31.5.14

Il Novecento sull'orlo del possibile (Daniele Barbieri)

C'era una volta il '900. Progressista e radioso, portatore di una attesa ingenua e messianica circa l'inevitabile vittoria del socialismo nel segno della scienza e della rivolta. Marx, Keplero e Spartaco: ecco un bel trio. In prossimità del secolo morente, la locomotiva (Guccini fuochista) sembrava inarrestabile, lanciata verso un mondo «giusto». Lo sviluppo dell'industria, l'inizio della scolarizzazione, la forza dei lavoratori organizzati, poi i primi tremolii degli imperi coloniali, la fiducia quasi cieca nella scienza, lo svilupparsi via-via delle rivolte facevano immaginare, ovunque, il rovesciamento di secolari gerarchie sociali e ingiustizie, la fine dei rapporti di forza dati per immutabili. Nel dopo-Darwin era andata in crisi l'idea che l'evoluzione umana dipendesse da disegni divini, l'umanità tornava padrona di se stessa. Logico che tutto ciò terrorizzasse teorici e cantori dell'ordine costituito; e infatti proprio loro annunciarono catastrofi, punizioni celesti, misero in guardia contro le folle bestiali pronte a scatenarsi. Sul passaggio '800-900 quanto più l'immaginario borghese annuncia la «fine della storia» tanto più nascono teorie e utopie di progresso, giustizia, liberatoria cultura. Persino all'anagrafe se ne trova conferma: all'inizio del secolo chiamare i figli Libero, Avanti, Scintilla, Progresso, Libertà, Ribelle, Turbina, Comunardo (così a Terni, come ricorda Sandro Portelli nel suo bel Biografia di una città) esprimeva certezze più che auspici. Tutto sarebbe cambiato e le macchine avrebbero avuto un ruolo determinante, non appena il proletariato se ne fosse impadronito, per usare - a favore dell'umanità anziché contro di essa - «il molto che s'inventa» di cui recita. famoso Me-Ti di Bertolt Brecht. Si dirà poi elettrificazione e soviet, Lenin e Taylor. L'inevitabile uscita dalla «preistoria umana». Un altro bel trio: macchine, masse, socialismo.
Aveva molte ragioni (ebrea, polacca, zoppa, intelligente, sovversiva e donna) per essere pessimista Rosa Luxemburg e infatti ci aveva messo in guardia: la vittoria non è certa, la scelta sarà fra socialismo e barbarie. E anche nell'immaginario si prospettava che il futuro potesse essere nerissimo: Il tallone di ferro di London, tanto per citare un incubo riuscito. A che siano servite le macchine, la scienza (Auschwitz, Hiroshima, Vietnam) Rosa Luxemburg non ha potuto vederlo. In compenso scoprì come i suoi ex-compagni fossero d'accordo dio i proletari si unissero in tempi di |pace purché poi si scannassero in guerra, sotto le rispettive bandiere. Barbarie, sì. Ma il peggio doveva venire. Armi nucleari, ecocidio, sterminio per fame: orrendo trio per un dominio che si vuole assoluto.
Di tutto questo anche la letteratura fantastica è stato uno specchio, talora fedele e talaltra ambiguo. C'erano, ovviamente, al suo interno c'erano destra (super-uomini e imperi stellari), sinistra e palude centrista, oltre che pazzi, ragionieri, architetti, operai (letterariamente parlando). Si possono sognare merci masturbatone, squallidi poteri, mondi soap-quiz oppure avere desideri che squassino proprio tutto, ivi compresi macchine, masse, socialismi, miti della scienza, sbirri ben celati dentro la testa e il letto di ognuno/a. La vittoria del capitalismo è avvenuta anche (qualcuno oserebbe dire: soprattutto) nell'immaginario, nel togliere desideri veri ai suoi antagonisti per lasciar loro sogni di plastica. L'inconscio è stato coca-colonizzato. Lo ha ben profetizzato Philip Dick (chi se non lui?): «Possiamo immaginare tutto, non universi senza Coca-Cola».
