A poco più di un anno
dalla morte di Bruno Buitoni jr., che morì a marzo dell'anno scorso
tra un panegirico della Marini e uno di Boccali, riprendo un vecchio
articolo di Mandarini per “micropolis”, che rievoca - con
cognizione di causa - un passaggio importante di storia dell'impresa
in Umbria, mentre denuncia disavventure e dimenticanze di quel
rampollo della celebre famiglia. (S.L.L.)
Che il dott. Bruno
Buitoni jr. sia massone, passi. Che si sia messo in sonno, pazienza.
Che dichiari di votare per Forza Italia, in quanto antico “liberale”,
lo avevamo messo in conto e d'altra parte siamo ancora un paese
libero. Che però ricostruisca in un'intervista a “Reporter” la
sua vicenda di imprenditore, aggiustandosi i fatti, cumulando
omissioni ed autoassolvendosi è francamente insopportabile, anche
per persone tolleranti come i redattori di “micropolis”.
Insomma per il già
imprenditore perugino - laureato in Svizzera - la colpa della crisi e
delle cessione della fu Ibp, il gruppo Buitoni, trae origine dalla
“beata ignoranza dei politici, soprattutto in campo
imprenditoriale”. Ancora “Il sindacato... faceva solo parte di
una logica, la logica dell'ignoranza”. Non basta “le leggi fatte
in quegli anni imponevano sempre dei ritmi di lavoro più bassi e
ridotti e quindi costringevano a prendere personale in continuazione
e dall'altra impedivano di licenziare”.
Naturalmente il nostro ex
imprenditore, continuando, ci prende gusto e alla domanda “Per la
famiglia Buitoni che cosa ha significato lavorare in Umbria?”
risponde: “Un disastro. Alla fine hanno vinto un insieme di forze
contrarie. Tra queste i sindacati che arrivano sempre con dieci anni
di ritardo, accorgendosi dei fenomeni solo dopo, quando questi si
sono verificati”. Come un torrente in piena seguita inanellando
gioielli come quello secondo cui la Francia è stata sempre governata
dai socialisti, o quello secondo cui De Benedetti avrebbe venduto la
Buitoni-Perugina per le difficoltà relative all'acquisizione della
Societé Generale belga. In questo guazzabuglio in cui Berlusconi
assume il volto del vero liberale, dove si esaltano le proprie virtù
di imprenditore, magnificando il risanamento del Teatro Stabile
dell'Umbria, e via di seguito, forse può valere la pena di mettere
un po' d'ordine.
Ad esempio Bruno jr.
nasconde che il Teatro Stabile ha da sempre un finanziamento
massiccio del Ministero, della Regione e di altri Enti Pubblici che
hanno sempre coperto la parte più significativa del Bilancio. La
salute dello Stabile dipende poco dal lavoro dell’ex presidente, ma
soltanto dal vile denaro pubblico. E poi non è gentile trattare così
male i politici umbri che, nominandolo presidente dello Stabile, lo
hanno fatti andare a teatro per sette anni e mezzo consentendogli di
diventare un noto esperto di drammaturgia. Per parlare di cose serie,
ci sarebbe da capire ad esempio perché i Buitoni fino ad un certo
punto guadagnino, crescano, divengano un gruppo di rilevanti
dimensioni, malgrado sinistra e sindacati, poi decadano.
La crescita dura fino
agli anni sessanta, la crisi si manifesta a partire dal 1974. E' una
crescita impetuosa che riguarda tanto la Buitoni che la Perugina,
anzi più la Perugina che la Buitoni. Va ricordato che a tale
crescita i Buitoni, con l’eccezione di Giovanni, risposero tardi e
male. Lo stabilimento di San Sisto si decise di costruirlo quando non
erano più possibili ampliamenti a Fontivegge. Decisivo fu il lavoro
dell'Amministrazione Comunale di Perugia per evitare che lo
stabilimento si costruisse nella piana di Assisi, con lo scopo di
utilizzare le riduzioni fiscali previste da una legge speciale. Solo
il rapporto di fiducia tra il gruppo dirigente Buitoni e la Giunta
(di sinistra) riuscì ad evitare un'operazione speculativa. Non è
dato sapere come Bruno jr. si schierò in detta circostanza.
Altro snodo, la
costituzione della finanziaria avvenne in ritardo e fu concepita come
meccanismo di controassicurazione reciproca tra i diversi componenti
della famiglia. Il pacchetto azionario venne suddiviso in modo tale
che per decidere qualsiasi cosa dovessero essere d'accordo almeno tre
rami della famiglia, generando un clima di conflitto permanente ed
una sostanziale assenza di leadership. Va da sé che il boom delle
assunzioni fu frutto della fase di crescita accelerata, che ciò
consentì accordi sindacali migliori di quelli nazionali, senza
peraltro che ci fossero significative cadute dei profitti. Fatto sta
che gli anni del boom, quelli in cui si registra una dinamica
sindacale più vivace, sono gli anni degli alti profitti,
dell'aumento esponenziale dei fatturati, cui corrisposero
investimenti garantiti dall’esposizione debitoria nei confronti
degli istituti di credito. Si coniugarono così a una propensione a
realizzare dividendi crescenti, senza nessuna previdenza
imprenditoriale. Più semplicemente si guadagnava e si spendeva, gli
investimenti si facevano indebitandosi con le banche. Quando, per
effetto delle crisi petrolifere, il costo del denaro cominciò a
crescere e diminuirono profitti e fatturati, i nodi vennero al
pettine. Le strategie espansive si bloccarono di fronte alle
difficoltà finanziarie. Che cosa c’entrino con questo i sindacati,
le rigidità del lavoro, il dirigismo della sinistra umbra è tutto
da spiegare. La controprova è che, mentre la Buitoni-Perugina
decadeva, l'Umbria (governata dalla sinistra) conosceva il più alto
livello di sviluppo industriale del dopoguerra, con tassi di crescita
superiori a quelli nazionali e del resto del centro Italia. Con ogni
probabilità la spiegazione è diversa da quella che dà l'ex
presidente della Ibp. Il difetto era nel manico, nel gruppo
imprenditoriale, nell'inadeguatezza della generazione che assunse il
potere negli anni sessanta.
