tra la Flaca e lo Zoppo cominciò a intrigarmi e diventai un loro mezzo amico. Lo Zoppo sicuramente era furbo, o per lo meno aveva un senso del cinismo, che appresi mio malgrado, devo dirlo, in seguito e non grazie a lui. Si preparava giorni prima consultando i giornali in cerca dell’evento. Quando c’era qualche prima al Colón indossava il suo abito migliore, che mandava ogni tanto in tintoria, compito che ho assolto anch’io qualche volta; non gli piaceva uscire in strada, muoversi gli costava fatica, ma la verità è che aveva molta vergogna; nonostante il suo cinismo, la timidezza e i suoi complessi a volte lo facevano sentire senza difese. Si fermava all’uscita del teatro appoggiandosi sulle stampelle luccicanti, tendeva la mano facendo uno sforzo incredibile per raccogliere le monete che gli offrivano. Metteva su un bel gruzzoletto con quelle incursioni, tuttavia non era tanto avido; usciva solo una o due volte al mese. A me non importava quello che facessero gli altri delle loro vite, per questo neanche mi impegnavo a capire le loro idee sulle cose, me ne stavo da solo come sarei potuto stare in qualunque altro posto aspettando che tutto crollasse da un momento all’altro; da quando ero andato via da Santiago tutto mi sembrava senza importanza, come se in qualche modo qualcosa si fosse irrimediabilmente rotto. Lo Zoppo era di idee fasciste; aveva alle spalle una militanza nel peronismo di estrema destra, ai tempi in cui, mi diceva, ancora aveva a disposizione due gambe, quando si bruciavano chiese ed era tutta una confusione. Ma proprio come ora, gli dicevo io. Non era possibile convincerlo del fatto che il presente era più pesante, o simile; come sempre. Viveva nel passato, nel tempo delle sue due gambe. Mi sembrava strano che un mendicante fosse fascista, non avevo mai conosciuto nessun povero che credesse in Mussolini, come se il Duce fosse vivo e stesse ancora a lanciare moniti alle masse offese.

In quei giorni la squadra di calcio argentina aveva buone possibilità ai Mondiali. La selezione doveva vedersela con l’Inghilterra; dopo la Guerra delle Malvinas, le aspettative si mantenevano attaccate sulla pelle come una crosta dolorosa e quello sicuramente era un conto da saldare. Gli ex-combattenti facevano buoni affari mettendo in mostra i segni della catastrofe dalle parti dell’Obelisco. Devo dire che a me tutto questo sembrava ripugnante, ma sapevo come erano andate le cose, gente poco più grande di me era restata mutilata, bastava pensare ai Gurka per essere presi da compassione e paura. I pazzi durante la Guerra se l’erano vista brutta e lo Zoppo non faceva che parlare di questa specie di patriottismo. Prima della partita mi invitarono più di una volta nella loro stanza maleodorante. Sul muro condividevano lo stesso spazio nientemeno che Mussolini, Perón e Maradona in tenuta biancoceleste. Uno di quei giorni mi fece vedere il denaro e mi spiegò come se lo procurava. Al principio non ci volevo credere, ma tra le mani aveva questo mazzo di banconote tale da poter far aprire gli occhi anche al più ingenuo. Le contai, perché lui me lo chiese. Prenditene dieci, disse, in questa casa tu sei l’unico a cui io non faccia schifo. Mi piaci, cileno, diceva. La Flaca si avvicinò baciandomi sulla guancia. Prendili, via, non essere imbecille, comprati un poco di marijuana, lo so che vi piace, vi ho visto fumarla, e comprati qualcosa da mangiare, mi sembri molto sciupato.

