25.5.14

Mente fredda, cuore caldo. Italo Calvino il materialista (Marco Belpoliti)

Quanti tavoli aveva Italo Calvino? Stando a Pietro Citati erano almeno tre. Nella casa di piazza Campo Marzio lo scrittore lavorava contemporaneamente su tre diversi tavoli. A detta di Giuseppe Conte i tavoli erano cinque o più. Ma se si legge la precisa ed elegante introduzione con cui Claudio Milanini presenta il primo volume che raccoglie i romanzi e i racconti dello scrittore ligure, si scopre che i tavoli, indipendentemente dal loro numero, sono sempre uno in più. Il tavolo +1 è quello su cui Calvino continua a scomporre e ricomporre le sue opere, a correggerle, tagliarle, integrarle, riordinandole e rimaneggiandole per lunghezza, ordine e disposizione.
Le centocinquanta pagine di «Note e notizie sui testi» curate con competenza da Milanini. Mario Barenghi e Bruno Falcetto, co-curatori del primo tomo dei Romanzi e racconti, dimostrano come lo scrittore emendasse e correggesse da un'edizione all'altra, senza neppure avvisare i lettori, tanto che la prima edizione del Sentiero dei nidi di ragno, quella del 1947, è diversa dalla seconda del 1953 e soprattutto da quella «purgata» del 1964, l'edizione definitiva per cui Calvino scrisse un'importante prefazione, capitolo fondamentale della propria autobiografia letteraria, con cui riscrive di continuo se stesso. Oppure la complessa vicenda del rimaneggiamento del volume di racconti Ultimo venne il corvo del 1949, di cui Falcetto ci offre due pagine di vera e propria sinossi; o ancora quella bigama della Speculazione edilizia che continua a circolare in un'edizione breve, compresa nella raccolta dei Racconti, e in una lunga, nel volume che porta questo titolo, per fare solo tre esempi tra i molti che si leggono nelle note.

Labirintiche revisioni
Vi è una difficoltà obiettiva a raccogliere gli scritti di Calvino in vista di un'edizione complessiva basandosi su questa continua lavorazione e nello stesso tempo esiste il problema di considerare la cronologia delle opere dello scrittore ligure come definitiva sulla base delle date di stampa o su quelle indicate nei manoscritti originali.
Per districarsi in questo mare di problemi pratici e «teorici», i curatori, valenti studiosi dello scrittore ligure, hanno seguito tre criteri: separare i libri messi insieme dall'autore da quelli postumi, che usciranno presumibilmente nel terzo volume: seguire l'ordine cronologico di pubblicazione (il primo volume arriva al Marcovaldo che è del 1963 in volume, ma uscito sui giornali negli anni '50 e legato decisamente a quel periodo), scelta che ha il pregio di riproporre l'immagine dell'opera secondo la scansione che ne dette l'autore; evitare ripetizioni, sciogliendo così il volume de I racconti e nel prossimo tomo quello delle Cosmicomiche vecchie e nuove del'1984.
Il risultato finale non è un'opera critica, per cui sarebbero occorsi tempo e apparati a non finire, data la natura stessa del lavoro di Calvino, ma un insieme di note e notizie che ricostruisce la storia dei testi, in modo leggibile anche per il non specialista, dove sono fornite anche le varianti a stampa delle diverse edizioni. Lo stesso riferimento ai manoscritti originali è usato con parsimonia per sciogliere i dubbi più evidenti e non per inseguire con acredine filologica i meandri della redazione dei testi.
La questione delle correzioni e revisioni d'autore non è solo un argomento filologico destinato a creare problemi ai curatori dell'opera edita e inedita dello scrittore ligure, ma è un tema centrale dell'opera di Calvino, è appunto quel tavolo in più che solo ora riusciamo a vedere con chiarezza.
Al centro del lavoro dello scrittore ligure, oltre alla correzione delle opere edite c'è una «consuetudine a intrecciare sperimentazioni molteplici» che s'accompagna alla «tendenza a riprendere e sviluppare spunti emotivi a lungo sedimentati nella memoria». Per fare solo un esempio, i curatori, che hanno potuto accedere alle carte dell'archivio di Calvino, ci avvisano che Le città invisibili, capolavoro di stile e di pensiero, erano già state «delineate con chiarezza in una sceneggiatura cinematografica del 1960», intitolata Marco Polo, e probabilmente mai girata.
Dunque Calvino non solo continuava a correggere e ricorreggere i suoi libri, operazione consueta in autori che possono lavorare per un lungo arco di tempo, ma ripensava ai propri libri come parti continuamente mutevoli di un progetto di scrittura che andava via via focalizzando. Solo in questo modo si può capire come egli possa essere uno scrittore attivo - cioè che concepisce un intervallo di anni o persino di decenni tra l'idea di un libro e il suo concretizzarsi - e insieme uno scrittore retroattivo, per il quale «i testi rimasti inediti e i singoli racconti apparsi su periodici o in sedi d'occasione costituivano una riserva di materiale servizievole, pronto per il riuso, anche perché spesso erano stati concepiti fin dal primo istante come parti di un tutto, come tessere di un mosaico futuro».
Quella che si rivela qui non è perciò solo un'etica della parsimonia, un gesto di conservazione - lavorare con gli scarti, i pezzi apparentemente secondari, secondo un metodo che è proprio della letteratura come della cultura di questo secolo - ma l'idea di una letteratura come progetto di sé.
In questo progetto etica e gnoseologia, cioè «costume» e teoria della conoscenza, coincidono perfettamente e convivono con una pratica artigianale di cui le apparentemente fredde e geometriche Lezioni americane sono da considerarsi il vero e purtroppo conclusivo manuale d'uso, il fai-da-te della letteratura calviniana (forse non a caso incompleto, o meglio, incompleto proprio perché conclusivo).
Per raggiungere questo obiettivo, lo scrittore ligure non ha esitato a usare tutti gli strumenti che un profondo conoscitore della macchina editoriale, quale egli era, aveva a disposizione. Ben prima che Genette si accingesse a studiare il paratesto, Calvino usava note editoriali - se le scriveva da sé - prefazioni, apparati critici delle edizioni scolastiche (per queste non esitava a tagliarsi), illustrazioni e copertine per ampliare l'effetto dei suoi testi, per dirigerne la lettura, per continuarne la scrittura, anche a posteriori, dopo che l'opera aveva lasciato il suo tavolo e affrontato le fatiche della stampa.
Calvino è uno scrittore a posteriori che cerca di saltare il medium della stampa, di usarlo materialisticamente, senza annullarlo, ma tenendo conto della sua valenza produttiva. Per lui, in definitiva il vero referente è sempre stato il pubblico dei lettori, e non per opportunismo ma, con una lunga e cocciuta fedeltà a se stesso, per «ideologia», un pubblico con cui cercava un rapporto che, sempre mediato dalla sua opera, scavalcasse la classe intermedia dei recensori e dei critici, dell'apparato intellettual-letterario che non sottovalutava, ma neppure osannava o malediva.