Via-via che il futuro diviene fosco, incerto o impossibile, via-via che le rivoluzioni tornano impensabili (persino le riforme oggi sembrano robe da bombaioli) il presente accelera per vincolarci e incatenarci su sentieri obbligati. L'unico futuro è la continuazione del presente, con altri mezzi: è questo ciò che si sente dire ovunque, con insensatezza logica oltre che sintattica. Siamo prigionieri dell'iper-presente, «reietti d'un altro pianeta» direbbe Ursula Le Guin. Il secolo della democrazia s'è tradotto nella dittatura degli 850 leader che si riuniscono nel Forum internazionale di Davos (e controllano il 95% o giù di lì dei massmedia). Mille reucci, cinquantamila valvassori, qualche miliardo di consumatori (a Nord) e di schiavi (a Sud). E lo chiamano nuovo ordine mondiale. Ecco «sangue, carne, ossa, vite, speranze triturate, spremute, eliminate per essere inglobate negli 'indici di crescita e incremento economico': questo nascondono cifre e discorsi» spiega il sub-comandante Marcos.
Eppure contro il presente acchiappa-tutto, proprio nel cuore dell'Impero, da tempo s'annidava un tarlo, una quinta colonna del nemico, una scappatoia. La migliore fantascienza statunitense (non tutta, ma una grossa scheggia sì) è stata sovversiva, spesso suo malgrado, proprio perché - quasi per statuto — doveva dirci che ci sono altri mondi possibili e non solo le mille clonazioni di Mike Bongiorno; oppure scegliere fra Clinton e Bush, fra Khomeini e Wojtyla, fra eroina e merda, fra Coca e Pepsi. È stata davvero una marxiana «futura umanità» quella che, soprattutto fra gli anni '50 e '70, la fantascienza ha svelato, mostrandone sogni e incubi, meccanismi e falle, ambiguità. È banale e squallido sognare i super-uomini come portatori di armi invincibili, avvisava Theodore Sturgeon: «Se invece un super-uomo avesse una superfame, una super-solitudine», se avesse una morale superiore, un amore più grande per tutte le creature viventi?”.
«Lo scopo della fantascienza è svegliare il mondo sull'orlo dell'impossibile e quindi nel bel mezzo della storia stessa, studiare e cercare di scoprire qualcosa di nuovo con la passione dello scienziato che esamina il suo esperimento o d'ima amante che vii,mi,! hi illuni.i amala». Ancora Sturgeon: «La migliore science fiction è una letteratura di forza e ampio respiro che offre un terreno di prova per l'analisi di società vecchie e nuove, all'interno di una buona narrativa, provocatoria, brillante e persino bella».
Questo per dire che le pagine di Sturgeon, Pohl, Dick, Le Guin, del buon riformista Asimov e di tanti altri/e sono state più importanti di scioperi o rivolte? Certamente no. Ma «per conquistare un futuro bisogna prima sognarlo»: prima di diventare la frase emblematica del centro sociale Leoncavallo, la si leggeva non a caso in un romanzo di fantascienza (Sul filo del tempo di Margot Piercy, Eluthèra), e non per caso essa rappresenta una componente fondamentale d'ogni vera rivolta; per quale motivo dovrei battermi e rischiare se non ho un sogno «troppo grande» perché il mondo attuale possa contenerlo?
Ogni volta che le false sinistre di questi tempi ne combinano una si dovrebbe citare un altro grande scrittore di science fiction, Alfred Bester, che già ci aveva avvertito: «la differenza fra uno Stato assistenziale e un despota benevolo è minima».
