29.5.14

Tra natura e rovine. Viaggiatori del 700 nei dintorni di Napoli (Georges Vallet)

Tra natura e rovine. Viaggiatori del 700 nei dintorni di Napoli (Georges Vallet)
Nel settembre del 1985 si svolse a Napoli, nel Museo di Villa Pignatelli Cortes un convegno organizzato dall'associazione Napoli Novantanove dal titolo Il destino della Sibilla, mito, scienza e storia dei Campi Flegrei. Vi tenne una relazione, sui viaggiatori settecenteschi in visita alle antichità campane, un grande studioso francese, Georges Vallet e di essa “il manifesto” pubblicò gli ampi stralci che qui posto. (S.L.L.)
Una strada a Pompei. Incisione di Giovanni Battista Piranesi
Il viaggio nel mito
Secondo lo studio di A. Horn-Oncken su I viaggiatori stranieri del XVI e XVII sec. nei Campi Flegrei, in Puteoli VI, 1982, scopo fondamentale del racconto di viaggio nei Campi Flegrei è di riprendere, più o meno abbellito secondo il gusto di ciascuno, questo patrimonio tradizionale fatto di miti narrati dai poeti o di aneddoti riportati dagli storici. La base di questo patrimonio, le sue fonti, sono i testi. Le antichità che si ammirano nella zona sono considerate prima di tutto la cornice di tali avventure mitologiche o storiche. Come giustamente afferma A. Horn-Oncken, «le annotazioni spicciole relative a questa o a quella curiosità sono poco feconde; esse si limitano a ripetere le solite osservazioni sui fenomeni vulcanici, sulla Grotta del Cane, sulla Solfatara, sui sudatori di Baia; dei singoli monumenti antichi, guardati come elementi integranti dello scenario del paesaggio, a parte il contesto storico-poetico e la destinazione d'uso ricavabile dalla posizione topografica, interessano semplicemente il tipo, le dimensioni o particolari motivi decorativi». Non esiste la benché minima traccia di una vera ricerca e il gusto per una certa erudizione si manifesta solo in campo filologico; questa d'altronde andrà attenuandosi nella seconda metà del XVII secolo, quando l'informazione sarà destinata sempre più a un ampio pubblico.
E ciò che è vero per i racconti dei viaggiatori vale anche per quella che A. Horn-Oncken chiama la «tradizione figurativa»: sono sempre le stesse le vedute riprodotte, i Golfi di Pozzuoli e di Baia, il Lago Averne, il Capo Miseno, i fenomeni vulcanici della Grotta del Cane, della Solfatara, insieme a quelli che, tra le antichità, «rendono» meglio in immagine, come il Tempio di Venere, o che, con il loro solo nome, danno libero corso all'immaginazione, come la Tomba di Virgilio o la Tomba di Agrippina.
Si attinge sempre allo stesso arsenale, ed è chiaro che tutte queste riproduzioni non sono eseguite sul posto né dipinte dal vero. Si copia da altre tavole, modificando o eliminando quel certo dettaglio, vestendo i personaggi alla moda del momento.

