18.8.14

Seicento spagnolo. Non è tutto oro (Carmelo Samonà)

Francisco de Zurbaràn - L'assedio di Cadice
Agli inizi del Seicento la Spagna è simile a un edificio dall'apparenza splendente, di cui, varcata la soglia, attraversati i primi saloni aperti e luminosi, indoviniamo una struttura interna ancora arcaica, che si restringe fino ad assumere le forme e le funzioni di una rigida architettura conventuale. In quel fasto c'è un che di funerario e di illusorio che ci invita alla prudenza.
L'egemonia politica in Europa, l'immenso impero coloniale, i fulgori della letteratura e dell'arte possono trarci in inganno sui veri contenuti di questa compagine sociale quanto la favolosa ricchezza delle Nuove Indie, che affluisce solo in parte nei forzieri del regno, potrebbe fuorviarci da un apprezzamento esatto dell'economia. Ciò che abbiamo difronte è il gran Secolo d'oro spagnolo. Ma questa definizione rotonda, ormai legittimata dall'uso, sembra attingere la sua forza a un'intima precarietà piuttosto che a un'idea di potere e di conquista. Molto più che nell'età di Pericle o nel grand siècle di Luigi XIV, qui l'immagine dell'oro è fasciata da riverberi oscuri, ferita da un'imminenza di tramonto. E il suo fascino sta nelle contraddizioni: è un impasto di "luce ed ombra", che non emana solo dai capolavori artistici, ma si annida nei modi, negli istituti, fin nei risvolti più segreti dell' intera società spagnola del Cinque e del Seicento.
Così l'ha disegnata, vincendo antiche parzialità ideologiche, la storiografia degli ultimi decenni; e così ce la propone ancora, con qualche variante, uno degli storici francesi più esperti di problemi ispanici, Bartolomè Bennassar, in un' opera apparsa di recente in traduzione italiana (Il secolo d' oro spagnolo, traduzione di Lorenza Ruggiero, Rizzoli).
Siamo, in ogni caso, all'ultima tappa di un cammino interpretativo complesso. Questo paese ha soggiaciuto più di altri, in Europa, a valutazioni di parte e a semplificazioni estreme, talora di segno opposto. Fu preconcetto tenace, di un'ala della storiografia idealistica italiana, quello della Spagna corruttrice del gusto e dei modi di vita, "priva di pensiero e di filosofia", sorda all'incontro con la splendida civiltà dei paesi dominati: esso nascondeva - anche nelle sue espressioni più autorevoli (Croce) - un giudizio di valore interessato e parziale, legato, forse, al risentimento della nostra cultura borghese, di tradizione laica e classicista, verso l'antica dominazione spagnola. In diverso modo, studiosi di parte cattolica - inclini a esaltare, invece, negli ideali dell'impero ispanico la custodia di un patrimonio religioso compatto ed "universale" (culminante nella tensione ascetica degli anni di Filippo II) - peccarono altrettanto a lungo di parzialità, fondando il loro discorso su categorie astratte e insinuando un' unità spirituale di cui i documenti oggettivi non danno conferma.
Confesso che a dispetto di singole aberrazioni ho ritenuto più stimolanti, in anni non lontani, le riflessioni di certa storiografia spagnola d'origine "novantottista", che, affrontando i complessi labirinti della Spagna cinquecentesca, miravano all'approfondimento degli aspetti eterodossi, e della presenza sofferta (e sommersa) delle minoranze etniche. Alludo soprattutto agli studi di Amèrico Castro sugli ebrei "conversi", come protagonisti d'una cultura "rimossa" e, di conseguenza, conflittuale. Quelle pagine mi sembrano tutt' ora di grande intensità, anche se nel frattempo ricerche più documentate (come quelle, fondamentali, di Marcel Bataillon sull' influenza di Erasmo o, più tardi, di John Elliot sull'età imperiale) davano un contributo decisivo alla conoscenza del Secolo d'oro e ai nuovi orientamenti della relativa tradizione di studi.
