20.8.14

Il Bolivar di Garçia Marquez e il mio (Osvaldo Soriano)

Una straordinaria triangolazione: Osvaldo Soriano ragiona con Miguel Garçia Marquez di Simon Bolivar, prendendo spunto dal romanzo del Nobel colombiano sul condottiero dell'indipendenza latino-americana. Una riflessione datata, ma utilissima specie ora che l'America Latina torna al centro dell'interesse mondiale non per la povertà e le feroci dittature, ma per i fermenti di giustizia sociale che la percorrono. Tutto ciò 25 anni fa sul “manifesto”. Che giornale! (S.L.L.)
Simon Bolivar in un disegno di Micheli per "il Manifesto" (1989)
Leggendo El general en su labirinto, l'ultimo suo romanzo, ho avuto la sensazione che il più grande scrittore avesse bisogno dell'americano più illustre per meglio misurarsi con se stesso. Poche volte comunque grandi uomini riescono buoni personaggi narrativi. Garcia Marquez ama dire che i suoi romanzi sono realisti e che quanto vi si racconta succede realmente nella vita dei Caraibi; e per la prima volta tale affermazione non mi sembra esagerata: Bolivar non vola in questo libro come non ha volato mai nella sua vita; le sue truppe non possono marciare settanta anni senza tregua per tornare più giovani di quando partirono, e neppure il generale torna dalla sua morte annunciata.
Per scrivere questa storia, il genio di Marquez si deve per forza contenere ai limiti del probabile, deve obbedire alla geografia, al fallimento estremo dell'uomo che combatté venti anni per l'unità e morì quando era ormai una leggenda a Caracas, a Bogotà, Lima e La Paz. Ciò che si racconta è il crollo del progetto americano. Una biografia finora indicibile di un Bolivar umano: donnaiolo, imbroglione alle carte, incostante e implacabile con i suoi nemici, politico passionale e a volte patetico, sostenuto da una delle donne più straordinarie della sua epoca: Emanuelita Sàenz.
Marquez, come Borges, è già in America un monumento eterno, e non vedo quale interesse abbia potuto avere a far scendere un altro idolo dal suo solenne piedistallo. Coloro che ne criticano la spudoratezza avvertono anche il suo immenso rispetto, la sua ammirazione tenace per il «libertador» della Nuova Granada. Tanta è la sua deferenza verso l'eroe, mi viene di pensare, che concede a Bolivar il privilegio di batterlo sul piano narrativo. Che Dio mi perdoni: Gabo è il più grande di tutti gli scrittori di oggi e non avrebbe dovuto permettere che Bolivar s'immischiasse in un suo romanzo. L'incontro di due colossi richiede sempre il sacrificio ili uno di essi e Garcia Marquez deve averlo imparato rivedendo rincontro culminante tra i grandi generali del sud.
C'è un certo rancore sammartiniano in ciò che vado scrivendo.
Nel 1824, i due liberatori dell'America Latina, Bolivar e San Martin, si incontrarono a Solas, nel Gujaquil, dopo aver guerreggiato dieci anni contro i reazionari. Uno aveva appena fondato la Colombia, liberato mezzo continente da Caracas a Guajaquil; l'altro aveva cacciato gli spagnoli dall'Argentina, Cile e Perù. Dopo questo memorabile incontro, che Jorge Luis Borges tentò di decifrare in un racconto memorabile, San Martin rinunciò al futuro e se ne andò definitivamente in Europa. Non si seppe mai quello che si dissero allora, quali terribili enigmi s'incrociarono in quelle due notti con sottofondo di valzer viennesi in un palazzo della bella Guajaquil.
Ci sono mille ipotesi, ma nessuna interessa, adesso che la storia è stata già fatta. Gli argentini credono che Bolivar fosse ambizioso fino all'inverosimile; gli abitanti dei Caraibi come Garcia Marquez credono che San Martin fosse soltanto il «libertador del Rio della Piata».
