12.7.14

Sciascia letterato. La materia e lo stampo (Marco Belpoliti)

Un saggio sul primo Sciascia, centrato sul rapporto con Italo Calvino. A più di vent'anni dalla prima pubblicazione mi pare tuttora utilissimo, oltre che acuto e convincente. (S.L.L.)
Leonardo Sciascia, Giancarlo Vigorelli, Giulio Einaudi, Italo Calvino 
Gli zii di Sicilia è il penultimo «Gettone», il numero 57, è del 1958, contiene tre racconti e costituisce l'esordio narrativo di Leonardo Sciascia. Nel 1950 escono infatti, presso l'editore Bardi di Roma, le brevi prose delle Favole della dittatura, nel '52 un volume di poesie, La Sicilia, il suo cuore, nel '53 il saggio Pirandello e il pirandellismo e finalmente nel 1956 Le parrocchie di Regclpetra, da molti ritenuto il suo «primo libro». Italo Calvino ha inviato ad Alberto Carrocci il testo di Cronache scolastiche, troppo esiguo per tirarci fuori un «Gettone», e così “Nuovi argomenti” l'ha pubblicato all'inizio del 1955. La storia l'ha raccontata in diverse occasioni Sciascia stesso: lo scritto fu notato da Vito Laterza che pensò di fargli scrivere tutto un libro sul suo paese, così nacque su commissione Le parrocchie di Regalpetra.
Ma narratore Sciascia lo era già. Così nel 1956 invia sempre a Calvino un racconto, Stalin. Il giudizio dello scrittore ligure non è del tutto soddisfacente: «Insomma è un libro a cui se tu ti sentissi di lavorarci ancora. potrebbe dire molto di più. Così è piuttosto superfìciale, con un sospetto di facilità. Calvino è poco convinto, ma questo non impedisce che l'ipotesi di un «Gettone» col racconto del giovane siciliano vada avanti. Qualche mese dopo sembra cosa fatta, anche se il libro ancora non esce: la collana di Vittorini è in via di liquidazione. Intanto i racconti sono diventati due. Nella lettera successiva Calvino esprime il suo giudizio su La zia d'America e sull'ultimo arrivato, Il quarantotto. Ancora non è d'accordo: e contesta la riuscita dei racconti. Il quarantotto è «un racconto storico così così»; certo Sciascia ha un ottimo «mestiere e una gran limpidezza di segno», ma il risultato non è del tutto chiaro. Il redattore dell'Einaudi preferisce La zia d'America, «felice e divertente», anche se ci si sente Brancati. Il suo paie-re è irrevocabile: «La tua cosa più forte resta le Cronache scolastiche. E' una cosa che esce dalla letteratura documentaria di questi anni, perché non c'è solo il documento, ma ci sei tu dentro che guardi».
Non c'è dubbio che il giudizio di Calvino è fortemente condizionato dai canoni letterali dell'epoca, e in particolare dal suo stesso rovello, quello di scrivere un romanzo neorealista, tentativo amaramente fallito. Forse è per questo che non riesce a vedere la vena favolistica che a tratti scorre anche ne Il quarantotto, una vena che, almeno in parte, deriva da Ippolito Nievo - appare nel racconto anche come personaggio - e a scorgere il giovane protagonista arrampicato sugli alberi con la sua Pisana; eppure nel 1957 lo scrittore ligure ha pubblicato Il barone rampante. Scrivendo il risvolto del «Gettone», Vittorini battezza con i nomi di Brancati e di Nievo il nuovo scrittore siciliano, di cui segnala l'ampiezza di interessi e impegni culturali e insieme la radice meridionale. L'esordio è risicato, tanto che, anni dopo, riparlando di quell'inizio, Sciascia ricorda la volontà di Vittorini di liquidare con quel volume l'esperienza della collana dei giovani narratori: «Probabilmente se la giuria di Libera Stampa non mi avesse premiato, avrei liquidato anch'io la mia esperienza, appena cominciata».
La vittoria nel premio svizzero convince l'editore alla pubblicazione. Pochi all'epoca compresero che Le parrocchie di Regalpetra era già un libro narrativo, alla Sciascia naturalmente, ma allora quella maniera doveva ancora farsi strada tra i lettori e i critici. E' sempre a posteriori che i giochi sembrano fatti, e l'autore stesso, scrivendo la prefazione per la ristampa del libro apparsa nel 1967 insieme all'importante e sottovalutato Morte dell'Inquisitore (1964), il suo libro non-finito, scrive «E' stato detto che nelle Parrocchie di Regalpetra sono contenuti tutti i temi che ho poi, in altri libri, variamente svolto. E l'ho detto anch'io». Ma qual è la maniera propria di Sciascia? Un originale fusione di saggismo e narrazione, storia e romanzo poliziesco, architettura narrativa e apologo, moralità e acribia filologica, analisi sociologica e romanzo, interpretazione politica e caso esemplare. Tutto questo rende ardua la catalogazione dei suoi libri; le formule della critica letteraria risultano troppo strette, dal momento che romanzo e saggio si mescolano, producendo tutta una serie di casi intermedi legati più alle singole opere che alle definizioni generali. E, come spesso accade nel lavoro degli scrittori, la matrice è tutta contenuta in quei primi libri, specie nelle Parrocchie di Regalpetra e negli Zii di Sicilia, da cui tutto si sviluppa, come un albero dal seme, se non che questo albero è un caso unico nella tassonomia dei generi e delle specie.
