12.5.14

In difesa del Liceo Classico (Rossella Sannino)

Sulla funzione formativa 
della cultura umanistica
Gela 1972. La II C del Liceo Classico "Eschilo"  con insegnanti,
bidelli e preside nella vecchia sede del Palazzo Pignatelli-Aragona
Mentre in Italia le mura della vera Pompei si sbriciolano, il British Museum organizza a Londra una mostra virtuale sulla città vesuviana, e richiama là visitatori di tutto il mondo.

Riluce la grande sala
Marmàirei de mega domos, riluce la grande sala… I versi di Alceo risuonano nell’aria, i ragazzi in straordinario ascolto, per un attimo il fiato pare sospeso. Suggestiona quella sequenza sillabica, pare quasi un’onomatopea; sposta la mente fuori dall’aula, lontano, verso lo scintillio del mare di Lesbo…: un viaggio nel tempo, nello spazio.
Ora di letteratura greca, in un liceo classico. Qui il percorso di studi comporta, tra le altre materie, la conoscenza del latino e del greco antico: non sono lingue che servono a comunicare con i vicini; la strada che esse aprono è un dialogo diverso, con se stessi, e con gli antichi; qui ci si sofferma a ragionare sul modo con cui gli avi degli avi hanno dato forma all’attività del pensiero e della parola. E’ una formazione, quella umanistico-classica, che all’estero ammirano e invidiano.
Eppure, negli ultimi due anni, in coincidenza con la crisi economica mondiale di cui soffre anche l’Italia, le iscrizioni di alunni al liceo classico hanno subito un drastico ridimensionamento: in numerosi istituti scolastici questo indirizzo di studi è stato chiuso e il numero totale degli iscritti al classico è tornato alle percentuali di un tempo, circa il 4%, dopo una parentesi di espansione determinata da altre riforme scolastiche che in passato avevano fatto paventare la dequalifica dell’istruzione superiore.
In realtà, l’attuale sfiducia nella formazione umanistica è stata avallata da una campagna mediatica che, sostenuta da dichiarazioni ministeriali, ha puntato sulla inutilità di un percorso scolastico che dedica diverse ore a studiare “lingue che non servono“, e che coltiva interessi elitari; ad esso si è contrapposta la facile spendibilità di una formazione scolastica che orienti soprattutto verso “il fare“, con la diffusione dell’elogio dei percorsi formativi tecnico-scientifici e dello studio delle lingue straniere contemporanee.

