24.5.14

L'Europa di Febvre. Uniti sulle ceneri dell’impero romano (David Bidussa)

Lucien Febvre fu uno dei maggiori storici francesi del Novecento. Contribuì allo sviluppo della storiografia del secolo scorso con una serie di importanti studi e con la fondazione, insieme a March Bloch, della rivista di storia economica e sociale “Annales”. Nel 1944, Febvre tenne una serie di lezioni sul tema dell’Europa: la raccolta di tali riflessioni è stata oggetto di una recente pubblicazione in Italia (L. Febvre, Europa. Storia di una civiltà, a cura di Thérèse Charmasson e Brigitte Mazon, trad. di Adelina Galeotti, Feltrinelli, 2014).
L’Europa di Fevbre nasce nel Medioevo, caratterizzato dalla diffusione del cristianesimo e dal confronto con la cultura araba; cambia fisionomia con la nuova cultura laica a partire dal Cinquecento e continua a svilupparsi sino alla sua crisi determinata dalla nascita dei nazionalismi ottocenteschi.(D.B.)
Capitello dell'Abbazia di Cluny
In un’Europa ancora in guerra, tra il 1943 e la fine del 1944, due storici, uno a Milano l’altro a Parigi, raccontano ai loro studenti il profilo storico della parola Europa.
Federico Chabod, il primo, fino alla morte (nel 1960) tornerà spesso a scriverne (il risultato sarà poi un libro che Laterza pubblica nel 1961 con il titolo di Storia dell’idea di Europa). Lucien Febvre, il secondo, impegnato da anni a definire in che termini e in che modi occorra riflettere sull’Europa come «civiltà»: una parola, aveva scritto nel 1930, la cui diffusione, a partire dalla fine del ‘700, «designa il trionfo e il pieno sviluppo della ragione non solo nel dominio costituzionale, politico e amministrativo, ma anche in quello morale, religioso e intellettuale».
Nell’autunno 1944, in una Parigi libera da poche settimane, Lucien Febvre prova a riflettere con gli allievi che ha di fronte sull’Europa, un progetto di cui tutti parlano al futuro. Per lui quel progetto non avrà gambe se non avrà consapevolezza del passato.
Che cos’è dunque quel passato? «L’Europa è sorta nel momento in cui l’impero romano è venuto meno», dice Febvre citando e rendendo omaggio al suo amico Marc Bloch, ucciso dai nazisti nel giugno 1944. Ma, insiste Febvre, la sua nascita è un processo lungo che occupa tutta la seconda metà del primo millennio. Un peso determinante più che l’impero carolingio, ha l’espansione della Chiesa verso Est, fino alle soglie della Russia. Conta sia l’atlante storico della diffusione del cristianesimo (la geografia è una disciplina cui Febvre è molto sensibile), sia come si muovono i suoi uomini sia, infine, dove si trovano centri che li formano. Uno per tutti: l’abbazia di Cluny. Dice Febvre che il cristianesimo esprime un elemento essenziale della civiltà europea e il suo baricentro a lungo è stato rappresentato dalla Chiesa. Il cristianesimo è sia un surrogato che un collante che definisce una linea di demarcazione.
Questo surrogato è allo stesso tempo in conflitto con il mondo arabo cui contende spazi di terre e mari in un continuo «corpo a corpo» che dura almeno fino al XIII secolo, ma anche «in cooperazione» e «in dipendenza». Dal mondo arabo l’Europa prende saperi, tecniche, discipline, concetti. L’idea non è quella di un’anticiviltà, ma di un conflitto per il dominio riconoscendo valori, strumenti, tecniche, sistemi. Con gli arabi si combatte, ma più spesso si commercia, si scambia. Frequentemente si media. […]
Poi nel ‘500 la fisionomia cambia. La cristianità non esprime più tutta l’Europa. La riforma obbliga a trovare un nuovo fondamento. Ora sono i laici a insidiare il dominio del cristianesimo. Da quel momento «spazio europeo», anche se ancora non si chiama Europa, un nome che si afferma dal ‘700, significa espansione verso Est, politica di potenza verso l’Asia, insediamento nel Mediterraneo, ora percepito come il proprio «lago salato».
Nel XIX secolo l’insorgenza della nazione come attore principale provoca la crisi dell’immagine dell’Europa. La nazione non è fatta da individui, osserva Febvre, è fatta da gruppi che avvertono la dimensione europea come proprio nemico.
È un segnale che parla al nostro oggi. Scriveva Heinrich Mann all’inizio degli anni 20 che l’Europa vive nella mente dei pensatori che si trasmettono questa eredità di generazione in generazione, soprattutto nelle epoche in cui gli europei sembrano aver dimenticato il nome Europa. Nel 1944 Febvre gli fa eco nella sintesi di queste sue lezioni, quando osserva che l’Europa è un rimedio disperato e che di essa «non si è mai parlato tanto quanto dopo il trattato di Versailles, dal 1920 a oggi».
Settanta anni dopo il quadro non è diverso. L’europeismo è in difficoltà e l’antiEuropa sembra il sentimento che corre con più facilità per le contrade d’Europa. Il testo di Febvre rimane un monito contro i facili entusiasmi e soprattutto contro gli schematismi. Non c’è la felicità, anche se qualcuno venti anni fa ha pensato che la parola Europa evocasse, di per sé, percorsi trionfali. I termini della questione sono più complicati.


Il Sole 24 ORE - 27 aprile 2014

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