È possibile che l'ipotesi più semplice sia quella giusta: il continente era troppo piccolo per due uomini tanto orgogliosi. Il più debole dovette rinunciare; le truppe di San Martin, di stanza a Lima, erano poche e nauseate dalla guerra, stremate dalla fatica, spopolate dalle diserzioni. Bolivar era un politico di buon naso, a volte presidente, a volte dittatore. San Martin era solo un militare di carriera che si era rifiutato di partecipare alle lotto intestine in Argentina e Cile. Ambedue avevano qualcosa di Bonaparte, solo che non c'era nessuno ad aspettarli alla fine del viaggio.
Talvolta, trovandomi tra le alture delle Ande, mi sono chiesto quale fuoco scaldasse quegli uomini dell'indipendenza che attraversavano più volte la cordigliere a dorso di mulo. Non solo i grandi massoni, come Bolivar e San Martin ma anche gli altri, i generali di truppe miserabili, i colonnelli di povere pattuglie, gli azzeccagarbugli e magazzinieri che comandavano eserciti di disperati per combattere contro i fanatici spagnoli educati nelle accademie di Siviglia e Madrid. Coloro che, per loro infinita disgrazia, lasciarono poche tracce nella storia e che avrebbero potuto, oggi, essere i possibili personaggi di una Guerra e pace su scala sudamericana.
Non conosco nei particolari la storia dell'indipendenza, ma più di Bolivar mi piace il tardo José Marti, che compose la Guantanamera mentre combatteva per Cuba. Rimango con Artigas, l'uruguayano indomabile, e con i fratelli cileni Carreras, che San Martin fucilò per dare il potere a O'Higgins.
Mi è più simpatico il dottor Castelli, figlio di veneti, giacobino inopportuno, comandante impossibile che perdette il territorio che più tardi sarebbe passato alla Bolivia per rincorrere curati e redimere indios.
Dubitare di Bolivar e San Martin è altrettanto grave che criticare Garibaldi, che a sua volta combattè nella Brigata Orientale del Rio de la Plata. Per questo credo che Garcia Mar-quez non poteva proporsi una cosa più onesta e audace del resuscitare la vecchiaia prematura dell'uomo che richiamò all'unità continentale, a Panama, e al tempo stesso dire alcune cose all'Europa invasata e prospera di oggi.
«Non cercate d'insegnarci come dovremmo essere, non cercate di fare in modo che siamo uguali a voi, non pretendete che facciamo bene in venti anni quello che voi avete fatto tanto male in duemila (...) Per favore lasciateci vivere tranquilli il nostro medioevo!».
Lo ha detto Bolivar o lo dice Garcia Marquez? In ogni caso questo dialogo con l'improbabile francese Diocles Atlantique, è uno dei momenti forti di El general en su labirinto. Una protesta che tuona contro l'incomprensione di questo fine di secolo di Mercato comune, privo di sensi di colpa e borghese.
La teoria che i giovani popoli d'America fanno oggi, con fatica, quello che l'Europa fece fino al secolo scorso, è stata già esposta da Garcia Marquez nel suo discorso davanti all'Accademia del Nobel nel 1982 e ripetuta tante di quelle volte che mi viene di pensare che l'autore di Cento anni di solitudine non si stanca di chiedere comprensione per quello che molti europei vedono come una semplice esposizione di esotismo o barbarie, da Noriega a Menem, da Ortega a Castro.
E non ha molto torto: il trattamento dell'informazione dei grandi monopoli di stampa riguardo a Panama e il suo «caudillo», al Nicaragua sandinista, a Cuba comunista, all'Argentina peronista, ci fa sospettare, a noi che viviamo in uno di questi paesi, che molte volte si misura con il medesimo metro l'avventura della miseria e il godimento del postmoderno.