Dalla letteratura all'antiquaria
Con il XVIII secolo comparvero, più o meno successivamente, certi elementi di novità, alcuni di carattere generale, altri a carattere locale, tutti suscettibili di modificare, se non proprio le condizioni della visita, per lo menò l'interesse verso queste rovine ormai celebri. Sul piano generale, va registrata innanzitutto la curiosità sempre più spiccata per le scienze della natura; c'è poi la volontà consapevole e profonda di molti antiquari e, più diffusamente, degli uomini di cultura, di far conoscere a un pubblico sempre più numeroso le testimonianze della vita degli antichi «risparmiate dalla barbarie dei tempi». Infatti, e malgrado le polemiche tra le scuole, le diverse «Raccolte di antichità», da Montfaucon a Caylus, derivano dalla stessa volontà didattica dell'Enciclopedia e i «Viaggi pittoreschi» non hanno altra pretesa appunto che «far conoscere le curiosità e le antichità». Questo fatto è rilevabile ovunque e l'Italia, con la diversità spesso drammatica dei suoi fenomeni naturali e la straordinaria ricchezza delle sue antichità, diventa non tanto il luogo privilegiato di un viaggio che giovani o adulti affrontano per piacere, ma anche e soprattutto per completare la loro formazione, affinare il gusto, arricchire il loro sapere. Il «Viaggio in Italia» diviene una vera e propria missione: è tempo ormai di «far conoscere» a un ampio pubblico, con il testo e l'immagine, le meraviglie dell'Italia: di Roma, sicuro, ma anche di Napoli e della Campania, ricche di tante bellezze e di memoria di passati splendori.
Ma ecco che, nello stesso momento, il gusto cambia. Di recente è stato ampiamente dimostrato come l'immagine di Napoli data dai viaggiatori si sia modificata nei primi decenni del XVIII secolo. Prima di questo momento, Napoli era la meravigliosa città in cui le bellezze naturali gareggiavano con lo splendore delle architetture, delle chiese soprattutto. Il «Viaggio a Napoli» era la scoperta di una realtà che non si esitava a definire unica al mondo, con le chiese che scintillavano d'oro e i suoi dintorni, che per di più erano stati il luogo di tutte le delizie: magnifica, e rara, continuità del passato nel presente! E poi, a partire dal 1720, la ricchezza degli edifici della città diventa sovraccarica e l'immagine stessa del cattivo gusto. A questo proposito sono note le celebri parole di Montesquieu, che nel 1729 scrisse: «A mio parere, tutti coloro che cercano le belle opere d'arte non devono lasciare Roma. A Napoli mi pare che sia più facile guastarsi il gusto piuttosto che formarselo». Dunque, in questo nuovo contesto, che cosa significa la visita dei «dintorni» di Napoli, di questi Campi Flegrei, la cui visita si considerava importante tanto quanto quella della città?

I Campi Flegrei, bellezze avvizzite
