19.8.14

Colonialismo italiano. Straccioni e cattivi (Giampaolo Calchi Novati)

Nel portare a termine la sua opera in quattro volumi su Gli italiani in Africa orientale, Angelo Del Boca è arrivato con la sua narrazione all'uscita di scena dell'Italia dall'Africa. Il volume conclusivo — dopo tanto parlare di conquiste e di occupazioni — è soprattutto una storia di «distacchi» o se si vuole di «liquidazioni». Il titolo riserva però una sorpresa, se esso corrisponde a una situazione reale e a uno stato d'animo effettivo.
Quest'ultimo volume si chiama infatti: Nostalgia delle colonie (Laterza, 1984). Gli italiani, dunque, non hanno subito la sconfitta con rassegnazione. C'è chi ha cercato di salvare le colonie e addirittura chi si è adoperato per ricostruire qualcosa che assomigliasse a un piccolo o grande dominio coloniale.
Come si spiega un simile atteggiamento, visto che il colonialismo non ha mai avuto in Italia molta fortuna, non ha rappresentato uno sfogo «naturale» a un'eccedenza di capitali o risorse economiche, è sempre rimasto relativamente estraneo alla nostra cultura? E che implicazioni se ne possono trarre quanto alle forme e ai modi con cui gli italiani guardano oggi ai problemi del Terzo mondo?
La storia del colonialismo italiano scritta da Del Boca dimostra che il colonialismo dell'Italia non è stato «qualitativamente» diverso dal colonialismo delle altre potenze. Se mai la differenza è «quantitativa», nel senso che è stato debole, non è riuscito a incidere a sufficienza nella realtà locali, non ha avuto la forza di sopravvivere a se stesso.
Inutile illudersi invece, come spesso in Italia si dice, che sia stato un colonialismo più «buono» o «tollerante»: le violenze sono state efferate anche nelle colonie italiane, un po' in tutte le fasi, anche se ovviamente gli anni del fascismo, in Libia prima e in Etiopia poi, hanno passato il segno.
Ma, tornando alle insufficienze del nostro colonialismo, la considerazione che più conta ai fini di un'analisi della «mentalità» degli italiani nei confronti del mondo che per abitudine o brevità si chiama coloniale (e quando si parla di Italia quest'area è costituita soprattutto dall'Africa e dai paesi arabi), è il prodotto diretto proprio della carenza di mezzi e di motivazioni materiali: il colonialismo italiano era troppo superficiale per potersi riconvertire a tempo debito in neocolonialismo e gli italiani erano troppo poco penetrati nella loro parte di colonialisti per avere un'idea chiara di come ci si dovesse comportare nel momento del riassetto imposto dalla decolonizzazione.
C'è una citazione nel libro di Del Boca che è molto istruttiva. Quando l'Italia ebbe l'amministrazione fiduciaria della Somalia per conto dell'Onu, si apprestò all'opera con spirito teoricamente improntato ai valori di democrazia che l'Italia repubblicana aveva fatti propri e che le Nazioni unite appunto diffondevano nel mondo. Ma gli italiani erano insicuri di sé. Per darsi fiducia senza avere il coraggio di fare pronunce di tipo razzista, ricorsero a un artificio: lo stesso che si ritrova nelle disposizioni impartite dai nostri comandi militari, che invitavano le truppe impegnate in Somalia a comportarsi «in modo che tutti siano perfettamente convinti della certezza della nostra superiorità spirituale e tecnica».
L'esercizio di quell'ultimo squarcio di potere coloniale risultò tuttavia quanto mai approssimativo. La Somalia nacque come Stato indipendente con tali lacune quanto alle istituzioni, all'economia e persino alla configurazione territoriale da avere la sorta segnata. E — paradossalmente — gli italiani non approntarono quegli strumenti che avrebbero potuto e dovuto garantire i loro interessi.
Colonialisti senza forze adeguate e neocolonialisti mancati, gli italiani — questa potrebbe essere la tesi — non seppero cogliere tutto il significato del postcolonialismo. Le comunità italiane residenti in Africa (dalla Somalia alla Libia) furono lasciate in balìa di una politica improvvisata, oscillante fra l'abbandono e poco credibili impennate revansciste. La necessità di un rapporto alla pari fece fatica ad imporsi. Fu possibile solo quando si passò alla nuova dimensione della cooperazione allo sviluppo, utilizzando mezzi e uomini che al limite non avevano nulla a che vedere con la rete delle influenze coloniali, anche se la cooperazione allo sviluppo dell'Italia, così come l'attività imprenditoriale italiana nei paesi in via di sviluppo, si è concentrata di preferenza negli stati appartenenti un tempo all'impero italiano (di nuovo la Somalia, la Libia, l'Etiopica). Con una difficoltà tuttavia, che continua a pesare: la mancata interiorizzazione delle ragioni del colonialismo (e del suo inverso) provoca di tanto in tanto incomprensioni, fastidio, vere e proprie crisi di rigetto.
Si pensi al rapporto profondamente ambiguo che, malgrado tutto, gli italiani hanno con i popoli arabi, destinatari naturalmente di un rapporto svincolato dalle bardature del colonialismo, solo che ci si ponesse veramente in una prospettiva postcoloniale e non coloniale, e che sono invece oggetto di pregiudizi e diffidenze che la cultura dominante ha cercato invano di giustificare.
In effetti, se il colonialismo italiano si è dimostrato poco coerente con i fenomeni «strutturali», anche la «sovrastruttura» culturale — se si vuole usare questa espressione per comodità di argomentazione — rivela tutti i suoi limiti. Indicazioni preziose emergono dal libro di Giovanna Polesello, La letteratura coloniale italiana dalle avanguardie al fascismo (Sellerio, 1984). La Polesello documenta quanto sia stato difficile per la cultura italiana individuare uno «specifico coloniale». Bontempelli, ad esempio, osservava argutamente che non bastava «mettere a Tripoli un'avventura che si potrebbe mettere a Perugia, per aver fatto un romanzo coloniale». Certo Kipling era fiorito in altri climi. E l'imperialismo britannico, non a caso, aveva dietro di sé ben altre spinte. Se alla Polesello interessa rimediare a un peccato di omissione nei confronti della letteratura coloniale (soprattutto dei tempi fascisti, quando fra l'altro il colonialismo era il frutto più che mai di una retorica che si autocaricava), certe conclusioni appaiono omogenee con le risultanze cui approdano anche le ricerche di Del Boca. Fa notare in effetti, a ragione, che è anche per questa strada che si può capire perché, contro ogni evidenza, si sia continuato ad accreditare il mito di un colonialismo italiano «diverso» dai precedenti, più «umano» e «civilizzatore», a costo di condizionare anche le relazioni che con i paesi ex-coloniali sono continuate o sono state impostate dopo la fine del colonialismo.


“il manifesto”, ritaglio senza data, ma 1984

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