La doppia vita dei racconti
E' ovvio che l'essere autore e redattore di quella che è poi stata la maggior impresa editoriale del dopoguerra, l'Einaudi, lo ha aiutato, lo ha messo al riparo di un ombrello che altri non possedevano. Ma Calvino è andato ben oltre, facendo di quella opportunità, che pure altri hanno avuto, una funzione attiva per il suo progetto di scrittore, testimoniato dalla recente edizione delle lettere editoriali (I libri degli altri).
Come sottolinea Milanini, la doppia vita dei suoi racconti, stampati a sé o ricomposti in volumi diversi, e paradigmatica del suo stile, delle sue strategie di pensiero - Calvino va visto sempre più come uno scrittore-pensatore. E racconti andrebbero considerate quasi tutte le opere narrative di Calvino, dato che, salvo il romanzo d'esordio, tutti i suoi libri sono composti di racconti - Marcovaldo, Le Cosmicomiche - oppure costruiti come raccolte a tema - Le città invisibili, Il castello dei destini incrociati - o incentrati sul tema del raccontare racconti - Se una notte d'inverno un viaggiatore -mentre le restanti sono state tutti riunite in libri di racconti, in libri a volte diversi - Ultimo venne il corvo o l'onnivoro Racconti, che comprende gran parte della produzione di Calvino sino al 1958, o ancora Gli amori difficili (1970), ulteriore e più breve miscelazione.
Gli stessi tre romanzi-racconto che gli hanno dato la fama e la gloria presso il pubblico giovanile, la trilogia araldica del Visconte (1952), del Barone (1957) e del Cavaliere (1959), sono stati concepiti per la pubblicazione in rivista, poi stampati in volume, quindi riuniti in un «macrotesto» col titolo I nostri antenati (1960) accompagnati da una introduzione che fa il paio con quella successiva per la ristampa del Sentiero.
Forse non è un caso se l'io devo di Calvino, l'imperativo categorico di scrivere un romanzo realista, sia fallimentare, come testimoniano gli inediti del Bianco veliero (1949), I giovani del Po (1951) e La collana della regina (1953), di cui alcune pagine sono state pubblicate come racconti.
Anche Palomar, libro di racconti racchiusi in una complessa cornice gnoseologico-tematica, apparso nel 1983, è la raccolta e riscrittura di racconti in gran parte pubblicati su quotidiani, e mentre una parte di essi è confluita in questo libro narrativo, un'altra è andata a comporre, come si sa, un libro di saggi, Collezione di sabbia, del 1984.
Forse si potrebbe replicare che questa inclinazione al racconto sia un fatto di talento, un talento riconosciuto a più riprese dall'autore stesso e da lui inserito in una modalità tutta italiana, tuttavia il problema è costituito dall'uso che Calvino fa di questo talento, dal modo in cui lo piega alle sue esigenze.