Allora, è l'idea stessa dei «dintorni» di Napoli che cambia: ben presto si darà inizio agli scavi di Ercolano e Pompei, e nel 1750 l'Europa scopre i grandi templi di Paestum. Sono queste nuove scoperte che ora bisogna «far conoscere» agli uomini di cultura, perché sono importanti, certo, ma soprattutto perché svelano degli aspetti fino ad allora ignoti del mondo greco e romano. Dal 1733, assai prima dunque della «scoperta» di Paestum, un inglese in anticipo sul suo tempo — viveva a Roma — Robert Smith, scriveva al napoletano Matteo Egizio: «Non tralascio di nuovo a raccomandarle d'abbracciare con il suo solito affetto gli nobili e augusti avanzi della già felice Pesto: può ben sovvenirsi della premura colla quale m'impegnai di persuader l'intraprensione di questo carico... Si degni dunque di dare a loro un favorevole sguardo e di farle disegnare e intagliare in rame». E il nostro inglese contrappone l'ignoranza totale che avvolge i templi di Paestum alla celebrità dei Campi Flegrei («la rinomatissima Torre di Pozzuoli, Baia, Miseno, Cuma, ecc.»).
Sappiamo bene che per Paestum e in generale per tutte le antichità situate a sud di Napoli le cose non andarono così in fretta. Dal momento che i Borboni non permettevano di visitare le città vesuviane e siccome Paestum veniva considerata - e questo è il mito - terra lontana e difficilmente raggiungibile, per molto tempo non ci furono guide che potessero assistere nella visita di queste città o dei complessi recentemente scoperti. Le guide disponibili restarono quelle tradizionali di Napoli che, come «dintorni» comprendevano i soli Campi Flegrei. Ma ormai i viaggiatori sapevano: è nel 1739, dunque appena un anno dopo l'inaugurazione ufficiale degli scavi di Ercolano, che il Presidente de Brosses viene a Napoli.
Ma cosa rappresentano per un de Brosses le antichità dei Campi Flegrei? «Il Golfo di Baja e la sua collina a mezzo anfiteatro, tanto rinomata presso i Romani per essere il luogo più voluttuoso d'Italia è come quelle vecchie bellezze che, su un volto tutto avvizzito, lasciano ancora indovinare, attraverso le rughe, le tracce della loro antica grazia; non è più di una collina coperta di boschi e di casupole che si specchia in un mare sempre limpido e calmo»; e, più avanti, dopo aver precisato che sia lui che i suoi amici erano rientrati «pienamente soddisfatti della loro giornata», aggiunge: «Comunque, per non fare la parte del ciarlatano nei vostri confronti, devo anche confessare che tutti i supremi piaceri che avevo assaporato erano molto più nella fantasia che nella realtà; buona parte dei soggetti menzionati in questa mia fedele relazione (si tratta delle antichità di cui de Brosses ha citato i nomi) sarebbero un po' insipidi per chi non avesse letto la gazzetta del tempo di Catilina; ma così, sono deliziosi per reminescenza. Addison ci ha dato una descrizione esatta e corrispondente di tutta la costa, tratta da Silius Italicus. Per non essere da meno, io voglio farvela secondo Virgilio».

