24.7.14

Paula Philippson: senza miti il mondo è grigio? (Alessandro Defilippi)

Paula Philippson, nata in Svezia nel 1874, fa parte di quella variegata categoria di intellettuali che inventò lo studio moderno delle mitologie e dei loro rapporti con la psiche. Medico, esercitò a lungo in Svizzera, mentre i suoi frequenti viaggi in Grecia la indussero allo studio della filologia classica. Un intelletto non dissimile da quello di Freud e di Jung, padri della psicologia del profondo; una formazione - quella dei medici a cavallo tra l'800 e il '900 - in cui s'intrecciavano, fecondandosi reciprocamente, il pensiero scientifico (pensiero indirizzato, secondo Jung) e quello creativo (pensiero per immagini). Una forma di umanesimo scientifico (o di scienza in forma umana) oggi molto rara. I saggi raccolti in questo Origini e forme del mito greco vennero pubblicati tra il 1936 e il 1944 e comparvero per la prima volta in Italia nel 1946, in quella «Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici» curata da Pavese e De Martino per Einaudi. Oggi Bollati Boringhieri li ripropone (e già solo la loro ricomparsa costituisce un piccolo evento culturale), arricchendoli di una introduzione di Federica Montevecchi che ricostruisce le vicende del libro e quelle della cosiddetta «Collana viola» di Einaudi. Ci viene così restituito non solo un testo fondamentale sul mito greco, paragonabile a quelli di Kerényi e di Otto, ma anche un importante spaccato del fermento intellettuale, spesso conflittuale, degli anni del secondo dopoguerra. I saggi - soprattutto i primi due, Il tempo nel mito e La genealogia come forma mitica - ricostruiscono il passaggio avvenuto nella civiltà greca da mythos - la narrazione - a logos - il pensiero indirizzato - che condurrà alla riflessione filosofica. Centro del racconto mitico è il simbolo, «ciò che mette insieme», in cui la Philippson, come nota acutamente Federica Montevecchi, intravede l'unire poli opposti come il cosmo - l'ordine - e il caos attraverso «la relazione e la complementarità, non l'assimilazione e il conseguente annullamento di elementi diversi». Jung nel 1921, in Tipi psicologici, parlando del simbolo ne sottolinea l'aspetto di vitalità (il «simbolo vivo») indicando come esso, al contrario del segno, non sia un mero indicatore di significato, ma come, proprio mantenendo la tensione e la complementarità tra gli opposti - cosmo e caos, vita e morte, maschile e femminile... - apra al senso più profondo e, in ultimo, alla libertà. Un senso della vita e dell'universo che ritroviamo nelle pagine della Philippson dedicate al tempo divino - l'essere - e a quello umano - il divenire - e al concetto di kairòs, l'incrocio tra questi due tempi: «La pienezza dell'essere racchiusa in un istante senza durata». Quello che noi umili figli dei Greci chiamiamo a volta a volta illumuiazione, insight, forse felicità.
Di grande fascino sono i capitoli dedicati alla mitologia della Tessaglia, regione che, in grazia di un certo isolamento geografico, mantenne credenze e riti dedicati a personaggi come Chirone, Peleo (il padre dell'eroe Achille) e Thetis, che successivamente decadranno al rango di eroi, di demoni teriomorfi e comunque di attori di secondo piano nel mondo retto da Zeus. Le grandi divinità olimpiche - maschili come Zeus stesso e femminili come Era - sarebbero, secondo la Philippson, derivate dall'incontro tra la civiltà egea, di stampo matriarcale e stanziale, e quella indoeuropea (se mai è esistita una tale unità culturale), di tipo invece patriarcale e guerriero. Zeus, nelle sue declinazioni di Poseidone e di Ade - l'invisibile - non sarebbe che lo sposo della terra, mentre Artemide, Era, Demetra, sarebbero i volti di Gaia stessa, unita al dio originario Poseidone, lo scuotiterra. Ma questi sono particolari che possono interessare lo specialista; tutto il libro, pur per alcuni versi datato, è invece un esempio luminoso di una capacità di fare scienza attraverso l'anima - caratteristica dei primi decenni del secolo scorso - che ci appare oggi ingiustamente dimenticata a favore di un determinismo sempre più estremo. Diceva ancora Jung che sarebbe necessario liberarsi dalle proiezioni - i nostri filtri mentali - per vedere il mondo nella sua realtà, e sicuramente gli scienziati e i filosofi del '900 e di questo inizio di millennio ci hanno condotto molto avanti in questa direzione. Ma lo psicologo svizzero aggiungeva anche che senza proiezioni il mondo è privo di colori, grigio. Proprio come ci appare questo nostro attuale, fisso nella luce, onnipotente e senza ombre, dell'informazione totale. Un mondo dell'hybris.


“La Stampa – Tuttolibri”, 10 giugno 2006

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