17.7.14

Bruno Buitoni jr., il sonnambulo (Francesco Mandarini, 2001)

A poco più di un anno dalla morte di Bruno Buitoni jr., che morì a marzo dell'anno scorso tra un panegirico della Marini e uno di Boccali, riprendo un vecchio articolo di Mandarini per “micropolis”, che rievoca - con cognizione di causa - un passaggio importante di storia dell'impresa in Umbria, mentre denuncia disavventure e dimenticanze di quel rampollo della celebre famiglia. (S.L.L.)

Che il dott. Bruno Buitoni jr. sia massone, passi. Che si sia messo in sonno, pazienza. Che dichiari di votare per Forza Italia, in quanto antico “liberale”, lo avevamo messo in conto e d'altra parte siamo ancora un paese libero. Che però ricostruisca in un'intervista a “Reporter” la sua vicenda di imprenditore, aggiustandosi i fatti, cumulando omissioni ed autoassolvendosi è francamente insopportabile, anche per persone tolleranti come i redattori di “micropolis”.
Insomma per il già imprenditore perugino - laureato in Svizzera - la colpa della crisi e delle cessione della fu Ibp, il gruppo Buitoni, trae origine dalla “beata ignoranza dei politici, soprattutto in campo imprenditoriale”. Ancora “Il sindacato... faceva solo parte di una logica, la logica dell'ignoranza”. Non basta “le leggi fatte in quegli anni imponevano sempre dei ritmi di lavoro più bassi e ridotti e quindi costringevano a prendere personale in continuazione e dall'altra impedivano di licenziare”.
Naturalmente il nostro ex imprenditore, continuando, ci prende gusto e alla domanda “Per la famiglia Buitoni che cosa ha significato lavorare in Umbria?” risponde: “Un disastro. Alla fine hanno vinto un insieme di forze contrarie. Tra queste i sindacati che arrivano sempre con dieci anni di ritardo, accorgendosi dei fenomeni solo dopo, quando questi si sono verificati”. Come un torrente in piena seguita inanellando gioielli come quello secondo cui la Francia è stata sempre governata dai socialisti, o quello secondo cui De Benedetti avrebbe venduto la Buitoni-Perugina per le difficoltà relative all'acquisizione della Societé Generale belga. In questo guazzabuglio in cui Berlusconi assume il volto del vero liberale, dove si esaltano le proprie virtù di imprenditore, magnificando il risanamento del Teatro Stabile dell'Umbria, e via di seguito, forse può valere la pena di mettere un po' d'ordine.
Ad esempio Bruno jr. nasconde che il Teatro Stabile ha da sempre un finanziamento massiccio del Ministero, della Regione e di altri Enti Pubblici che hanno sempre coperto la parte più significativa del Bilancio. La salute dello Stabile dipende poco dal lavoro dell’ex presidente, ma soltanto dal vile denaro pubblico. E poi non è gentile trattare così male i politici umbri che, nominandolo presidente dello Stabile, lo hanno fatti andare a teatro per sette anni e mezzo consentendogli di diventare un noto esperto di drammaturgia. Per parlare di cose serie, ci sarebbe da capire ad esempio perché i Buitoni fino ad un certo punto guadagnino, crescano, divengano un gruppo di rilevanti dimensioni, malgrado sinistra e sindacati, poi decadano.
La crescita dura fino agli anni sessanta, la crisi si manifesta a partire dal 1974. E' una crescita impetuosa che riguarda tanto la Buitoni che la Perugina, anzi più la Perugina che la Buitoni. Va ricordato che a tale crescita i Buitoni, con l’eccezione di Giovanni, risposero tardi e male. Lo stabilimento di San Sisto si decise di costruirlo quando non erano più possibili ampliamenti a Fontivegge. Decisivo fu il lavoro dell'Amministrazione Comunale di Perugia per evitare che lo stabilimento si costruisse nella piana di Assisi, con lo scopo di utilizzare le riduzioni fiscali previste da una legge speciale. Solo il rapporto di fiducia tra il gruppo dirigente Buitoni e la Giunta (di sinistra) riuscì ad evitare un'operazione speculativa. Non è dato sapere come Bruno jr. si schierò in detta circostanza.
Altro snodo, la costituzione della finanziaria avvenne in ritardo e fu concepita come meccanismo di controassicurazione reciproca tra i diversi componenti della famiglia. Il pacchetto azionario venne suddiviso in modo tale che per decidere qualsiasi cosa dovessero essere d'accordo almeno tre rami della famiglia, generando un clima di conflitto permanente ed una sostanziale assenza di leadership. Va da sé che il boom delle assunzioni fu frutto della fase di crescita accelerata, che ciò consentì accordi sindacali migliori di quelli nazionali, senza peraltro che ci fossero significative cadute dei profitti. Fatto sta che gli anni del boom, quelli in cui si registra una dinamica sindacale più vivace, sono gli anni degli alti profitti, dell'aumento esponenziale dei fatturati, cui corrisposero investimenti garantiti dall’esposizione debitoria nei confronti degli istituti di credito. Si coniugarono così a una propensione a realizzare dividendi crescenti, senza nessuna previdenza imprenditoriale. Più semplicemente si guadagnava e si spendeva, gli investimenti si facevano indebitandosi con le banche. Quando, per effetto