Come si sa al peggio non
c’è mai fine. Tant'è che dopo la defenestrazione di Paolo Buitoni
da amministratore delegato e con l'ascesa di Bruno jr., la politica
aziendale fu quella di svendere pezzi pregiati (ad esempio i prodotti
dietetici per l'infanzia, la rete dei negozi, ecc..) per pagare
debiti. Tale politica colpì soprattutto la Buitoni che
progressivamente diventò una azienda quasi esclusivamente pastaria e
di qualche prodotto da forno.
La seconda cosa su cui
Buitoni fa confusione è sui settori che generano la crisi aziendale.
E' vero che l’estero garantiva profitti e l'Italia no, ma è anche
vero che in Italia la Perugina garantiva profitti e la Buitoni
(gestita da Brunino) generava perdite. Ma anche qui c'è da capire il
perché: perché ad esempio mentre Barilla, Danone, ma anche
produttori più piccoli come De Cecco facevano affari con il mercato
della pasta e dei prodotti da forno, la Buitoni perdeva, malgrado il
prestigio del marchio? Non se ne può concludere che il prodotto
Buitoni soffriva dal punto di vista della qualità, della scarsa
esposizione pubblicitaria e che lo stabilimento di Sansepolcro non
era il massimo dell'efficienza?
Infine la vicenda De
Benedetti. Buitoni sostiene che De Benedetti era un finanziere e non
un industriale, ma perché allora gli cedette l'azienda? Perché -
credo unico della famiglia - restò azionista della società quasi
fino all'ultimo? C'è di più. De Benedetti vedeva nella Ibp un
tassello di una strategia più ampia che puntava a costruire un
gruppo capace di porsi in competizione con le grandi multinazionali
del settore, con un fatturato di almeno 4.000 miliardi. L'Ibp venne
comprata quando De Benedetti pensava di aver acquisito la Sme, il
comparto alimentare di Stato. Le acquisizioni successive non erano
tese a gonfiare la Buitoni, ma a rendere possibile il raggiungimento
delle dimensioni di grande gruppo alimentare europeo. Tutti sanno
come andò a finire la vicenda Sme. Sono note le opposizioni al
progetto De Benedetti di Craxi, il grande interprete dei desideri di
tutti i grandi gruppi alimentari, aiutati dal liberale Berlusconi.
Poi, la successiva vendita dei pezzi pregiati della Sme a Nestlé ed
Unilever e, per quote minori, a Barilla. E’ questo il motivo della
vendita della Buitoni alla Nestlé, la consapevolezza che, date le
opposizioni, il progetto non era realizzabile. La questione della
Societé Generale in questo quadro è al più marginale per non dire
irrilevante.
Anche qui restano alcune
domande che aspettano risposta. De Benedetti ha venduto alla Nestlé
per circa 1.600 miliardi. A quanto aveva comprato? Si dice per circa
150 miliardi. Che era successo nei due-tre anni della gestione del
finanziere piemontese? Ancora, Bruno Buitoni jr. alienò lentamente
parte delle quote azionarie che aveva mantenuto, in un periodo di
crescita in borsa del titolo Buitoni. Insomma potrebbe aver
guadagnato - non sappiamo quanto - sulle attività del finanziere De
Benedetti. E allora,
francamente, non ci pare elegante che denigri un proprio
“benefattore”.
Insomma Bruno Buitoni jr.
da industriale sfortunato o incapace (scelgano i lettori), si è
riconvertito in rentier. La cosa è legittima. Meno legittimo
è prendersela per giustificare sfortuna o incapacità con chi non
c'entra niente: la politica, la sinistra, De Benedetti, il sindacato,
ecc.. Bruno Buitoni jr. sostiene, è un parere, “che i politici
umbri non hanno mai capito le dimensioni del gruppo Ibp”; quello
che è sicuro è che anche i suoi livelli di consapevolezza sulla
propria missione di imprenditore a capo di un grande gruppo si sono
dimostrati alla prova dei fatti estremamente bassi. Forse sarebbe ora
che come è andato in sonno da massone, andasse in sonno anche come
ex-imprenditore e si astenesse dal dare e darsi giustificazioni, che
peraltro nessuno gli chiede. Si dice che Bruno Buitoni jr. abbia dal
1985 tagliato i rapporti con le aziende che portano il nome della sua
famiglia e di Perugia: sono passati sedici anni da quell’epoca e
ancora ama interpretare la parte dell’imprenditore, proprietario.
Che gli abbia nuociuto l’aria troppo a lungo respirata in Teatro
(Stabile dell’Umbria)?
“micropolis”, aprile
2001
Pessimo
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