Il giorno della partita stetti con loro. Mi mandarono a comprare due polli fritti e varie bottiglie di vino. Ci ubriacammo subito e lo Zoppo voleva raccontarmi la sua storia; alla Flaca non dovette andar giù e fece per andarsene. Lei aveva già sentito quella storia troppe volte, e gridò, mentre usciva dalla stanza, che lo Zoppo raccontava sempre la stessa porcheria e che si approfittava della mia gentilezza. Rientrò per darmi un bacio, cercò di mettere le sue labbra sulla mia bocca, cosa che schivai, ma non tanto. Ci mise la lingua, mi diede uno spintone che ci fece cadere sul tappeto, insistette lanciandosi addosso. Le lasciai fare fino a quando lo Zoppo tornò a mettere ordine. Le gridò di lasciarmi tranquillo, disse che io ero solo un ragazzino, che avrei potuto essere suo figlio. Lei mi passò di nuovo la lingua per la bocca, si fermò e se ne andò. Lo Zoppo cominciò a raccontare: figlio di italiani, siciliani di Palermo, di cognome facevano Scotado, o qualcosa di simile. Il padre dello Zoppo, Anselmo Scotado, era sindaco di un paesino. La sua famiglia si era messa dalla parte del Duce. La Seconda Guerra quasi non li aveva toccati fino al giorno in cui non catturarono dei presunti comunisti e lui aspettava che venissero a prendersi i traditori della grande utopia fascista. Ma l’esercito non appariva e a quanto sembrava non sarebbe arrivato mai. Scotado si vide in un dilemma. Per la prima volta aveva il potere in mano, attendeva solo ordini per giustiziare quei comunisti. Andò a parlare con padre Antonio, parroco del paese, che gli disse di avere pazienza, di parlare con i presunti comunisti, di trovare prove, per assicurarsi che lo erano realmente. Scotado non fece caso al consiglio e fece di testa propria. E fu così che un fascista tranquillo diventò un assassino. Perfino nel plotone c’era lui a sparare, un tipo tranquillo, che si era infervorato: può capitare a tutti qualche volta nella vita, si giustificava lo Zoppo. Quando arrivarono gli alleati linciarono il sindaco come un cane, come Mussolini, via. La madre arrivò in Argentina con i suoi figli, perché aveva già dei parenti che vi si erano stabiliti. Da bambino lo Zoppo si arrangiò facendo mille mestieri, venne su cercando una vendetta imprecisa per la morte di suo padre. Si addestrò con i paramilitari di non so che e senza volerlo si trovò ad accoltellare gente che solo aveva conosciuto attraverso foto sbiadite e che rivedeva qualche giorno dopo sui giornali. Loro volevano farla finita col paese, mi diceva. Ma la vendetta era in agguato. Lo acciuffarono all’uscita di casa e gliele diedero di santa ragione; colpi che ancora ricordava nei suoi sogni. Alla fine gli spararono alla gamba destra e da allora era lo Zoppo.

Gli argentini avevano preso quella partita di calcio come un regolamento di conti; lo stesso presidente Alfonsín, diceva nel notiziario di mezzogiorno, ma senza troppa enfasi, che si trattava solo di una contesa sportiva, che non la si doveva prendere come qualcosa di più importante. Non c’era verso, i muri erano zeppi di scritte contro gli inglesi e, da buon popolo vinto, dopo la sconfitta qualunque impresa era considerata un indiscutibile trionfo. In quei giorni morì Borges, lessi in uno dei titoli del giornale che era morto il Maradona delle lettere; così stavano le cose.

La Flaca tornò ubriaca a calcare la scena, con delle bottiglie di vino sotto il braccio in una borsa di plastica e altre cose da mangiare. Continuammo a bere il Termidor da tavola e a ingozzarci come maiali. Venne l’ora della famosa partita. L’inno argentino e quello inglese. Io, in realtà, non ero molto interessato a quello che stava succedendo, però la coppia non la smetteva di gridare ad ogni azione di attacco dei compatrioti. Me ne andai dalla stanza dello Zoppo e percorsi il corridoio. Nel resto della casa non c’era nessuno. Trascorsi una ventina di minuti in bagno, da lì mi arrivavano le grida dagli edifici vicini. Al rientro seguivo anch’io la partita in tv. L’Argentina aveva segnato un gol agli inglesi con la mano di dio e con Maradona, diceva il telecronista, che sembrava parlare per tutto il paese. Lo Zoppo e la Flaca erano a letto contenti e accoccolati. Mi offrirono un altro po’ di vino che accettai. E fu la prima volta che vidi la gamba tagliata dello Zoppo, un pezzo di carne rinsecchita si muoveva da uno dei lati delle mutande. Lo Zoppo si rese conto che lo guardavo, mosse varie volte il moncone. Nel centro c’erano delle fenditure carnose che dovevano essere le cicatrici che terminavano in rughe, le quali andavano verso il centro di una specie di tronco. Mi sentì per la prima volta amico suo, o qualcosa di simile che viene dai fumi dell’alcol. Cominciarono a gemere dietro di me, senza fregarsene del fatto che io stessi lì e che l’Argentina avesse definitivamente sconfitto gli inglesi. Spensi il televisore, presi una bottiglia di vino non ancora aperta e chiusi la porta con attenzione, come se stessero dormendo. Quando finì il Termidor, me ne andai in strada verso il rio de La Plata schivando la celebrazione del trionfo.


Nel sito “Buràn” con traduzione di Gaetano Vergara,
dal sito “Ficcion breve venezolana” (postato il 13-2-2013)

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