Là sanguinaria rivoluzione del 1789, che i francesi festeggiano in questi giorni, ha fondato una nuova epoca nella storia dell'occidente. Visti a distanza, Mirabeau, Danton e Robespierre ci appaiono severi, giusti, eccessivi o grandiosi. Ma, si permetterebbero ai poveri popoli di oggi degli eccessi come quelli? No, senza dubbio, poiché l'idea che i paesi ricchi si fanno del mondo è solenne quanto autoritaria.
Quando ero bambino e iniziavo la scuola, a mio padre piaceva paragonare il nostro potente peso argentino del 1950 con le povere monete d'Italia e Spagna. Le cifre che mi scriveva su un pezzo di carta perché familiarizzassi con i numeri, avevano qualcosa d'inverosimile e per questo ci divertivamo tutti e due: gli italiani che emigravano nelle pampas ai tempi di Miracolo a Milano e Umberto D avevano bisogno di 500 lire per comprare un nostro peso e gli spagnoli che scappavano da Franco, 100 pesetas, o qualcosa del genere.
Per non parlare dei poveri giapponesi che andavano a San Luis o Montevideo per aprire una tintoria in ogni angolo di strada senza che nessuno sapesse di chi fosse stata l'idea che smacchiare pantaloni in Sudamerica poteva rivelarsi un buon affare. Erano tanto laboriosi questi contadini che arrivavano nelle nostre province, che sentivamo per loro un'infinita compassione. E possibile che neanche noi comprendessimo esattamente la dimensione del loro dramma.
«C'è fame in Europa», ci raccontava la nostra maestra che spiegava la presunta generosità di Peron quando mandava carichi di grano gratis alle terre dei nostri padri e nonni. Il vecchio mondo con le sue guerre e carestie, ci appariva alla fin fine anacronistico e dolorante. Come non provare pietà per quella gente che viveva in edifici cadenti, o in appezzamenti di terreno senza servizi, senza elettricità, a volte senz'acqua?
Quell'Europa «barbara» veniva dalla guerra, ma non era stata molto brillante neppure prima di Hitler. Noi che eravamo nati nel nuovo mondo, non immaginavamo che un giorno saremmo stati il simbolo dell'arretratezza, il luogo della fame, il modello della disperazione.
Appunto, dai loro impassibili piedistalli, San Martin e Bolivar vigilavano sull'avventura sudamericana. I nostri dittatori non erano peggiori né più stravaganti di Mussolini. Franco o il dottor Salazar. E tuttavia furono sufficienti due generazioni perché tutto si capovolgesse, come se la felicità di pochi avesse bisogno della disgrazia di altri.
In altri tempi, Bolivar aveva già detto al suo fedele segretario José Palacios: «Siamo sempre stati ricchi e non è mai avanzato nulla». Si riferiva alla sua lunga campagna nella quale perdette la più grande fortuna del Venezuela mentre guadagnava, come pure il suo disprezzato San Martin, ingratitudine e tradimenti. Ma quando riproduce il dialogo, l'autore del romanzo parla di questo sud di fallimenti e guerre che un giorno, alla fine, avranno termine.
Quello di Simon Bolivar è un mondo che iniziò a copiare l'Europa per liberarsi di essa e terminò stretto in un bozzolo di dubbi filosofici e bancari che non gli permisero di esprimere una propria identità.
Forse la rapacità e la cecità delle borghesie che elevarono a idoli i dignitari dell'emancipazione, sono la principale causa di miseria e arretratezza.
Forse da quest'establishment intellettuale provinciale genuflesso verranno le critiche più dure contro il riscatto testuale di un guerriero fondatore che non sarà un appassionante personaggio di un romanzo, ma che aveva bisogno di prendere ancora una volta la parola per dimostrarci che un tempo ci fu chi credette veramente nell'utopia di un'America del sud indipendente, unica e indivisibile.
Sebbene quello fosse un sogno vano e quella di oggi una realtà insopportabile.


“il manifesto”, 25 luglio 1989

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