Certo, Bennassar, esponente della più solida storiografia francese, è imparentato alla lontana col rigore di questi ultimi (e, per la parte spagnola, col metodo "statistico" di Vicens Vives), più che con le teorie etico-esistenziali di Castro. Fondamento del suo libro è quella sorta d'integralismo storico per cui i dati istituzionali, gli indici di frequenza dell'economia e i modi della vita sociale emergono in qualità di testimoni; tutti, in partenza, con uguale intensità e capacità dimostrativa. Pagine come quelle sugli usi della Corte, sui letrados o sulla vita di una piccola città di provincia, si leggono a tratti come un racconto, con la freschezza di fraseggio d'una relazione dal vivo. E i risultati sono apprezzabili anche nel loro complesso. Il fenomeno spagnolo è via via disarmato da ogni tentazione ideologica o sentimentale; ed è ricondotto alla sua identità complessa, di organismo vivente nel quale si confondono i valori "della grandezza, dell' apogeo e del declino", incoraggiando una teoria della decadenza ispanica come itinerario rovesciato rispetto a un' Europa che dà vita alla Riforma protestante, alla Nuova Scienza e alla nascita della borghesia imprenditoriale.
Ma non manca qualcosa a questa singolare immagine? In verità, una così strana convergenza di sollecitazioni opposte, una ricchezza che germoglia sempre a un passo dalla disfatta, un ascetismo che convive con l'intrigo e col culto delle apparenze ci invitano a riflessioni inquietanti, ed esigono dallo storico qualcosa di più che un elegante e ragionato inventario. Forse al quadro disegnato da Bennassar gioverebbe una valutazione più attenta, e più giustamente perplessa, del patrimonio letterario e artistico: che egli chiama in causa più volte, è vero, ma come sorvolandone i contenuti profondi e tenendone a bada i focolai di sofferenza. Un libro come quello di Maravall sulla cultura barocca (recensito tempo fa su queste colonne da Valerio Castronovo) la dice lunga sul risalto che acquistano le forme letterarie in un ambito in cui pure sono emergenti, e magari privilegiate, le implicazioni sociali. Si tratta di testimoni atipici, naturalmente (parlo delle opere, non dei loro autori), ma perciò più intimamente vocati al presagio e alla rivelazione, ex interiore parte, di una determinata mentalità storica.
Pensiamo allo spagnolo medio del Secolo d'oro, così ammantato d'albagia, così tragicamente pervaso di "punto d'onore" e di "purezza di sangue": questa figura patetica e perversa affida la sua immagine al teatro e ai testi narrativi più che ai resoconti degli archivi minori. Opere come il Lazarillo de Tormes, il Buscon di Quevedo e lo stesso Don Chisciotte si leggono come autentici viaggi nella società reale: nella Spagna antieroica delle culture subalterne così come in quella, fastosa e splendidamente futile, dei ceti alti. I nessi riguardano la generalità non meno che i dettagli. Le radici profonde del malessere sociale, persino i germi di quel processo di "disgregazione" politica che accompagna, come in una sontuosa metafora barocca, il vertice della potenza (e di cui Ortega y Gasset fu, agli inizi del nostro secolo, il più lucido assertore) hanno nella letteratura un banco di prova infallibile: una cassa di risonanza che è tanto più schietta quanto più sembra puntigliosa, capricciosa, idealizzante, ironica, distorta.
C'è un drammatico scompenso fra il valore astratto e la fruibilità reale, fra l'impegno e l'utile, in questa società che nel secolo della Riforma e del Rinascimento persegue ideali di ecumenismo cristiano e sogna il perpetuarsi della cortesia e della cavalleria. Ed è un invito all'approfondimento anche in senso antropologico, dopo tante speculazioni e fantasie d'origine romantica. Il geniale anacronismo pensato da Cervantes - la rifondazione di un'eredità libresca dentro una cornice concreta e perfettamente attuale (e dunque la sconfitta, e la gratuità del gesto, come corollari permanenti delle azioni umane) - non poteva darsi in nessun altro paese europeo e in nessun'altra situazione storica. Il primo romanzo moderno nasce dalle cure maniacali per una tradizione estinta. Anche questo fa parte del Secolo d'oro spagnolo e delle sue contraddizioni, e ne proietta il fascino e la curiosa ambiguità fino ai nostri giorni, fino all'epoca del profitto e del trionfo dell'economia produttiva.


la Repubblica,14 dicembre 1985  

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