delle crisi petrolifere, il costo del denaro cominciò a crescere e diminuirono profitti e fatturati, i nodi vennero al pettine. Le strategie espansive si bloccarono di fronte alle difficoltà finanziarie. Che cosa c’entrino con questo i sindacati, le rigidità del lavoro, il dirigismo della sinistra umbra è tutto da spiegare. La controprova è che, mentre la Buitoni-Perugina decadeva, l'Umbria (governata dalla sinistra) conosceva il più alto livello di sviluppo industriale del dopoguerra, con tassi di crescita superiori a quelli nazionali e del resto del centro Italia. Con ogni probabilità la spiegazione è diversa da quella che dà l'ex presidente della Ibp. Il difetto era nel manico, nel gruppo imprenditoriale, nell'inadeguatezza della generazione che assunse il potere negli anni sessanta.
Come si sa al peggio non c’è mai fine. Tant'è che dopo la defenestrazione di Paolo Buitoni da amministratore delegato e con l'ascesa di Bruno jr., la politica aziendale fu quella di svendere pezzi pregiati (ad esempio i prodotti dietetici per l'infanzia, la rete dei negozi, ecc..) per pagare debiti. Tale politica colpì soprattutto la Buitoni che progressivamente diventò una azienda quasi esclusivamente pastaria e di qualche prodotto da forno.
La seconda cosa su cui Buitoni fa confusione è sui settori che generano la crisi aziendale. E' vero che l’estero garantiva profitti e l'Italia no, ma è anche vero che in Italia la Perugina garantiva profitti e la Buitoni (gestita da Brunino) generava perdite. Ma anche qui c'è da capire il perché: perché ad esempio mentre Barilla, Danone, ma anche produttori più piccoli come De Cecco facevano affari con il mercato della pasta e dei prodotti da forno, la Buitoni perdeva, malgrado il prestigio del marchio? Non se ne può concludere che il prodotto Buitoni soffriva dal punto di vista della qualità, della scarsa esposizione pubblicitaria e che lo stabilimento di Sansepolcro non era il massimo dell'efficienza?
Infine la vicenda De Benedetti. Buitoni sostiene che De Benedetti era un finanziere e non un industriale, ma perché allora gli cedette l'azienda? Perché - credo unico della famiglia - restò azionista della società quasi fino all'ultimo? C'è di più. De Benedetti vedeva nella Ibp un tassello di una strategia più ampia che puntava a costruire un gruppo capace di porsi in competizione con le grandi multinazionali del settore, con un fatturato di almeno 4.000 miliardi. L'Ibp venne comprata quando De Benedetti pensava di aver acquisito la Sme, il comparto alimentare di Stato. Le acquisizioni successive non erano tese a gonfiare la Buitoni, ma a rendere possibile il raggiungimento delle dimensioni di grande gruppo alimentare europeo. Tutti sanno come andò a finire la vicenda Sme. Sono note le opposizioni al progetto De Benedetti di Craxi, il grande interprete dei desideri di tutti i grandi gruppi alimentari, aiutati dal liberale Berlusconi. Poi, la successiva vendita dei pezzi pregiati della Sme a Nestlé ed Unilever e, per quote minori, a Barilla. E’ questo il motivo della vendita della Buitoni alla Nestlé, la consapevolezza che, date le opposizioni, il progetto non era realizzabile. La questione della Societé Generale in questo quadro è al più marginale per non dire irrilevante.
Anche qui restano alcune domande che aspettano risposta. De Benedetti ha venduto alla Nestlé per circa 1.600 miliardi. A quanto aveva comprato? Si dice per circa 150 miliardi. Che era successo nei due-tre anni della gestione del finanziere piemontese? Ancora, Bruno Buitoni jr. alienò lentamente parte delle quote azionarie che aveva mantenuto, in un periodo di crescita in borsa del titolo Buitoni. Insomma potrebbe aver guadagnato - non sappiamo quanto - sulle attività del finanziere De
Benedetti. E allora, francamente, non ci pare elegante che denigri un proprio “benefattore”.
Insomma Bruno Buitoni jr. da industriale sfortunato o incapace (scelgano i lettori), si è riconvertito in rentier. La cosa è legittima. Meno legittimo è prendersela per giustificare sfortuna o incapacità con chi non c'entra niente: la politica, la sinistra, De Benedetti, il sindacato, ecc.. Bruno Buitoni jr. sostiene, è un parere, “che i politici umbri non hanno mai capito le dimensioni del gruppo Ibp”; quello che è sicuro è che anche i suoi livelli di consapevolezza sulla propria missione di imprenditore a capo di un grande gruppo si sono dimostrati alla prova dei fatti estremamente bassi. Forse sarebbe ora che come è andato in sonno da massone, andasse in sonno anche come ex-imprenditore e si astenesse dal dare e darsi giustificazioni, che peraltro nessuno gli chiede. Si dice che Bruno Buitoni jr. abbia dal 1985 tagliato i rapporti con le aziende che portano il nome della sua famiglia e di Perugia: sono passati sedici anni da quell’epoca e ancora ama interpretare la parte dell’imprenditore, proprietario. Che gli abbia nuociuto l’aria troppo a lungo respirata in Teatro (Stabile dell’Umbria)?


“micropolis”, aprile 2001

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