23.7.14

Gramsci oltre Gramsci. Verso il transmarxismo? (Roberto Ciccarelli)

Gramsci 1922
Da poco che in Italia si è scoperto che Antonio Gramsci ha avuto una vita fuori dal perimetro santificato dov'è stato rinchiuso in compagnia di Francesco De Sanctis e Benedetto Croce. Gramsci ormai non è più solo un nome, ma un significante che spiega le rivendicazioni delle comunità afroamericane di base, quelle dei movimenti per l'acqua in India o dei subalterni che vivono nelle periferie delle grandi metropoli europee. Dall'India agli Stati Uniti, dal Brasile all'Uk, Gramsci è diventato una costellazione teorica transnazionale e postcoloniale dove la rivoluzione è una guerra culturale di trincea, non una guerra di movimento alla conquista del palazzo d'inverno.
La storia di questo Gramsci che ha poco o nulla da condividere con la tradizionale lettura dello storicismo marxista, e forse nemmeno con quella della ben più interessante della filologia gramsciana, viene raccontata da Michele Filippini, assegnista di ricerca all'università di Bologna e membro dell'International Gramsci Society in Gramsci Globale. Guida pratica alle interpretazioni di Gramsci nel mondo (Odoya, pp. 176, euro 13).
Anche nel paese più provinciale che si ricordi a memoria d'uomo, con l'università ripiegata sul più atroce conformismo baronale, qualcosa sta dunque cambiando. Le vecchie icone vengono ridiscusse alla luce del rimescolamento tra l'approccio postcoloniale e il femminismo, tra il post-marxismo e gli studi culturali. La spinta delle migrazioni e il rafforzamento culturale delle seconde e delle terze generazioni sta rafforzando l'attualità dei Subaltern Studies di Ranajit Guha, Partha Chatterjee o Gayatri Chakravorty Spivak, dei Cultural studies promossi da Stuart Hall e Edward Said. Merito della fluidificazione dei confini e delle discipline, e delle costanti incursioni in Inghilterra, in India o negli Stati Uniti di molti valorosi ricercatori che, come Miguel Mellino o Sandro Mezzadra, hanno tradotto, introdotto, curato e intervistato studiosi come Robert Young.
La tesi di Filippini è che Gramsci si ritrova al crocevia di intrecci sempre più complessi, oltre che l'osservatorio attraverso il quale è possibile analizzare la trasformazione post-coloniale della cultura dei subalterni, quelli che vivono nella metropoli o nei cosiddetti paesi emergenti.
Nella complessa geografia globale dei processi culturali, il «gramscismo» si è candidato ad essere l'alternativa al «decostruzionismo» (meglio conosciuto come «postmoderno») e non può essere identificabile con una versione malinconica e luttuosa del «post-strutturalismo» che ha il limite di avere ristretto il pensiero critico – mai come oggi vivace – alla polarità tradizionale tra psicoanalisi e politica o tra psicologia e società, alla Slavoj Zizek per intenderci.
Esso non è nemmeno alimentato dagli esotismi che non mancano mai di alimentare il circo dei convegni e delle celebrazioni nelle università dell'Impero. Gramsci non è attuale non perché è un «italiano», ma perché la sua macchina concettuale permette ancora oggi di fare a pezzi l'economicismo del marxismo, o del suo feticcio, e di interpretare politicamente il neoliberismo che per la sinistra è ancora l'assurdo sinonimo del dominio dell'economia sulla società o dell'assorbimento della politica nel campo della tecnica.
Prendiamo il caso del pensatore afroamericano Cornel West, uno dei più originali interpreti di Gramsci (Giorgio Baratta fu il primo a capirlo in Italia), protagonista della saga di Matrix, docente prima ad Harvard e poi a Princeton dopo essere stato cacciato dal rettore Larry Summers, attuale ministro dell'economia di Obama, per la sua acclamata opera di rapper e di militante di base delle comunità nere e cattoliche. West non è il filosofo di professione che parla dalla cattedra del New York Times. Frequenta gli show più popolari della televisione Usa e interpreta il suo ruolo di attivista di una cultura che non è riservata ai grandi intellettuali globali, ma è diventata popolare, concretamente mondiale e ha modificato la mummificata cultura popolare. Lo stretto rapporto tra cultura e politica negli studi culturali, insieme all'uso dei concetti di subalternità, dominio ed egemonia negli studi postcoloniali è la ricetta usata da Cornel West per rivoluzionare il canone del pensiero critico che abbiamo conosciuto dal Dopoguerra. Pochi lo sanno, ma tutto è iniziato nel 1981 a Birmingham, Inghilterra. Allora non c'erano solo i minatori a lottare contro i tagli alla spesa pubblica e le leggi anti-sindacali di Margaret Thatcher.
Le strade vennero conquistate dai giovani asiatici o africani con la cittadinanza britannica, mentre si
costruivano barricate. Orecchiavano il punk-rock dei Clash, non c'erano ancora gli Asian Dub Foundation ma qualcuno già pensava al dubstep.
