26.5.14

Donne nell'antica Grecia. Corri, ragazza, corri (Lidia Storoni)

Museo del Louvre. Atalanta
La rivoluzione femminile degli ultimi anni ha stimolato negli studiosi un vivo interesse per le donne del passato. Si pubblicano atti di processi, analisi particolareggiate sulla posizione giuridica, le condizioni di vita, i costumi femminili nei secoli; storici, antropologi, sociologi portano il loro contributo ad analisi sottili e rigorose. Per quel che riguarda il mondo antico, mentre Ida Magli ed Eva Cantarella negano che il matriarcato sia mai esistito, Claude Calame nell' 83, nella raccolta di varii autori intitolata L'amore in Grecia (Laterza), come Robert Flacelière nel quadro della Vita quotidiana in Grecia al tempo di Pericle (Rizzoli), naturalmente si sofferma sull'esistenza chiusa e segregata della donna; e recentemente, Einaudi ha pubblicato la traduzione di un libro di Kenneth J. Dover, L'omosessualità in Grecia (pagg. 248, lire 35.000: su queste pagine ne parlò Stefano Malatesta in occasione della pubblicazione in lingua inglese), nel quale, più brevemente che di quella maschile, apertamente praticata, si parla dell'omosessualità femminile, divenuta famosa - forse a torto e per un'interpretazione tardiva - a proposito di Saffo.
Attraverso questi scritti ci eravamo fatti l'idea, confortata da quel che s'era letto al liceo, che nel paese dal quale il mondo ha ricevuto gli elementi fondamentali del pensiero, la donna, reclusa nel gineceo, adibita solo al lavoro domestico e alla procreazione, fosse tenuta al rango dello schiavo; gli uomini, cittadini di pieno diritto, gli inventori della democrazia, s'erano creati un'immagine deteriore della donna, per giustificare la stridente disparità; si esponeva la neonata, si vendeva la fanciulla ai lenoni, si uccideva impunemente il suo complice, in caso di adulterio. E' superfluo citare la battuta notissima di Demostene: "Abbiamo la prostituta per il piacere, la concubina per le cure quotidiane, la moglie per la cura della casa e per la procreazione". Il concetto è identico nel mondo romano, dove della sposa defunta le iscrizioni sepolcrali elogiano la castità, ma soprattutto le doti di accorta amministratrice del patrimonio (conservatrix); la formula stereotipa dipinge lo scorrere dei giorni e degli anni della matrona onorata: domi mansit, lanam fecit, rimase in casa, filò la lana.
Al marito greco, che confinava nell'ala appartata della casa la sposa quattordicenne (che non usciva neppure per le spese, non prendeva i pasti con il marito, non partecipava a nessuna festività pubblica) restava tutto il tempo per dedicarsi alla politica, frequentare le assemblee, i tribunali, il teatro, le cerimonie religiose, i banchetti, in compagnia d'una etèra, donna di facili costumi, colta ed elegante - tale era Aspasia, la compagna di Pericle - una che si poteva portare in società senza sfigurare. Gli era anche lecito frequentare un adolescente - pratica corrente - a giudicare dalle immagini frequentissime sulla ceramica e, tanto per citare un esempio a noi vicino, dal soggetto degli affreschi di Paestum contenuti all' interno della Tomba del Tuffatore. Tale rapporto era ammesso purché non mercenario e giustificato dal fine educativo, così come presso le donne - ad esempio le fanciulle spartane - era visto come utile iniziazione sessuale.
La segregazione della donna è logica conseguenza del giudizio negativo che la colpisce fin dalle origini: come Eva indusse Adamo al peccato, così Pandora aprì il vaso colmo di tutte le sventure e le lasciò sfuggire. L'immaginario dei greci è popolato da figure femminili orrende: le Gorgoni, le Erinni, le Arpìe, le Sirene, Scilla e Cariddi, la Medusa, la Moira. Sono femminili, come ha osservato Jean-Paul Vernant, le Chere di morte, che portano via il cadavere con mani adunche, mentre è maschile la bella morte dell' eroe, il Tànatos, che lo raccoglie sul campo e lo trasporta sulle sue ali. Se ci chiediamo a quali modelli si siano ispirati i tragici per creare figure di abnegazione mirabile come Alcesti, di intensa passionalità come Medea, di altissima coscienza morale come Antigone, bisogna tener conto che esse apparivano sulla scena altissime, con maschera e coturni, fuori della dimensione umana. Appartenevano al mito, e la loro condotta era ispirata all'eccesso - la deprecata ibris - che la società greca, dominata da un'istanza di ordine e di razionalità, respingeva.