Faccia a faccia con l'antichità
Questi due testi, soprattutto se li si paragona alle pagine che de Brosses dedica a Ercolano, riassumono perfettamente l'immagine che i nostri viaggiatori si fecero allora delle antichità dei campi Flegrei: "esse assomigliano a vecchie bellezze» avvizzite, che lasciano tuttavia intravedere, attraverso le rughe, lo splendore di un tempo. Soprattutto, è chiara la confidenza: esse non interessano che «per reminescenza», vale a dire se le si reinserisce nel contesto delle origini antiche. E' possibile evocarle solo grazie al tramite di Silius Italicus o di Virgilio...
E' evidente allora che nella coscienza dei visitatori, se non nei dettagli del racconto, si oppongono da una parte la tradizionale passeggiata ai Campi Flegrei, pretesto di tutte le reminiscenze poetiche, in cui ciascuno sa in anticipo ciò che sta per vedere, in cui le rovine dei monumenti non sono altro che il supporto di una meditazione o di una fantasticheria, e, dall'altra, l'avventura archeologica di Ercolano e di Pompei, in cui il visitatore si sorprende di ciò che vede o di ciò che gli viene raccontato poiché non conosceva altro che le circostanze della loro distruzione grazie aìla famosa tragica lettera di Plinio. E là si scopre una antichità difficile da immaginare leggendo i libri: è «l'antichità faccia a faccia» di cui parlerà Stendhal. Si ricorderà qui il celebre testo dell'abate Barthélemy, autore del Viaggio del giovane Anacarsi: «Questi antichi di cui abbiamo pieni gli orecchi dai tempi del collegio e che siamo abituati a considerare come delle specie di entità letterarie, li vediamo rivivere con le preoccupazioni, i gusti, il ridicolo moderni».
Lo stesso ci racconta Goethe nelle sue lettere da Napoli. Siamo all'inizio del marzo 1787. Goethe arriva a Napoli una limpida giornata invernale, e la sua prima impressione è un vero e proprio abbagliamento: «per quanto si dica, per quanto si racconti, per quanto si dipinga, non si riuscirà mai a rendere la bellezza di Napoli» (Goethe evidentemente pensa soprattutto al quadro, al paesaggio). E' il Vesuvio che desiderava vedere innanzitutto, ma il suo amico Von Waldeck organizza una visita ai Campi Flegrei: visita classica, traversata in barca fino a Pozzuoli, carrozza, camminata a piedi... E dopo la celebre, breve evocazione delle rovine di una incredibile opulenza. Goethe cita i fenomeni naturali, mette in contrasto gli spazi nudi e la straordinaria vegetazione che è riuscita a conquistare persino la bocca di un cratere. Oscilliamo tra i fenomeni della natura e gli eventi della storia ; bisognerebbe riflettere, ma sul momento nessuno ne è capace ; è preferibile lasciarsi andare alla felicità del momento presente.
Tutt'altra, sappiamo, è l'impressione provata da Goethe a Pompei, visitata l'11 di marzo. Pompei stupisce i visitatori per la sua piccolezza. Le celebri case dei gloriosi romani sono dunque queste, piccoli cubi che assomigliano a scatole di cartone! Anche le ville suburbane come la Villa di Dio-mede, anche i monumenti come il Tempio di Iside, tutto è piccolo e angusto. E' l'esatto contrario delle antichità dei Campi Flegrei, di cui si sottolineano sempre il lusso e l'opulenza. L'antiquario, a Pompei, trova tutto ciò che l'appassiona: la tecnica di costruzione degli antichi, gli innumerevoli oggetti della vita quotidiana, le strade pavimentate, le cucine, il vetro, la cui esistenza è motivo di sorpresa, i lavatoi, per non parlare dei dipinti, dei famosi papiri e delle discussioni sui metodi di scavo adottati dai Borboni. In realtà si avverte che gli scavi delle due città sono il terreno privilegiato di un nuovo tipo di sperimentazione: la sperimentazione dei metodi scientifici in un campo in cui era inimmaginabile poterli applicare: il criterio fondamentale è prima di tutto l'osservazione, che è anche la prima virtù per tutti gli appassionati di scienze della natura. A differenza dei Campi Flegrei, qui non ci troviamo più nell'ambito della cultura letteraria, dell'erudizione filologica che è del tutto disinteressata all'uso degli oggetti o alla natura dei monumenti, ma il tipo di approccio è quello delle scienze naturali.
In questa prospettiva, i Campi Flegrei suscitano meno interesse e curiosità delle nuove scoperte. Senza troppo schematizzare, si può dire che le diverse attitudini che mostrano i nostri viaggiatori dinanzi ai Campi Flegrei, da una parte, e alle città vesuviane, dall'altra, riflettono chiaramente la ben nota opposizione che si manifesta verso la metà del secolo nell'Europa dei Lumi, in particolare in Francia, tra i «letterati» e gli «antiquari». I primi, nutriti dai testi, cercano di comprendere la nascita dei principali capolavori dell'umanità; l'importante per loro è di formare il nostro gusto che, come allora ebbe a scrivere Montesquieu, «non è altro che il vantaggio di scoprire con raffinatezza e tempestività la misura del piacere che ogni cosa deve dare agli uomini»; la storia per loro è una lunga sequenza di momenti di grandezza e di declino che bisogna saper leggere negli storici antichi. Tutto deriva dunque dai testi.