Scene simili le vide Etienne Balibar nelle banlieu francesi dove i ragazzi beur diedero vita alla prima insorgenza della generazione precaria e meticcia che da 30 anni accusa il razzismo di Stato e la cittadinanza repubblicana costruita sull'esclusione sociale delle classi povere e dei migranti. La crescita di questa sensibilità gli costò un durissimo scontro con il partito comunista francese che spinse Balibar ad abbandonarlo per sempre.
Stuart Hall è forse all'origine di questo movimento. Intellettuale inglese di origini giamaicane, tra i fondatori insieme a E.P. Thompson e Raymond Williams della New Left Review e animatore del Centre for Contemporary Cultural Studies di Birmingham, Hall è il fondatore dei cultural studies e comprende l'ontologia dell'attualità a partire da un approccio multidisciplinare che incorpora il marxismo, il post-strutturalismo francese, la critica femminista e la «critical race theory». La sua tesi è semplice ed efficace: la vecchia socialdemocrazia europea, insieme a ciò che resta alla sua «sinistra», non hanno mai capito che il neoliberismo è un populismo autoritario e non un fascismo. La Thatcher, come oggi Berlusconi, lasciano al loro posto le istituzioni della democrazia, ma creano un consenso popolare rispetto a politiche anti-costituzionali, sicuritarie e individualistiche.
La loro lotta contro l'uguaglianza si sposa in maniera innovativa con una rivalutazione della libertà individuale che non è solo quella dell'imprenditore, ma un vettore di costruzione di una società falsamente comunitaria, ma in realtà autoritaria. L'egemonia sta tutta qui: mettersi nel campo della sinistra e devastare il senso dei principi della libertà e dell'uguaglianza. Gramsci torna allora utile per comprendere la spettacolare torsione ideologica che separa e, allo stesso tempo, confonde la libertà e l'uguaglianza, l'oclocrazia con la democrazia, il povero con il ricco. La rivoluzione passiva in atto ha distrutto il tradizionale senso comune della sinistra – e del marxismo – che un tempo fu utile per costruire un'egemonia, condurre una lotta culturale, decostruire un'ideologia, ma oggi è totalmente inadeguata. L'opera di Stuart Hall è un formidabile atto di accusa contro le parti più retrive di una sinistra che crede ancora nella cultura popolare, quella che coincide con le tradizioni popolari di resistenza, mentre i paradigmi dei progressisti continuano a muoversi in direzione di una fantomatica meta postmoderna che si risolve in un tecnicismo politicamente disarmato: la governabilità. Al fondo del gramscismo rivoluzionario di West e Hall c'è l'idea che la trasformazione avviene a livello molecolare, è individuale e collettiva, e si sviluppa con la creazione
di comportamenti, pratiche e discorsi che si oppongono alle norme dominanti. Pensare invece che essa provenga dall'esterno, oppure da un territorio autentico della soggettività di classe, comeda un'idea al di là della storia, significa condannarsi a bere l'insipida minestrina servita dal post-marxismo contemporaneo, quello che riscopre l'idea speculativa di un comunismo ispirato all'ortodossia neo-platonica (Alain Badiou), la filologia dei testi dei padri fondatori (Marx) o piomba, nel vicolo cieco di una teologia politica apocalittica o messianica (Zizek, Agamben, Tronti). Ma ciò non basta per allontanare il rischio di considerare l'egemonia come una banale mediazione tra interessi frammentati, identità segmentate e campagne politiche autistiche.
Anche il gramscismo globale rischia di ridurre questo concetto fondamentale ad una psicologia o al valore etico del gruppo dominante o dei suoi oppositori. Questa obiezione, non nuova, merita una discussione seria. Alla base c'è il timore di legittimare l'idea che la «lotta di classe» è finita e si è trasformata in un conflitto tra una pluralità di soggetti non riconducibili alla medesima condizione socio-economica. Ma questo timore deriva dal riduzionismo e dall'iperdeterminismo politico che il pensiero critico ritiene di avere messo alla porta, mentre il vecchio spettro rientra dalla finestra. L'intellettuale postcoloniale Ranajit Guha invita a osservare questi stessi fenomeni anche nelle metropoli occidentali.
Esistono mobilitazioni che non cercano il nuovo principe - il partito - ma esprimono con le parole di Gramsci una «molteplicità di elementi di “direzione consapevole” anche se nessuno di essi è predominante».
Gramsci oltre Gramsci. Non è detto che questa prospettiva convincerà i suoi tradizionali cultori, ma questo poco conta. Il punto è: in che modo, e quando, questa molteplicità riuscirà a costituire il proprio principe?


“alias – il manifesto”, 30 aprile 2011

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