Lo smantellamento del liceo classico
All’origine di questo sbilanciamento in favore della formazione tecnico-scientifica ci sono state motivazioni economiche (tagli agli investimenti “non produttivi“) e i richiami da Bruxelles perché si correggessero le apparenti storture di un sistema scolastico che non consente di sfornare in tempi rapidi un numero di diplomati adeguato al mercato del lavoro.
In effetti, la necessità di adeguarsi agli standard europei venne assunta sin dal 2000 dal ministro Berlinguer, ripresa poi con abrogazioni e modifiche dal ministro Moratti nel 2003, quindi si è definitivamente realizzata nel 2009 con la riforma Gelmini: ma si è operato, in quest’ultimo caso, con un intervento di facciata, volto soprattutto ad operare tagli alla spesa pubblica.
L’ordinamento liceale ne ha pagato vistose conseguenze.
Nel 2010 la riorganizzazione scolastica superiore venne accompagnata dalle “Indicazioni Nazionali per costruire i Nuovi Licei“: ma, per quanto fosse operazione attesa e necessaria, al motto di “più scienza e meno letteratura“, nei licei viene fatta una redistribuzione del totale di ore destinate agli insegnamenti di area scientifica e allo studio delle lingue straniere, associata ad una riduzione aritmetica – priva cioè di una motivazione sensata e di attenzione verso il reale impatto educativo e culturale dell’iniziativa – del numero di ore destinate allo studio della lingua italiana, della storia e geografia, del latino.
Anche l’orario di servizio degli insegnanti di scuola superiore è stato modificato e portato a 18 ore di lavoro in classe per tutti, ma questa operazione ha fatto saltare, sul piano amministrativo, l’esiguo margine di ore a disposizione per gestire le supplenze brevi, mentre sul piano didattico ha creato un impossibile equilibrio nel sistema che in precedenza regolava l’insegnamento di materie affini e per tale ragione affidate ad un unico docente su unica classe: ne hanno fatto le spese, nel liceo classico, le cattedre di materie umanistiche, spezzettate fra più docenti per un’unica classe di alunni, e nel liceo scientifico gli insegnamenti di matematica e fisica, assegnati a docenti diversi su unica classe. E a causa delle ore di docenza così disposte diventa difficile anche garantire la progettazione del consiglio di classe e la continuità didattica.
A proposito della problematica gestione dell’orario di lavoro e dell’assegnazione dei docenti alle classi e agli insegnamenti, si è fatto promotore di un’iniziativa di protesta un gruppo di docenti del liceo Classico Berchet di Milano, con l’appoggio anche di colleghi di altre scuole, con un appello al ministro della passata legislatura Maria Grazia Carrozza. In esso si chiedeva l’avvio di una valutazione degli effetti didattici della riforma del 2009, anche alla luce dei guasti pedagogici derivati da un’insensata distribuzione degli orari interni agli insegnamenti. Ovviamente, dal Ministro non ci fu alcuna risposta.
E’ però interessante la notizia che il Tar del Lazio, con la sentenza 3527/2013, ha annullato i provvedimenti presi nel 2010 dagli ex ministri dell’Istruzione e dell’Economia circa l’organizzazione oraria degli istituti tecnici, il cui monte ore era stato decurtato del 20%: nella sentenza il giudice sottolinea il “danno degli alunni traditi nel loro diritto alla continuità educativa e costretti a patire la provvisorietà e la precarietà di provvedimenti che appaiono estranei alla funzione istituzionale della scuola ed alle attese della società civile e del mercato del lavoro“.
Di recente, il furor dei tagli e dell’adeguamento dei nostri standard al resto d’Europa ha introdotto nella discussione anche l’idea di una possibile riduzione della durata degli studi liceali, da cinque anni a quattro; e non si può non ascrivere al medesimo pensiero (“tagliare ciò che non rende subito“) l’idea della settimana scolastica ridotta per tutti a cinque giorni (si risparmierebbe sui costi del riscaldamento, si favorirebbero i weekend di svago, ne trarrebbe giovamento l’economia nazionale, etc etc).
Insomma, l’idea che si può cogliere da questa somma di operazioni, è che la scuola italiana venga considerata un peso dai nostri governanti, e non una risorsa, quale invece essa è.
Il liceo classico, in particolare, sta facendo le spese di una dissennata confusione attorno all’idea di “utile“: ma utile per che cosa?