La storia dell'arte
Come Ercolano e Pompei, anche Paestum, di recente scoperta, offre uno smisurato terreno di discussione agli specialisti e, particolarmente in questo caso, a tutti coloro che, lettori ammirati di Vitruvio, si interessano alla nascita e alle forme dell'architettura antica. Si discute, ci si stupisce (rammentiamo le reazioiu di Winckelmann e di Piranesi), si cerca di comprendere ciò che significano nell'evoluzione delle forme queste colonne colonne senza base, così austere, così diverse dall'immagine tradizionale dell'arte greca. Anche in questo caso le lettere di Goethe forniscono un'eccellente testimonianza.
La prima impressione è di stupore, e queste colonne pesanti e coniche sono sgradevoli e fanno paura. Ma continua Goethe, in linea con Winckelmann: che ci si sforzi di ricordare le tappe della storia dell'arte, che si tenga a mente l'evolversi del «saper fare» umano, e allora tutto cambia: si è felici di aver scoperto i resti così ben conservati di tempi tanto remoti.

Il fascino delle rovine
Con Goethe siamo più o meno a cinquanta anni dallo studio di De Brosses. Le circostanze e i luoghi visitati non sono più gli stessi, i personaggi sono diversi, ma le impressioni di fondo restano esattamente le stesse. Diversamente dalla visita alla recenti scoperte, che sorprendono, pongono problemi, suscitano interesse, polemiche, i campi Flegrei rappresentano il luogo di una bella passeggiata in cui da tempo tutto è stato visto, raccontato, dipinto.
L'importante è ripetere, con Marziale, che anche se dedichiamo mille versi agli elogi di Baia, i nostri elogi non saranno mai abbastanza degni di Baia. Ciò che ci interessa è la barca che ci fa attraversare lentamente questo golfo affascinante, e vedere non «questi tristi ruderi nei quali non si rinviene più la minima traccia del loro antico splendore», ma, come scrive l'abate Richard, ancora «questi palazzi in rovina in cui la magnificenza romana si mostra in tutta la sua ricchezza, i tanti edifici pubblici dei quali ce n'è qualcuno ancora intatto, la bellezza del clima, le ricchezze della natura. Ecco il vago e facile lirismo che suscitano le antichità flegree.
Per concludere, vorrei sottoporre alla vostra attenzione due esempi che mi sembrano abbastanza significativi. Ho avuto già modo di citare i nomi dell'abate Barthelemy e dell'abate Saint-Non.
Del primo conosciamo Le lettere dall'Italia, indirizzate a Caylus in gran parte da Roma, e alcune da Napoli. Nelle sue lettere troviamo una lunga digressione sulla scoperta di Paestum e lunghi commenti sugli scavi d'Ercolano e di Pompei. Quanto ai Campi Flegrei si accontenta di rispondere a una domanda di Caylus sulla pianta del tempio di Serapide a Pozzuoli: senza dubbio è questa la sola antichità dei Campi Flegrei che davvero interessa un antiquario come Caylus.
In Saint-Non, i dintorni di Napoli formano il contenuto del secondo volume del Viaggio Pittoresco; i primi tre capitoli sono dedicati alle città vesuviane, il quarto ai Campi Flegrei. Gran parte di questo capitolo evoca le «curiosità naturali» (Solfatara, Grotta del Cane, Lago Averne, Monte Nuovo, le stanze per i bagni di vapore, le strade di pozzolana, etc.). La prima «antichità» descritta con le vedute e una pianta è il tempio di Serapide: «L'interesse, e la grande eccentricità di questo monumento ci hanno spinti a offrirne molte vedute e una pianta geometrica, corredate da una ricostruzione del tempio». Quanto alle altre 'antichità' (anfiteatro di Pozzuoli, Tempio di Mercurio, di Venere, di Diana a Baia, anfiteatro di Miseno e Piscina Mirabilis), Saint-Non le descrive rapidamente, include delle vedute e dedica poi una tavola finale all'anfiteatro di Miseno, alla Piscina mirabilis e a poche altre costruzioni,
Tali ammassi di informi rovine in una cornice meravigliosa rendono arduo il compito dei disegnatori e spesso vanificano i loro sforzi. Saint-Non, filologo coscienzioso e accurato, si rende perfettamente conto del problema. Ma, tutto sommato, poco importa. Tanto per cominciare, nella zona dei Campi Flegrei, i monumenti e luoghi famosi non mancano, e ciò che al lettore bisogna mostrare sono questi enormi volumi con soffitto a volte, su un fondo di mare, con la vegetazione lussureggiante che cresce sulle crepe. E poi, a dire il vero, i Campi Flegrei, dalla tomba di Virgilio all'Antro della Sibilla, sono meno l'oggetto di una visita che il luogo di un pellegrinaggio. Sì, Goethe l'aveva detto meglio di chiunque altro: non è luogo in cui pensare e meditare: basta il solo spettacolo che avete dinanzi per rinviarvi incessantemente dai drammi della natura a quelli della storia.

“il manifesto”, domenica 29 settembre 1985




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