Ma ecco che le nostre convinzioni vacillano. Una nuova raccolta di autori illustri, a cura di Giampiera Arrigoni (Le donne in Grecia, Laterza, pagg. 447, lire 36.000) presenta figure femminili viste nelle varie fasi della loro esistenza e appartenenti a diverse categorie, presenti a fianco degli uomini o addirittura in competizione con essi. "Anche per le città greche, definite club d'hommes, la coppia donna/uomo è più complementare di quanto certe analisi a vocazione vittimistica abbiano voluto farci credere": questo è l' assunto della studiosa. Come per dire: le femministe non vengano a citare la donna greca come caso esemplare dell'oppressione maschile e testimone d'accusa. Per la verità, le donne prese in esame rappresentano, fin dai tempi più antichi, dei casi eccezionali: le madri degli eroi per Esiodo, quelle capaci di atti eroici per Plutarco. Nel volume dell'Arrigoni, la documentazione ha esplorato epica, tragedia, commedia, iconografia, epigrafia, oratoria; ma le donne sono viste in momenti particolari dell'esistenza - le nozze o le esequie - o quando sono investite di mansioni speciali: prostitute, etère, sacerdotesse, atlete e infine, ormai libere dalla stretta sorveglianza, le anziane.
Le prime sono libere per definizione: la prostituzione era un mestiere squalificato ma non un reato; anzi si attribuisce addirittura a Solone l'istituzione dei bordelli. Possedevano e praticavano le arti del mestiere, la "technè" della sfrontatezza: movenze provocanti, trucco vistoso, vesti trasparenti, riso sguaiato, frizzi osceni; allietavano i banchetti suonando il flauto e le nacchere, danzavano seminude e si adattavano a prestazioni d'ogni genere. Le sacerdotesse erano una categoria di grande prestigio. Abitavano nel tempio di una dea, Artemide a Magnesia, Demetra ad Eleusi, Atena Poliade ad Atene, Hera ad Argo; ma servivano anche divinità maschili (Dioniso ad Atene, Eracle in Beozia). Erano vergini, tranne le jerodule di Afrodite, che si prostituivano a profitto del santuario o della città. A Delfi, l'autorità massima era la sacerdotessa di Apollo, la Pizia, emotiva - forse drogata - che, invasata dal dio, emetteva i suoi ambigui oracoli. Ve n'erano preposte al culto delle dèe protettrici della fecondità; e infine le seguaci di Dioniso - Menadi, Baccanti - si sottraevano alla monotonia della vita domestica a intervalli biennali per fuggire sui monti e abbandonarsi a danze frenetiche e convulse, che si concludevano con un pasto di brani sanguinolenti d' un animale - o d'un uomo - dilaniato. Isteria collettiva, trance, estasi mistica, evasione scatenata, follia, libero sfogo di aggressività repressa e di frustrazioni accumulate? Ad onta delle varie interpretazioni, sussiste il mistero sul significato di quel rituale selvaggio; ma è certo che, come le mistiche del Medioevo, quelle donne esaltate erano in numero limitato. Più consistente la presenza delle fanciulle nelle gare sportive. Le vediamo prendere parte a corride negli affreschi di Creta, in corsa con minigonne aperte ai lati in varie sculture; forse erano dedite anche all'equitazione o alla caccia, come sembrerebbero indicare i miti di Atalanta, di Artemide o delle Amazzoni. Restano infine, non più esposte a tentazioni né a seduzione, le vecchie. Certo, in casa erano addette alla cura dei bambini, dei malati, del guardaroba; ma la commedia le presenta generalmente come avide megère, mezzane, ubriacone. Una versione amaramente derisoria: concluse le sue funzioni nella società - il piacere e la procreazione - la donna-oggetto non serve più. Come dice un proverbio romano: "la donna de quarant'anni - buttala a fiume co' tutti li panni".


la Repubblica, 29 dicembre 1985  

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