La funzione formativa dell’istruzione classica
Studiare il mondo antico vuol dire affrontare il tema della comunicazione sin dai suoi albori: il racconto delle storie e dei miti; l’invenzione della comunicazione poetica e di quella persuasiva; il modo in cui si organizza la memoria di un popolo e di come questa si modella nelle generazioni a seguire.
Il latino e il greco antico non sono lingue che servono a comunicare, bensì offrono dei saperi tecnici per poter “abitare” le culture di cui sono espressione: è uno studio linguistico che offre la possibilità di interrogare interlocutori silenziosi che continuano a dialogare con noi attraverso i testi, i monumenti, i modelli culturali che ci hanno lasciato.
E’ un esercizio di investigazione sulle possibilità comunicative che un determinato testo, collocato in una determinata situazione, rapportato a determinati parametri di contesto, poteva significare; lo studio delle lingue classiche abitua ad uno studio “riflessivo“, fondato cioè sull’attitudine al pensare prima di agire e sulla valutazione preventiva delle cause e degli effetti.
Questo tipo di studi, che abitua a comprendere il funzionamento delle cose attraverso la riflessione sul funzionamento della lingua e dei suoi prodotti – le letterature e i pensieri – predispone a diventare esploratori del pensiero e dell’espressione umana.
Accontentarsi di far leggere i testi in traduzione italiana, ignorando la lingua originale, vuol dire rinunciare all’esercizio di ascolto, analisi, decodifica, risemantizzazione di un documento; vuol dire ridurre la possibilità di educare al confronto con il diverso e con il lontano da sé; che è poi educare alla coscienza critica.
Diversamente dal metodo di studio usato per le lingue contemporanee, quello usato per le lingue antiche consente di osservare da vicino il meccanismo di formazione e funzionamento del sistema linguistico e del pensiero di cui esso è espressione e, poiché nel passaggio dai significanti ai significati si combinano tra loro dati certi, dati ipotetici e dati ignoti, l’attività di studio delle lingue antiche richiede e sviluppa procedure di tipo scientifico e di tipo strategico (analizzo i dati e li organizzo in virtù di una meta da raggiungere, ovvero la traduzione e la comprensione del testo, alla luce di un contesto di riferimento).
In altre parole, la meta di studio di queste lingue non consiste in scopi pratici e immediati, ma nell’acquisizione di strumenti che consentono di fare “esperienza” del vissuto delle parole e dei loro referenti, è un’esperienza dentro al laboratorio delle connessioni tra segni e significanti; è un’esperienza del lavoro che può compiere, nel tempo, la nostra – umana – capacità creativa. Quindi, lingue moderne e lingue antiche assolvono a compiti formativi diversi e il porle in antagonismo non risponde a una corretta ratio educativa.
Il latino e il greco, poiché richiedono un metodo di studio scientifico e lavorano su contenuti letterari, offrono una formazione ricca, complessa e versatile. Per questa ragione la formazione data dalle humanae litterae può offrire la miglior cassetta degli attrezzi a un futuro dalle professioni incerte e… ancora da inventare, ma soprattutto per quelle professioni che abbiano come interlocutori gli esseri umani nella loro interezza e nella loro condizione di essere abitanti del mondo, il quale è un sistema complesso; per quelle professioni che, occupandosi di individui che stanno nel mondo, debbano muoversi lungo il labile confine che separa tra loro la conoscenza della macchina dalla conoscenza di chi ne sarà il fruitore.

Argomenti che premono al cuore adolescente
Vi è poi, nella formazione classica, un aspetto squisitamente pedagogico: la possibilità di comprendere i testi della tradizione letteraria antica sin nel loro codice espressivo, consente di affrontarne con singolare consapevolezza i contenuti e le grandi questioni esistenziali che essi pongono; e sono proprio questi gli argomenti che premono al cuore adolescente.
Mito, Verità, Giustizia, Amore…: sono grandi temi che chiedono, prima ancora di risposte, la possibilità di essere scandagliati ed esplorati nella ricchezza delle loro sfumature. Nei nostri ragazzi, invece, ciò che sempre è più debole e fragile, è la conoscenza delle parole, del loro significato e della loro ricchezza semantica; dobbiamo invece consentire loro il possesso delle parole (conoscerle, percepirne il peso), perché con esso si fornisce l’accesso ai meandri della vita e al loro racconto…
Poter dare un nome alle emozioni, alle “cose” che si conoscono, è anche una medicina per tempi difficili, in cui l’incapacità di descrivere e di spiegare – figlia della povertà del sapere – si traduce in gesti irruenti e aggressivi: senza la conoscenza delle parole (per numero, per spessore di significato) si comunica solo con la forza dell’urlo e del gesto prevaricante.
Voglio soffermarmi su un altro aspetto della formazione liceale, la durata e la qualità del “tempo scuola“: il tempo della formazione e della crescita non possono coincidere con quello del tempo lavoro: mentre quest’ultimo è calibrato sulla necessità di produrre un qualcosa di finito, riproducibile, usabile, spendibile, il tempo destinato alla formazione serve a creare e coltivare cultura.
Nella formazione liceale, il “laboratorio” è costituito dal tempo che si dedica alla comprensione degli oggetti di studio: ovvero, si fa laboratorio sì, ma non per realizzare un prodotto finito, bensì per addestrare la mente a compiere ragionamenti astratti e per farli assumere come filtro per interpretare il mondo: ovvero, per modificare in modo “colto” il proprio stare al mondo. E la cultura, proprio come avviene nell’operazione di semina e crescita di una pianta, richiede cura, nutrimento, tempo, attenzione.
Dovrebbero essere questi i cardini su cui innestare i principi della formazione scolastica di qualità. Diversamente, si fa in-formazione, o meglio, formattazione: si addestra al come fare e non al capire e a ragionare in autonomia di giudizio, come pur richiesto dalle ministeriali “competenze di cittadinanza“.
Quindi l’idea di ridurre il tempo scuola a tempi che sono di pura sintonia con interessi produttivi e non educativi è antipedagogica e favorisce solo la conservazione del potere di quei pochi che già lo detengono.