Malinconia e leggerezza
A lettura ultimata del primo dei tre volumi dei testi narrativi di Calvino, resta il dubbio, peraltro segnalato dal curatore nell'introduzione, che il problema della lettura di Calvino rinvii a un altro luogo che non sia l'opera omnia e che ancora una volta lo scrittore abbia messo in atto le sue strategie per sottrarsi al lavoro di comprensione e classificazione dei critici, che è poi il modo in cui vengono di solito disattivate le opere, siano esse artistiche o letterarie, per consegnarle ai museo o alla tassonomia storico-critica.
Calvino costituisce e continuerà a costituire un problema, come sottolinea nella sua sottile e complessa prefazione Jean Starobinski, un testo giocato sull'opposizione tra la malinconia del tiranno e la leggerezza dello scrittore.
Paradossalmente, il più letterario dei nostri scrittori contemporanei, quello più intriso di letteratura, il più pronto a calcolare le proprie distanze, diversità ma anche somiglianze, rispetto a tutta la tradizione italiana, risulta essere invece il meno letterato e il più «pensatore», il più europeo, insieme ai suoi contrari e omologhi, Galileo e Leopardi, nel passato, Gadda e Manganelli, nel presente.
Se parlare dei tavoli di Calvino significa mettere a fuoco la pluralità del suo lavoro, occorre però sottolineare la contiguità di questi tavoli, prima di tutto quelli destinati alla narrazione e al saggismo; anzi, questi tavoli non sono per nulla separati poiché, come dimostrano i due ultimi volumi editi in vita, Palomar e Collezione di sabbia, esiste un luogo comune da cui nascono opere che conservano nella loro autonomia il segno di quella dualità. Inoltre il retroterra del lavoro di Calvino è sovente giornalistico o saggistico, come dimostra la raccolta postuma Perché leggere i classici, che compare in libreria insieme a questo volume di Romanzi e racconti, una raccolta da leggere in controluce alle Lezioni americane, dal momento che gli scritti raccolti appartengono perlopiù agli anni '80.
Calvino considerava i diversi tipi di scrittura come vere e proprie «occasioni». Racconti fantastici, esercizi di stile, saggi analitici (si veda la bellissima lettura del Dottor Zivago del 1958 in Perché leggere i classici), apologhi, libretti per melodrammi o azioni sceniche, recensioni, interventi, testi per artisti, per lo scrittore sono solo generi provvisori, scatole vuote da riempire di volta in volta di una materia incandescente che urge ali suo pensiero e che solo il lungo e paziente lavoro artigianale riesce a disciplinare.
Mentre il cuore è caldo, la mente, estrema propaggine dell'uomo rivolta verso l'universo sconosciuto, come l'ha definita un maestro contemporaneo, è in Calvino fredda. In mezzo, tra cuore e mente, la scrittura è il metodo, lo strumento con cui modulare quella conoscenza che nell'uomo passa attraverso il linguaggio.
Il più disciplinato, il più attento e sorvegliato, il più cartesiano dei nostri scrittori, il più «concettuale», è anche un materialista perché riconosce sempre la valenza materiale dell'atto dello scrivere, la corposità delia sottile linea grafica della scrittura e quella del foglio bianco. Scrivere è per lui situarsi nel mondo, è un atto di presenza, ma anche un atto di suprema sottrazione.
Calvino, il più presente degli scrittori contemporanei, il più noto, è anche il più segreto, il più sconosciuto, come si deduce dalla cronologia di Barenghi e Falcetto; e non c'è da dubitare che le biografie che si succederanno nei prossimi anni guarderanno invece là dove non c'è da guardare. La verità di Calvino, come la lettera rubata di Poe, è perfettamente in mostra, è nel sistema del suo pensiero, è nella continua finzione della sua opera, finzione di narrazione e finzione di disposizione.

Manipolatore di generi
Aprendo cornici su cornici, manipolando le sue opere come mazzi di carte, giocando abilmente col saggismo e la narrazione come il gatto con il topo, sfuggendo ai generi, creando una maniera sua propria - alla maniera di Italo Calvino - lo scrittore ligure ha cercato di seminare in anticipo i suoi critici. Come è stato detto, egli sembra dettare la lettura e l'interpretazione del sua opera o, come scrive Starobinski verso la fine del suo inseguimento prefattivo: «Sfugge alla presa, non perché s'ammanti di un qualche mistero, ma perché sviluppa, in chiarezza assoluta, delle serie complete di argomentazioni e contro-argomentazioni, praticando all'occorrenza l'arte per la quale Montesquieu nutriva più stima: saltare le idee intermedie».
Questa è un'avvertenza che un saggista-scrittore come Starobinski rivolge alla schiera dei critici futuri, agli entomologi della scrittura che, armati di spilli e manuali, percorrono imperterriti i prati della letteratura in cerca di farfalle rare. Il lettore, invece, è abituato a compiere quell'esercizio di elasticità; egli è già più leggero, è la farfalla che va a posarsi sulle pagine di Silas Flannery.

Talpalibri – il manifesto, 8 novembre 1991


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