11.7.14

Divi. Mister Grant lascia Hollywood (Roberto Silvestri)

La notizia della morte e il “coccodrillo” di Cary Grant sul “manifesto”. (S.L.L.)

Cary Grant è morto. Aveva 82 anni. L'attore è deceduto domenica mattina all'ospedale St.Luke di Davenport, Iowa. Lo ha annunciato il direttore dell'istituto di cura, James Stuhler, specificando che Grant è morto alle 23,22 per congestione cerebrale. Era stato ricoverato, in stato di coma, sabato sera. Lo aveva accompagnato la moglie Barbara Harris. L'attore si era sentito male durante le prove dello spettacolo «Una conversazione con Cary Grant».

Cary Grant aveva in comune con Alfred Hitchcock la nostalgia delle liquirizie, passione che li legava alla natia Inghilterra. Inoltre quello che li magnetizzò in ben 4 film (Sospetto, Notorius, Intrigo internazionale, Caccia al ladro) furono alcune caratteristiche caratteriali: l'amore per la vita l'autoironia, la cordialità e il perfezionismo nel lavoro. Probabilmente la scintilla di quel sodalizio nacque perché Il sospetto (1941), splendida metafora sui limiti e sulle grandezze del matrimonio borghese (tanto che ci furono ripensamenti per mesi su «come-finire-il-film»), fu un successo storico.
Cary Grant è stato il numero uno in varie categorie, tranne in quella che conta meno (non ha mai vinto l'Oscar, se non quelli «per l'intera carriera», ulteriore ipocrisia dell'Academy Award). Fu il numero uno della colonia inglese (anni trenta) che trapiantò in Usa l'humour «tipicamente isolano» e l'eleganza. Gli inglesi possono cambiare residenza e al limite anche fede politica, ma rimangono sempre fedeli al loro sarto. Nel 1938 Cary Grant possedeva 24 abiti (in un'intervista si scusa per questo: «sa, per il mio lavoro, me ne servono molti...») per lo più marroni, ma anche grigi, nonché uno nero con dei piccoli puntini. Vengono tutti da Londra (tranne gli accessori, hollywoodiani). Preferisce le camicie blue e marrone chiaro, ama i vestiti sportivi e guida una macchina scoperta, lunga, affusolata, potente... Stiamo sbirciando un articolo della rivista per fan Motion picture, del 1938. Che elenca le altre categorie in cui Grant è primo. Nella fedeltà alla situazione di scapolo (poi sapremo che è stato un numero uno anche nel numero dei matrimoni, 5. Nell'essere, nonostante tutto, il meno inglese degli inglesi: esuberante, impulsivo, sembra italiano: «Tutta la mia famiglia è scura di carnagione, più scura di me». E il primo nella commedia brillante. A tal punto da rimproverare una volta sul set Hitchcock (che pure ne accettava i consigli di regia) di non conoscerne troppo bene i segreti e i ritmi tanto da fargli dire «battute alla David Niven...».
Era il numero uno nella distrazione (svanito come il prof. Huxley di Susanna) e il numero uno nella pignoleria (quanta «scienza dei contratti» con gli studi). Questo perché proveniva da una famiglia povera, quella che gli mise il nome di Archibald Alexander Leach quando nacque il 18 gennaio 1904 a Bristol. La stessa che lo costringe a fuggire di casa quando ha 15 anni. Acrobata, girovago sui trampoli, poi New York, dove fa tanta commedia musicale e teatro. A trent'anni è pronto per Hollywood. Lì, quasi casualmente, viene scritturato dalla Paramount.
Cambia nome, e si gode l'era pre-codice Hays (quando si poteva dire e fare quasi tutto nei film Usa). Fa film con Dorothy Arzner, fa Blonde venus con Sternberg e Dietrich e un giorno passeggiando per gli uffici della Paramount affascina Mae West: «Era la cosa più bella che avessi mai visto in California», dirà la divoratrice di uomini. Lo vuole subito come protagonista di Lady Lou e I 'm not angel.