Un patrimonio culturale per il riscatto civile e sociale
Merita di essere segnalata l’interessante esperienza narrata da Augustin d’Humières in I figli dell’ultimo banco (PiemmeVoci, 2011).
L’autore, in qualità di insegnante di greco antico in una scuola della banlieu parigina, si adopera, con alterne vicende, per motivare classi di studenti immigrati allo studio di una lingua che potrà riscattarli dalla loro condizione di subalterni ed emarginati. La scuola, che sorge in un contesto urbano e sociale di grande deprivazione, per far fronte all’alto tasso di abbandono scolastico e alla diffusa demotivazione, ricorre a strategie compiacenti: prima con l’alleggerimento dei criteri per la promozione, poi con il riorientare gli studenti verso indirizzi di studio più facili, i cosiddetti corsi tecnologici, attivati all’interno dello stesso istituto.
Nel fare i conti con un sistema di istruzione che misura i risultati dal numero degli iscritti – si aumentano le iscrizioni con l’attivazione di corsi più facili – e in base al numero di promossi – basta non far svolgere compiti difficili – il giovane professore francese si ingegna e si spende personalmente nella difesa di un patrimonio culturale unico e che offre potenzialità di riscatto civile e sociale. Il racconto autobiografico si conclude con una bella intervista a Jaqueline de Romilly, prima donna ad ottenere la cattedra di letteratura greca nel Collège de France.
Sia ben chiaro: se sostengo con forza il valore della formazione umanistica, non nego la necessità di affinarne la componente scientifica. Anzi, ben venga più matematica, ma non meno italiano!
Credo che ragazze e ragazzi dotati di sensibilità intellettiva, di curiosità, di propensione al ragionamento vadano premiati e meritino ancora di essere indirizzati a una formazione classico-umanistica.
Spesso invece i genitori, nella scelta di studi per i propri figli, sono spaventati dall’idea della sofferenza che possa derivare ai propri figli da studi difficili. Credo che siano paure nate dal timore di dover far fronte al fatto che un figlio possa non capire, possa faticare “inutilmente“.
Ma la difficoltà dello studio del latino e greco consiste nel confrontarsi con modalità di lavoro non banali, non scontate; se qualche insegnante ha provocato disamore, il problema non è della “trama“, ma del “cattivo attore“.
Al Governo c’è da chiedere diversa attenzione alla scuola e alla formazione degli insegnanti: non c’è argomento troppo difficile da non poter essere trasmesso, se un insegnante è sostenuto, formato, riconosciuto e motivato.


Dal sito “La poesia e lo spirito”, aprile 2014

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