20.7.14

"Sei del PCI?" (Salvatore Lo Leggio)

Appena trasferito in Umbria, nel Liceo Scientifico annesso al Convitto Nazionale “Principe di Napoli” di Assisi, presi contatto col partito, a Bastia, ove aveva sede il comitato di zona (o di comprensorio, non ricordo bene come si chiamasse all'epoca) e consegnai la lettera del segretario della federazione di Caltanissetta, da cui provenivo. Era la prassi, un po' chiesastica: quando si trasferiva un quadro, anche di basso rango come io ero, la federazione di partito della nuova sede lo prendeva in carico grazie alla lettera di accompagnamento, cui seguiva la richiesta di informazioni riservate sulla sua storia politica e sulle sue caratteristiche. Qualche tempo dopo mi avrebbero chiamato da Perugia per conoscermi di persona: in sostanza una chiacchierata con Nicchi. Che cosa contenesse quell'informativa non l'ho mai saputo e non lo saprò mai. V'erano federazioni affezionate ai metodi di Secchia che sistematicamente e ordinatamente conservavano la documentazione; ma non credo che Perugia fosse tra quelle.
Al comitato di zona di Bastia, in piazza, in un primo piano sopra la vecchia osteria cui si accedeva da una scala esterna, conobbi persone che mi sarebbero state care per sempre: Sergio Belmonti, il funzionario, d'origine mezzadrile, modesto e onesto, leale e intelligente, un “prete rosso” con una laicissima apertura mentale; Mariano Borgognoni, che forse era ancora militare, pur essendo segretario della zona; Enrico Lepri, funzionario in Comune e pilastro della sezione a Bastia; Pronto Celori, il militante più vecchio dal nome curiosissimo, frutto della sua rapidità nel venire al mondo al momento del parto, compagno del 21, licenziato dalle ferrovie dai fascisti; Alberto Stramaccioni, dirigente della Fgci a Perugia, vice di quell'ottimo Gubbiotti che sarebbe morto in un incidente di lì a poco.
Era – credo – il settembre del 1978. Ero lì per preparare il trasferimento dell'intera mia famigliola, oltre che per il mio servizio d'insegnante: Carmela, Leila che aveva sette anni, Davide che aveva dieci mesi. Cercavo una casa in affitto, un posto nell'asilo-nido per Davide. Nubi scurissime si sarebbero addensate subito dopo sulla nostra serenità familiare e la tempesta l'avrebbe definitivamente travolta. Ma non è di questa storia, per me tristissima, che voglio raccontare.
Nelle pochissime settimane di solitaria permanenza in Umbria, esauriti i miei compiti di insegnante e padre di famiglia, passavo tutto il mio tempo con i compagni, soprattutto con Alberto che veniva a Bastia ogni sera per vedere la ragazza di cui era innamoratissimo, ancora studentessa media, la Cinzia che tuttora gli è compagna di vita. Già a quel tempo Alberto era curiosissimo di storia e di storie, specie di storie comuniste. Io ne sapevo tante, del partito siciliano, del partito italiano, del partito russo e del partito cinese e mi piaceva raccontarle a chi non si limitava ad a ascoltare, ma faceva osservazioni e poneva domande. Insomma con il giovane Alberto, talora anche con Cinzia, passavo molte serate.
Cinzia non era della Fgci, simpatizzava genericamente per i gruppi cosiddetti extraparlamentari, non per uno in particolare. Faceva parte dei “ragazzi dei giardinetti” così chiamati dal luogo ove si riunivano a Bastia. Solo pochissimi tra loro aderivano al Pdup o a Lotta continua, ma tutti erano criticissimi verso il Pci nazionale e locale, in particolare verso Lodovico Maschiella, ex deputato e presidente dell'Ente di Sviluppo Agricolo, che da quelle parti aveva un grande seguito e un grande potere. Lo chiamavano “don Mommo Piromalli”. Avevano invece un buon rapporto con il Comune, ove il sindaco socialista, il giornalista La Volpe, era sensibilissimo alle tematiche e alle esigenze giovanili, così come un paio di assessori, donne di grande valore, Rosella Curradi e Mirella Zampericoli (la cui morte prematura è stata dolorosa per me e per molti).
Una sera Alberto e Cinzia mi trascinarono a una festicciola dei “ragazzi dei giardinetti”, un compleanno: niente di che, pizzette, porchetta, un pezzetto di torta. Erano quasi tutti più giovani di me (dai diciotto ai venticinque), ma neanche io ero vecchio, trent'anni, e non parevo fuori posto, visto che non pochi tra loro avevano abbigliamenti assolutamente “normali”. Io ero sempre stato zitto, tollerando i frequenti lazzi sul mio amato Berlinguer (era il tempo della “solidarietà nazionale”), ma a un certo punto una ragazza mi chiese: “Sei del Pci?”. Risposi orgoglioso: “Sì, sono del Pci”. Ma incuriosito aggiunsi: “Come s'è capito?”. Rispose: “Si capisce, si capisce”. Sarà che m'aveva visto arrivare con Alberto, sarà che avevo rifiutato la canna che faceva il giro, sarà che davvero c'era qualcosa che contrassegnava il nostro modo di muoverci e di atteggiarci, ma l'aveva capito.
Di quel tempo e di questa storia mi sono ricordato oggi, per via di quella domanda: “Sei del Pci?”. Io sono del Pci, sono del Pci, anche se è stato sciolto da un quarto di secolo, anche se la sua eredità dilapidata è ridotta a un cumulo di macerie, anche se del Pci ero un militante critico e a volte molto critico, anche se molti compagni di quel tempo hanno fatto una finaccia, anche se metto tra i miei maestri anarchici, socialisti e comunisti diversi da quelli del Pci, eretici. Sono del Pci e orgoglioso di esserlo, perché si deve soprattutto a quel partito di operai e di villani la fine (purtroppo provvisoria) della prepotenza dei ricchi, dell'umiliazione dei deboli, quel tanto di giustizia e uguaglianza che s'è conseguito in questo paese. Presi la tessera della giovanile a 17 anni, nel 1965, quella del partito due anni dopo, nel 67; c'erano una foto di Lenin e il ricordo della Rivoluzione d'Ottobre. Resto del Pci finché campo. E non mi pento.

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