Poi arrivarono le forbici della censura e Cary Grant approfondi il mestiere con altri grandi della commedia, Hall, McLeod, Nugent e Cukor, col quale nel '36 realizza Il diavolo è femmina. Al suo fianco una scatenata Katharine Hepburn. Una reciproca simpatia. «Una buonissima persona, intelligente, premurosa» diceva Grant di lei. E la Hepburn: «Fu il primo ruolo decente di Cary Grant perché George Cukor lo conosceva e lo usò come personaggio di commedia, quello su cui poi si costruì la carriera: fu la sola cosa che ebbe successo nel film».
Infatti anche Cary Grant ricorda con affetto quel film, un disastro commerciale, oggi rivalutato: «Facevo il cockney e, in termini di pubblico, fu un disastro. Ma io imparai da George Cukor i tempi della commedia».
Basterà ricordare (a proposito di tempi della commedia imparati) gli altri grandi film di Cary Grant: L'orribile verità di Leo McCarey, La via dell'impossibile di McLeod, Susanna di Howard Hawks, Incantesimo di Cukor, La signora del venerdì di Hawks, Le mie due mogli di Garson Kanin, Scandalo a Filadelfia di Cukor. Sono quei film che nel linguaggio critico vengono chiamate commedie screw-ball. Il termine deriva dal baseball e significa «palla lanciata a vite, con effetto imprevedibile per il battitore». Insomma qualcosa di pazzo, ma che va a segno. In questo genere si rifugiò tutto quello che fa grande un cinema messo in situazione di non nuocere quanto ai contenuti: la satira, l'autoironia, la franchezza sessuale, la demistificazione politica sotterranea. Certo, tutto doveva essere simulato. Ma il doppiofondo segreto (agli uffici di censura, non al pubblico) era: «scateniamo l'immaginazione, la curiosità e l'intelligenza. Anche se, apparentemente, parliamo di santità del matrimonio, di giuste distinzioni di classe e di dominio sulle donne da parte degli uomini».
«Quei film — scrive lo storico del cinema Robert Sklar — fornivano agli spettatori una visione del tutto nuova di stile di vita sociale e un diverso modo di essere: amare i piaceri era ok anche se ciò vi faceva sembrare sexy o strani.
Sklar non le beve le screw-ball comedies, perché esse non «sfidarono mai l'ordine sociale». Eppure un attento osservatore di simbologie sessuali vacillanti come Vito Russo scrive in Lo schermo velato (Costa & Nolan): «Solo una volta durante il regno del codice, la parola gay inserita in un film al di fuori della sceneggiatura, parve riferirsi all'omosessualità e fu in Susanna! di Hawks. Quando la zia di Katharine Hepburn, Elizabeth (Mae Robson) scopre Cary Grant in vestaglia di pizzo, gli chiede se si vesta sempre così. Grant sobbalza e lancia un urlo isterico: «No, sono diventato gay... tutto a un tratto». Nelle sceneggiare pubblicate questa battuta, probabilmente un'improvvisazione di set, è sparita.
Nel '46 con Alexis Smith, Cary Grant interpretano Notte e dì, la biografia del musicista Cole Porter, amico per tutta la vita, ma non amante di Monty Woolley. C'era molto di Grant in quel film. Anche lui ha vissuto molti anni con l'attore Randolph Scott in una villa al mare in affitto a Malibù. Anche lui amava suonare canzoni sentimentali al Diano. Giocare a ping pong, abbronzarsi. Anche lui eccentrico e imprevedibile : «il lavoro che uno fa può essere anche importante, ma l'individuo in sé non lo è mai. Noi oggi siamo qui e domani possiamo non esserci più. Io voglio sfruttare questo successo per quanto ne vale la pena, e fare in modo che questa mia breve permanenza in questo vecchio, ridicolo mondo sia la più piena, armoniosa e soddisfacente possibile — facendo in modo che questa mia ricerca non produca danni agli altri».