Ogni tanto (capiterà anche per i prossimi 2 o 3 dicembri) qualche idiota loda la fantascienza - preferibilmente quella ammuffita di Verne o Wells; ma i più avvertiti hanno letto anche 1984 e visto 1997, fuga da New York - perché avrebbe/ha previsto qualcosa che poi è successo «veramente». Sai che merito! In tutta la storia troverai sempre ciò che cerchi. Il pregio della fantascienza è piuttosto un altro e in questo senso davvero potrebbe aiutarci a rileggere il secolo, a suggerire «un futuro per il Novecento». Il suo merito è averci costretto/costringerci a pensare che possano esistere sentieri diversi, ragionamenti a zig-zag, culture altre, alienità in noi e negli altri, ricchezze perdute, insospettabili umanità (soprattutto nel senso in cui Dick usa questa parola nel racconto Umano è), magari metalli urlanti e umanoidi associati ma anche/soprattutto visioni pericolose.
Può darsi («è più difficile distruggere un pregiudizio che un atomo» sosteneva Albert Einstein, che d'entrambi fu costretto a occuparsi) che fra i nostri lettori siano ancora molti coloro che pensano alla fantascienza come robetta; tanto più che «il 90 per cento della science fiction è spazzatura, ma del resto il 90% d'ogni cosa è spazzatura» come recita la ben nota, fra gli appassionati, «legge di Sturgeon».
Se però si cerca in quel 10% troveremo (parafrasando alcuni titoli famosi degli autori citati oltreché di Varley e Spinrad) cristalli sognanti, penultime verità, ambigue utopie, persistenze della visione, le rivolte di Jack Marron, perfino possibili «leggi dell'umanica»: un patrimonio dell'immaginario con il quale possiamo concimare nuovi sogni, per s|pazzar via l'iper-presente in primo luogo dal nostro inconscio.
Nei suoi punti più alti, la fantascienza ha individuato i paradossi di una scienza non liberatoria, di una tecnologia senza più scienziati (con le tecnofobie e i tecno-vudu che ne derivano), di corpi inquietanti, dell'avanzante robotizzazione degli umani, della fino del lavoro come lo conoscevamo, della confusione crescente fra vita e nonvita, del dominio totale delle merci, di mondi paralleli e non comunicanti, dell'obbedienza come male assoluto, della perenne lotta per controllare il tempo, dell'agorafobia e dell'autismo di massa; magari insinuando il dubbio se gli uomini - non i robot - sappiano che «ribellarsi è possibile» come diceva un utopista cinese oggi in disgrazia. Nei suoi punti più alti, la fantascienza (proprio perché disprezzata) è stata il luogo senza censure, in cui si poteva dire l'indicibile. Non a caso Leo Szilard, padre «pentito» della Bomba, scelse la fantascienza per raggiungere un pubblico più vasto e dire loro (La voce dei delfini) che «il quesito è: gli americani sono liberi di dire tutto quello che pensano, visto che non pensano quel che non sono liberi di dire?». Oggi la fantascienza, come altre scritture/linguaggi un tempo alla gogna, da una parte è risucchiata nella macchina del pensiero globale, dall'altra conosce una fase di stanca. Eppure certe «visioni pericolose» stanno continuando a offrici possibilità invece che previsioni, a costruire laboratori onirici, a essere progettuali (e/o terrorizzate) partendo dall'idea che in un mondo senza utopie non valga la pena vivere.
Non per caso alcuni testi non trovano editori o, in Italia, escono spesso nell'underground dei Centri sociali. La «guerra dei sogni» (così Mare Augé titola i suoi «esercizi di etno-fiction» tradotti dalla libertaria Elèuthera) è in corso. Si sa, stiamo perdendo. Dobbiamo comunque resistere. All'interno di quella che lui definisce «la quarta guerra mondiale» il sub-comandante Marcos c'invita a cercare le nostre radici, perché «un popolo che dimentica il suo passato non può avere futuro». E' altrettanto vero, anche se sulle prime sembrerà paradossale, il contrario: un popolo che dimentichi «il suo futuro» non avrà presente né speranze.

"il manifesto", 2 settembre 1999


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