4.7.14

Welfare più Internet. La sinistra secondo Rampini (Roberto Monicchia)

Federico Rampini
Nella lunga carriera di corrispondente internazionale, Federico Rampini ha saputo mettere insieme la curiosità del cronista e il gusto dell’analisi di prospettiva. Queste caratteristiche non vengono meno nel suo ultimo libro (Alla mia sinistra. Lettera aperta a tutti quelli che vogliono sognare insieme a me, Mondadori, Milano 2011), in cui l’esortazione alla ricostruzione della sinistra attinge al reportage, all’analisi teorica, all’intervista.
Il discorso muove dalla definizione della crisi in atto come “grande contrazione”, in cui si intersecano fenomeni globali quali il raggiungimento dei limiti naturali dello sviluppo, una sconfitta storica del lavoro dipendente, lo spostamento del baricentro geopolitico verso est e sud, una poderosa redistribuzione, al contrario, della ricchezza. Se in alcuni punti tale situazione mostra delle analogie con la crisi del 1973 (che chiudeva una lunga fase di sviluppo e di diffusione del welfare) per altri aspetti - come il ritorno del predominio di una élite plutocratica - sembra mostrare le condizioni che prepararono la crisi del 1929, aprendo al rischio di una svolta reazionaria per l’incompatibilità tra capitalismo multinazionale e democrazia.
I deludenti risultati di Obama indicano l’incapacità di fornire un’alternativa di sinistra alla crisi globale. Analogamente a Clinton, Obama ha cercato di promuovere una via d’uscita dalla crisi che non intaccasse il funzionamento dei mercati, usando molta cautela nel limitare il potere della finanza per attuare politiche redistributive. Oltre ai vincoli di bilancio e politici, emerge il portato di trent’anni di egemonia della destra, che hanno diffuso, anche tra i ceti popolari, l’idea che tasse e Stato siano un male in sé e che la libertà assoluta dell’impresa sia il metodo migliore per favorire merito e uguaglianza.
La crisi mostra l’impraticabilità del “liberismo di sinistra”, che per Rampini non è una peculiarità statunitense, le sinistre delle due sponde dell’oceano essendo molto più simili di quanto si creda, come egli stesso ha sperimentato a partire dalla California di fine anni ’70. Insieme all’afflato libertario che nutriva gli esordi della rivoluzione informatica, si affermava in quella stagione quello spirito di rivalsa antistato e antisociale che, impersonato da Ronad Reagan, avrebbe generato la slavina della rivoluzione conservatrice, tra le cui conseguenze vi è anche la difficoltà di rilanciare un’efficace azione pubblica. Il messaggio “pubblico uguale cattivo” è diventato senso comune non solo per la crisi fiscale dello Stato, ma anche per effetto di una gestione inefficiente dei servizi, di cui hanno pagato il prezzo i soggetti che più hanno bisogno di ricorrervi, meno pronti a opporsi alle politiche di detassazione e smantellamento che li ricacciano nella povertà. Nel caso italiano questa situazione è evidente: declino del paese e sconfitta della sinistra devono non poco alla mancata riforma dello Stato.
L’impasse di Obama è dunque per tutti un campanello d’allarme: senza strade alternative l’attuale crisi avrà esiti catastrofici per ambiente, società e democrazia. Solo la sinistra può salvare il mondo, afferma Rampini, ma per farlo deve guardare oltre, tanto in senso geografico quanto in senso politico, sapendo cogliere le sfide e le potenzialità che vengono da fuori dell’area euratlantica, a cominciare dalla Cina. Con tutte le sue contraddizioni essa non è un colosso dai piedi d’argilla: le dimensioni continentali, l’eredità di un’antica civiltà, rendono impossibile “tenerla ai margini”, tanto meno con l’ipocrita argomento dei “limiti dello sviluppo”. La stessa “fedeltà” ai simboli del comunismo va letta sia come strumento per coniugare sviluppo e stabilità (per esempio nella selezione dei gruppi dirigenti), sia come difesa dei ceti medi in crescita, sia infine come promessa di una società meno diseguale per la massa contadina.
Certo essa non può essere presa a modello, ma se un non marxista come Amartya Sen sottolinea il maggiore sforzo redistributivo della Cina rispetto all’India, ciò indica che la superiorità della democrazia rappresentativa è tale solo se si sostanzia di contenuti sociali.
Tra altre esperienze emergenti spicca il Brasile di Lula, che con il nuovo protagonismo della società civile, e una diversa presenza dello Stato, ha saputo usare un’eccezionale fase di sviluppo per ridurre le disuguaglianze sociali, arricchendo i poveri piuttosto che impoverendo i ricchi e rappresentando una delle strade possibili per un rilancio della socialdemocrazia.
Certo, esistono ancora molte contraddizioni, ed è ancora difficile da valutare la capacità dei paesi emergenti (Bric) di conquistare maggiore peso geopolitico. Tuttavia a sinistra è opportuno indagare questi fenomeni piuttosto che attardarsi nell’ennesima contemplazione del “declino dell’occidente”. Anche il modello sociale europeo, infatti, sembra resistere solo nella versione tedesca, con la democristiana Merkel a difendere quello socialdemocratico fatto di redistribuzione e difesa dei posti di lavoro. La sfida degli emergenti pone quindi il problema di una “governance sociale della globalizzazione”, cioè di come articolare una risposta allo strapotere capitalistico che non sia il semplice protezionismo.
Col misto di impotenza e rassegnazione che sembra bloccarla, l’Italia, che Rampini sa guardare contemporaneamente da dentro e da fuori, ha un ruolo emblematico e peculiare allo stesso tempo. Nei confronti dell’Europa, ad esempio, ha sempre oscillato tra indifferenza colpevole e subalternità da ultimo della classe, per cui molte misure vengono adottate solo come frutto di un “vincolo esterno”, di una necessità stringente. E’ esattamente ciò che ha fatto la sinistra nella crisi attuale, nella speranza che i mercati “disciplinino” la politica, con un atteggiamento che può servire nella individuazione dei sintomi della malattia, ma si trasforma in un disastro se usato come cura.
Sul piano dei rapporti internazionali, la stagione berlusconiana ha accentuato il deterioramento geopolitico dell’Italia, che invece potrebbe assumere un ruolo importante di leadership nell’area mediterranea nell’età delle rivoluzioni arabe.
Oltre alle prospettive generali, Rampini cerca spunti per un rinnovamento della sinistra nelle emergenti forme di espressione della società civile: dalla condivisione orizzontale delle conoscenze permessa dalla rete, al ruolo delle imprese start-up, fino alle nuove tendenze filantropiche di alcuni grandi ricchi, tutte indicano la necessità di derogare al declino fatale dell’organizzazione politica.
Insomma, se Lenin, dopo le prime esperienze del potere aveva semplificato la via al socialismo come “Soviet più elettrificazione”, la ricetta di Rampini si può riassumere in “Welfare più internet”. Fuori di slogan, di fronte alla “catastrofe imminente” (sempre per restare a Lenin) occorre adottare forme aggiornate di redistribuzione dei redditi, senza le quali nessuno sviluppo è possibile; a loro volta queste politiche devono poggiare su forme diffuse di attivismo della società civile.
E’ poco? E’ troppo? Non tutte le indicazioni di Rampini sono convincenti, ma colpisce positivamente l’ipotesi che l’esistenza della sinistra sia possibile solo sul piano internazionale e proponendo un modello complessivo di società.


“micropolis” gennaio 2012

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