Le parrocchie di Regalpetra, libro a cavallo tra cronaca e narrazione, contiene il documento storico, il racconto, l'apologo morale, la testimonianza sociale, il resoconto giornalistico, la mediazione, l'indagine lessicale, l'annotazione antropologica, la denuncia del malcostume politico. E' un libro di letteratura, ma anche di grande testimonianza civile; l'unico che gli può stare accanto, in quella fine degli anni '50, è il libro di un altro grande provinciale, le Esperienze pastorali di don Lorenzo Milani, uscito l'anno seguente, ma scritto nel 1954.
Il paragone non è irriguardoso per il grande scrittore, poiché riletto oggi il libro di Don Milani non è da meno di quello di Sciascia, sia sul piano intellettuale che su quello del linguaggio, tanto che, in una futura antologia della prosa italiana, accanto a quella dello scrittore siciliano, vero modello di un costrutto sintattico che corrisponde perfettamente al costrutto mentale, potrebbe figurare quella dell'autore delle Esperienze pastorali, e soprattutto della straordinaria Lettera. Anche don Milani ricorre alla cronaca e alla storia, illumina il presente con il passato, possiede il gusto del racconto, dell'apologo, dell'esempio brillante, e ha persino il dono di una lingua efficace, freschissima, (si pensi a che cos'era la lingua italiana allora, tra retorica ereditata da un ventennio fascista e il trionfante linguaggio clericale dell'italietta democristiana che ha sempre avuto in spregio la cultura e gli scrittori).
Ma mentre il prete di San Donato lavorava per la riforma della sua amata chiesa, con tabelle, disegni, fotografie, ritagli di giornale, Sciascia è già un letterato bell'e fatto, direttore di una rivista di provincia intelligente e aperta, “Galleria,” che organizza convegni e dedica numeri unici a scrittori. Questo per dire del carattere eminentemente letterario del lavoro dello scrittore siciliano, carattere che persino Calvino stentava a riconoscergli pienamente, almeno sul piano formale. Scrivendogli a proposito dei tre racconti che compongono Gli zii di Sicilia il redattore einaudiano batte sul tasto di una letteratura terribile. Così, per lui, deve essere la letteratura contemporanea, altro che «pezzi di costume»! La morte di Stalin, il più legato ai fatti correnti, è per Calvino «pamphlettistico e un po' deludente dato il tema». Il confronto tra i due scrittori, il ligure Calvino e il siciliano Sciascia, è illuminante; ne resta testimonianza nella corrispondenza che i due intrattennero per via della pubblicazione presso Einaudi delle opere di Sciascia. Molte cose li univano, molte cose li separavano, sin da quell'esordio nella collana di Vittorini.
Il nocciolo duro di Sciascia è la dimostrazione che poi spiega anche quell'originale connubio di saggismo e narrazione che attraversa la sua opera.
In un'intervista del 1970, nel momento in cui si è affermato come scrittore con la pubblicazione di Il giorno della civetta (1961) e A ciascuno il suo (1966), dichiara: «Le cose che scrivo partono sempre da un'idea e si svolgono su uno schema. Voglio dimostrare qualcosa servendomi della rappresentazione di un fatto immaginato o inventato; e dico inventato nel senso di trovato: trovato nella storia e nella cronaca. Il fatto in partenza è un pretesto e un modo». Questa intenzione è forse ciò che non piace a Calvino, allora alla ricerca di una «naturalezza» esaurita dopo l'esordio giovanile; mentre Le parecchie di Regalpetra nascono da un'esperienza diretta, dall'urgenza di raccontare il proprio ambiente, e insieme dalla commissione di un editore, i racconti de Gli zii di Sicilia, tre piccoli romanzi in potenza, cui si aggiunge nel 1961 un romanzo incompiuto, L'antimonio, contengono già la vena «dimostrativa» di Sciascia, anche se il racconto è decantato insieme a tante letture (Brancati, Pirandello, Nievo, Hemingway).
E' ancora uno Sciascia aurorale a contrapporre al saggismo narrativo delle Parrocchie la narrazione vera e propria, in attesa di passare alla narrazione saggistica, dove riverserà la sua vena più autentica di moralista. Riletto oggi, Gli zii di Sicilia appare un libro ricco di grande freschezza, persino di naturalezza, anche se si sente che tutto questo deriva dai buoni modelli scelti dall'autore e dal suo desiderio di essere vero narratore, costruttore di storie. Proprio ciò che gli nega Calvino, implacabile con se stesso e gli altri.