Certo, distrattissimo, non aveva mai contante con sé, «è sempre negli altri calzoni». Ma, come disse un produttore: «Grant non firma niente di più duraturo di un contratto per due-tre film, ma in quel contratto ottiene qualunque cosa, tranne le stoviglie per la cucina. Dovrebbe fare l'avvocato» (la sua eredità è di 80 miliardi di lire). Aveva imparato, a prezzo di duri calli, da giovane, che la vita è troppo seria per essere presa seriamente. Doveva aromatizzarla con dosi di stravaganza. Smemorato per le cose importanti, si ricordava di tutti i dettagli, tipo mandare quel tipo di fiori alla madre della sua segretaria per il suo compleanno... Mae West disse di lui, a proposito del suo carattere lunatico: «C'è un solo errore che una ragazza può fare con quell'uomo, prenderlo come qualcosa di garantito» dove garantito in inglese è grant, dal verbo to grant garantire, accordare, concedere.
Davide Turconi, quando realizzò il catalogo Divi & divine pubblicò su Cary Grant due bellissimi articoli degli anni trenta, un po' prima che l'attore di Bristol balzasse per 4 volte ai primi posti tra le star più amate dal pubblico americano. In uno di questi, Virginia T. Lane di Photoplay scrive, profeticamente: «vi hanno mai raccontato di come Grant espugnò Richmond? È una bazzecola in confronto a come Grant espugnò Hollywood». Divenuto una cosa sola con lo studio e lo star system. Cary Grant sopravvisse alla sua dissoluzione negli anni '50. Assieme ad altre star si autogestì gli ultimi momenti di carriera, ma, incredibile!, andò in pensione quasi in età standard, a 62 anni. Dopo 72 film nient'altro.
Una vecchiaia deliziosa, ma un po' folle, come tutta la sua vita. Basta pensare alla sua mimica facciale. Alla stessa sua presenza dai doppifondi espressivi innumerevoli, e senza sforzo. Jerry Lewis ci ricordava che, in un piano sequenza, basta che Cary Grant contragga i muscoli della mascella che è già di per sé una dissolvenza. Il critico italiano Lugli ricordava, per anteporlo a Cooper, «una sensibilità più attenta, un ulteriore pensare». E questo pensare, il fatto che in tutti film quello che Cary Grant sta facendo è pensare (esempi: La signora del venerdì, Il magnifico scherzo) anche se non ne avrebbe la minima voglia (Intrigo internazionale), vale più, nel ricordo, dei suoi altri arnesi di lavoro: un sorriso, ormai scomparso per sempre, gioviale e con tutti i sottointesi espliciti. L'ammiccare degli occhi che alzano il sopraciglio, il contrarre il viso all'indietro in una mossa di meditato stupore, il muoversi a spalle ferme con le gambe spinte più in avanti del busto».
È già una satira, una parodia, appena appare. Figuriamoci poi quando, in Susanna!, nella seconda scena, viene presentato da Miss Swallo: «Shhh! il professor Huxley sta pensando» e la macchina da presa risale sul dinosauro che Huxley sta mettendo a posto e lo scopre così, nell'imitazione di Il pensatore di Rodin. Mentre, a fine film, sarà l'interprete, con la Hepburn, della parodia di Il bacio di Rodin. In mezzo c'è stato un avvicinamento all'amplesso, l'amore. Ma, prima e dopo, la pietra che ti imprigiona per sempre.
Non sei importante tu, ma il lavoro che fai. «Simulacro dell'imborghesimento senza essere naturalisticamente borghese, monumento di un'epoca e di una classe che ha rinunciato ai monumenti, rende eroico uno status che nega l'eroismo», come ha scritto Adriano Aprà della Strategia Grant.


“il manifesto”, 1 dicembre 1986

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