28.5.14

Letture: "Horcynus Orca" (Giuseppe Pontiggia)

Stefano D'Arrigo
Il viaggio di ritorno dell'eroe dalla guerra alla terra natale è il tema non solo dell'odissea, ma di un poema epico, detto appunto dei ritorni che idealmente lo completava e che è andato perduto: tema affascinante, che dovette convergere con quello delle avventure marinare, diffuso già in età pregreca nell'area mediterranea, se un frammento egiziano, risalente al duemila avanti Cristo, ci presenta un naufrago, aggrappato a una tavola, che sbarca su un'isola meravigliosa; e tema occultamente religioso, in cui la meta era costituita dall'origine e il conoscere diventava alla fine un riconoscere. Dilatato nello spazio e prolungato nei secoli, sarà il motivo conduttore dell'Eneide, il cui protagonista, approdando alla terra degli avi, compiva il vaticinio di Apollo: «Ricercate l'antica madre».

Annientamento indecifrabile
Nell'epos antico Ulisse, «bello di fama e di sventura», ritrovava a Itaca un mondo di valori intatto, incarnato da Penelope, «colei che strappa il filo della trama», la trama corruttrice degli usurpatori, per ricostituire il tessuto dei diritti originari. Nell'epos moderno di Horcynus Orca il protagonista non è più un condottiero vittorioso, ma un marinaio, nocchiero semplice della fu regia Marina, che, sullo sfondo della disfatta, varca lo stretto di Scilla e Cariddi per ritrovare un mondo sfigurato da una corruzione mostruosa, di cui l'Orca è 1'emblema. E la sua morte casuale per mano di una sentinella, in un primordiale scenario marino, non è che il suggello tragico del suo precipitare verso un annientamento indecifrabile.
Leggere in chiave simbolica Horcynus Orca mi sembra da un lato inevitabile, ma dall'altro ri-schioso (...).
L'autore stesso sembra sollecitare l'interpretazione simbolica, muovendo in una duplice direzione: sia proponendo continue variazioni dei temi, come in un contrappunto musicate o in una prospettiva il cui punto di fuga sia l'infinito (si pensi soltanto alle «fere», ai delfini dello stretto, e alla loro cangiante, iridescente vitalità, fatta di ferocia e di leggerezza, di crudeltà e di seduzione, di amore e di efferatezza); sia attenendosi, con una insistenza percussiva, a un unico significato, che sopprime la polarità dei due termini e li fa coincidere (si pensi alla definizione dell'Orca: «Era l'Orca, quella che dà morte, mentre lei passa per immortale: lei, la Morte marina, sarebbe a dire la Morte, in una parola»).
Eppure proprio la ininterrotta potenzialità simbolica dovrebbe indurre alla cautela: essa finisce per diventare non un problema da risolvere, ma un problema da porre. Anziché decifrare i significati molteplici dei simboli, come sempre è stato fatto, talora con finezza, spesso con conclusioni divergenti, occorrerebbe forse chiedersi il senso della loro onnipresenza enigmatica. In un mondo dove tutto acquista valenze simboliche, di che cosa è simbolo il simbolo?
Se dovessi racchiudere in una parola una risposta a questo interrogativo, dire: della metamorfosi. E infatti Horcynus Orca è un mitico ed epico poema della metamorfosi. Metamorfosi che non solo sconvolge il paesaggio, devastandolo con le ferite della guerra, ma intacca la coscienza dei pescatori, trasformandoli in speculatori, in divoratori e commercianti delle ripugnanti «fere»; metamorfosi che rende il figlio irriconoscibile al padre e che muta Ciccina Circe, la traghettatrice notturna di 'Ndrja sulle acque dello stretto, la custode di un universo di ombre, in una triviale apparizione diurna. L'Orca stessa, squarciata dalle «fere» e morsa da nugoli di sarde, diventa una immane carogna, il cui fetore ammorba l'aria, ma non distoglie i «pellisquadre» dal tentativo di farne un immondo traffico. E anche in quel lucido, quieto, estatico delirio che è il soliloquio di 'Ndrja durante il colloquio con don Luigi Orioles, il continuo sovrapporsi e mescolarsi e fondersi delle parole «barca», «bara», «arca» adombra la catastrofe tragica attraverso il misterioso travaglio di una metamorfosi linguistica (...).
La metamorfosi imprime un corso imprevedibile al linguaggio di D'Arrigo. In una stessa frase si amalgamano e si trasformano, per attrazione reciproca, termini, costrutti, intonazioni delle lingue locali della Sicilia, francesismi, latinismi; i neologismi, che affiorano da sostrati colti o popolari, divisi o intercomunicanti, si assimilano al contesto con stupefacente naturalezza. Talvolta una parola stessa si trasforma nel corso della sua articolazione, come in un processo di moltiplicazione cellulare («finimondo, finimondorioles»). E questa plasticità è insieme matrice e frutto di una idea dell'essere come continuo divenire (...).