Ma per ritornare a quell'intervista del 1970 rilasciata a Walter Mauro, Sciascia aggiunge un'osservazione importante: «Ogni mio libro vuole essere un simple discours su cose maledettamente complicate; e la semplicità viene al discorso dal fatto, dal racconto». In questa breve proposizione si trova il segreto di Sciascia, della sua complicata avventura narrativa partita tra romanzi, saggi, racconti, pamphlet, commedie, poesie, articoli, cronache, libri e raccolte tanto difficili da catalogare: per lui narrare significa amplificare, ricondurre al simple discours la complicazione dell'esistenza. Ma detto così non è ancora chiaro.
Come sa ogni lettore fedele dello scrittore siciliano, tutti i suoi libri non spiegano nulla, non concludono niente, non arrivano a un capo qualsiasi; il lettore si trova nella condizione di un nuotatore che non riesce mai a toccare riva, eppure non la perde mai di vista. Voglio dire: la premessa, la dimostrazione, è evidente sin dall'esordio e anche il fatto narrato sembra svolgersi con una semplicità evidente, eppure niente si conclude; subito il punto d'arrivo si sposta e la complicazione prende il sopravvento, una complicazione che è custodita prima di tutto in quel lessico, duro come una noce, ispido come un porcospino, in quel fraseggio che si chiude su di sé come un costrutto latino che ti scodella il suo segreto nel colpo di coda della clausola.
Dietro a questa scrittura, dietro al racconto che viene dall'esempio, dietro a questa grande retorica del pensare, fatta di luoghi e regioni, di congetture e riflessioni, di sistemi e statuti, c'è un intero continente geografico e storico, album insondabile che a volte affiora come noterella erudita, a volte come giallo poliziesco, a volte come reportage storico, a volte ancora come corsivo inquieto e implacabile. Questo è ciò che distanzia un narratore intimamente siciliano come Sciascia dal ligure piemontese Calvino, cui pure non difetta la matrice illuminista è il piacere del ragionamento.
Ma com'è, o vuol essere, cristallino il ragionamento di Italo Calvino, tanto è imprevedibile nella sua chiusa quello di Leonardo Sciascia (eppure le conclusioni sono tutte contenute nelle premesse). Anche alcuni dei libri che Calvino scrive negli anni '60 sono a dimostrazione, primo fra tutti il suo capolavoro politico, La giornata di uno scrutatore, che chiude il ciclo impegnato della sua narrativa. La differenza tra loro è sancita dalla bella metafora che il siciliano conia per spiegare a Walter Mauro il suo modo di procedere: "Si capisce che nel momento in cui, dopo lunga preparazione e riflessione, comincio a scrivere, l'esempio, il fatto, il racconto mi prende completamente ed è come materia fusa che viene allo stampo. E non sarà magari un'opera perfetta: si sarà verificata qualche bolla, ci sarà qualche vuoto o qualche svenatura, ma sempre dentro lo stampo». Materia fusa e stampo. Ma se la materia fusa è l'esempio, il fatto, allora cosa sarà lo stampo? Calvino, con grande finezza, l'aveva capito. Dopo aver letto la commedia L'onorevole, gli scrive nel 1964 la sua «critica», dove conclude marcando l'illuminismo di entrambi, dubitando sul suo e sottolineando l'illuminismo civile dell'amico siciliano; ma al tempo stesso evidenzia come sotto i pilastri dell'illuminismo di Sciascia ci siano una serie di potenti cariche esplosive (sotto le sue, dice Calvino, ci sono più modestamente «poveri fuochi d'artificio»). Sono «le polveri tragico-barocco-grottesche» che Sciascia ha accumulato e che lui spera di veder saltare in avvenire, in un'esplosione che mandi all'aria la sua levigatezza compositiva: «Vorrei finalmente vedere in faccia il tuo demone; sentire la sua vera voce».
Ma Calvino si sbagliava, la materia fusa dei fatti e degli esempi poteva assumere una forma proprio grazie a quello stampo tragico, barocco e grottesco, che si manifesta prima di tutto nella prosa di Sciascia, uno stampo niente affatto semplice, dentro cui la complicazione dei fatti diviene apparente semplicità del discorso e limpida forma del racconto. Lo stampo è la sintassi a clausola, su cui s'incardina una struttura narrativa ed espositiva sempre ben calibrata ed elegante. Sciascia, proprio in virtù della sua dimostrazione, è uno dei pochi narratori italiani che ha posto grande attenzione ai «modi» del racconto; e senza cadere mai prigioniero degli sperimentalismi, ha sperimentato innumerevoli possibilità per mettere in forma i propri pensieri.
La sua lunga fedeltà ai modi della sua prosa, al suo stile, alla sua maniera, è sancita da una continua dedizione a quello stampo, cui non rinuncia mai, anzi a partire da Il contesto (1971). vero punto di svolta del suo discorso sulla società e la politica italiana, lo approfondisce sempre più in libri che sembrano riportarlo alle sue origini, a quelle Parrocchie di Regalpetra, scettiche, impietose, documentate e intrise di tanta letteratura da apparire secche come un chiodo, paratattiche, come scrisse allora Pasolini, a fronte di un modo ipotattico di pensieri che attendeva ogni volta di trovare il proprio stampo.


“il manifesto”, 17 luglio 1992

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