Incontro decisivo
La mobilità del linguaggio dì D' Arrigo trova corrispondenza nella eccezionale varietà dei registri stilistici e dei piani narrativi. Si pensi solo all'inizio, luogo privilegiato del Romanzo, dove si concentrano sempre, come in un nucleo genetico, le potenzialità dell'opera. In Horcynus Orca esso si richiama alle precise coordinate di tempo e di spazio della grande narrativa dell' Ottocento, ma contemporaneamente le dilata in amplificazioni e-piche, con l'implicito paragone del viaggio di 'Ndrja e del viaggio del sole: «II sole tramontò quattro volte sul suo viaggio e alla fine del quarto giorno, che era il quattro di ottobre del millenovecentoquarantatre, il marinaio, nocchiero semplice della fu regia Marina 'Ndrja Cambrìa arrivò al paese delle Femmine, sui mari dello scill'e cariddi».
Ma già nel paragrafo successivo la descrizione passa dalla oggettività impersonale allo sguardo del protagonista e al linguaggio della sua memoria: «Imbruniva a vista d'occhio e un filo di ventilazione alitava dal mare in rema sul basso promontorio. Per tutto quel giorno il mare si era allisciato ancora alla grande calmerìa di scirocco che durava, senza mutamento alcuno, sino dalla partenza da Napoli: levante, ponente e levante, ieri, oggi, domani e quello sventolio fiacco fiacco dell'onda grigia, d'argento o di ferro, ripetuta a perdita d'occhio».
La concezione del mondo come metamorfosi, che ispira il poema di D'Arrigo, mi sembra affondare le sue radici nella religiosità mediterranea e nel prodigioso fiorire delle sue figurazioni a contatto con la civiltà dei Greci: incontro decisivo per la storia dell'Occidente, che produsse una mitologia di trasformazioni incessanti, degli dei, degli uomini, degli animali, delle piante, degli elementi. Questo mondo increato, soggetto a una continua metamorfosi, si manifesta in Horcynus Orca non solo nei richiami espliciti che proiettano la vita dei pescatori su uno sfondo di millenni (dalle fere-sirene a Ciccina Circe, da Marosa-Penelope a Scilla e Cariddi): ma in una visione mitico-religiosa che, varcando la mediazione trascendente del cristianesimo, entra in conflitto tragico con la civiltà contemporanea, fondata sull'assoggettamento della natura e sullo spossessamento dell'uomo.
Perciò D'Arrigo ha potuto creare un epos moderno, riprendendo, come Joyce nell'Ulisse, il tema mitico: perché in una età in cui l'unico mito è la dissoluzione dei miti arcaici, solo la tragedia incommensurabile della loro perdita può essere il tema della tragedia. E si capisce, in questa prospettiva, come D'Arrigo avesse scelto Holderlin per la sua tesi di laurea, un poeta che aveva cantato la perdita degli dèi in un'epoca di privazione.

Dolorosa fedeltà
Solo 'Ndrja, pur provato da quella sofferenza muta che segna tutti i nostri passaggi ulteriori e che coincide con una nuova coscienza della realtà, non si adegua a quella metamorfosi che negli altri è corruzione: nella degenerazione del mondo, è l'unico personaggio che conserva una oscura, dolorosa fedeltà a se stesso. Perciò la morte che tronca la sua giovinezza è insieme casuale e necessaria: la pallottola «che gli scoppiò in mezzo agli occhi con una vampata che lo gettò per sempre nelle tenebre», gli impedisce anche di aprirli a un mondo che non può riconoscere come suo.

Postilla
Horcynus Orca, il romanzo di Stefano D'Arrigo, alla sua prima pubblicazione integrale nel 1975, dopo una lunghissima gestazione documentata dalle anticipazioni in rivista, suscitò vivaci polemiche sulla qualità dell'opera che fu giudicata da taluni un capolavoro, da altri un fallimento, e sulle sue possibili interpretazioni. Nel 1982 Mondadori fece accompagnare la ristampa negli Oscar da una prefazione di Giuseppe Pontiggia, di cui “Repubblica” anticipò la parte che qui riprendo. Credo che, individuando nella “metamorfosi” il motivo centrale e nella fine del divino il tema culturale più importante, Pontiggia suggerisca percorsi e approfondimenti utilissimi a chi voglia prendere o riprendere in mano quel gran libro siciliano. (S.L.L.)


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