19.8.14

Zanzotto il lampadoforo (di Andrea Cortellessa)

Amore e morte, per eccellenza, sono i temi della poesia. Uniti in un vincolo tenace, stabile proprio perché soggetto a tutte le metamorfosi, tutte le contraddizioni. Ed è così almeno da quando i fondatori della nostra lingua, nonché della poesia moderna, Dante e Petrarca, hanno avuto in sorte la «grazia ben formidabile» (così una volta, più tagliente che mai, Edoardo Sanguineti) del fatto – storico quanto mitobiografico – che «l’amata muore».
Poeta per antonomasia petrarchesco si è mostrato, sin dagli esordi di Dietro il paesaggio (1951), Andrea Zanzotto. Esibitamente e quasi provocatoriamente, nel tempo del massimo culto per Dante. Così celando quella tensione contraria che nel sistema venoso-arterioso della sua lingua rappresenta appunto Dante: matrice sempre più evidente col progredire dal big bang della Beltà (1968) all’ultimo Conglomerati (2009) – passando per l’ingens sylva della «pseudotrilogia» composta dal Galateo in Bosco (1978), Fosfeni (1983) e Idioma (1986). L’ipersonetto che si staglia adamantino al centro del «gnessulogo», il magma verbale del Galateo in Bosco, è il più virtuosistico monumento alla «forma», spazio «templare» in cui trovare riparo dalla bufera della storia (il Galateo è il libro in cui affiorano i traumi delle Grandi Guerre novecentesche). E dunque a Petrarca, certo. Ma scritto in una lingua «aspra e chioccia», irta e frusciante, che in modo molto più sostanzioso è a Dante che guarda.

Contrari senza sintesi
Quella costituita da Dante e Petrarca è solo la prima coppia dicotomica che struttura quelle che Zanzotto, al momento di raccogliere una prima volta i suoi fantastici saggi letterari, chiamerà le proprie «fantasie di avvicinamento». Presto si affaccerà un’altra coppia di modelli, Artaud e Mallarmé: nel primo individuando «il rifiuto di uscire dalla fisicità, dalla corporeità […]secondo una modalità da chirurgia o addirittura da macelleria»; nel secondo «una spinta all’uscita totale», un’ansia di «dissoluzione del corporeo nel verbale». Astrazione ed empatia, immaginario e materialità, lingua e corpo in Zanzotto si fondono in una stessa ossessione identitaria.
Ogni volta nella psiche zanzottiana si accampano insomma – nell’isterica coazione a definirsi, definendo e ri-definendo ogni volta l’essenza della poesia, della scrittura, dell’esistenza stessa – coppie di contrari che non trovano sintesi, che di continuo si attraggono per ogni volta confliggere. Quella che gli è più connaturata, storicamente parlando, contrappone Ungaretti, «testimone della libertà», a Montale «poeta della necessità». Ma nella sua infinita stanchezza, anche pochi giorni fa – intervistato per lo speciale dedicato da Radio Tre ai suoi novant’anni – Zanzotto ha voluto citare un’ennesima coppia polare che fa sprizzare scintille: Pascoli e Campana.
Amore e morte, si diceva, non possono non essere grandi temi di tutti questi poeti. E invece Zanzotto è forse l’unico grande che non pare parlarne mai. Non c’è «amata» cui si rivolgano carmi e charmes, né viene nominata la di lei o la propria «morte». Ma naturalmente è vero il contrario. Proprio come per l’eros – mai nominato perché intride di sé ogni figurazione, imbibe ogni scorcio, rende ogni aspetto del mondo scivoloso ed esilarante – si potrebbe argomentare che un senso di morte è immanente a ogni poesia, ogni frase di Zanzotto. Non solo per la strenua interrogazione sul trauma storico dietro, o sotto, la coltre cauterizzante del paesaggio (un’«Arcadia» definiva la sua heimat in una lettera a Ungaretti, ma – specificherà in un’intervista tarda, concessami sempre per Radio Tre qualche anno fa – un’«Arcadia horror»: quella topica del teschio che fa capolino nel fogliame… et in Arcadia ego, appunto).

L’abisso dell’innominabilità
Il grande tema del passaggio (cui esplicitamente è dedicato Pasque, nel ’73) si può infatti leggere come messa in scena antropologico-culturale di questo estremo limite del linguaggio che Zanzotto, quasi unico nel nostro tempo, corteggia lungo tutta la sua opera. A rileggere oggi Oltranza oltraggio, grande poesia incipitaria della Beltà e testomanifesto dell’«oltranza» psicolinguistica che da quel momento in poi irresistibile pervade l’opera di Zanzotto, non si può che interpretare così: perfetto equivalente novecentesco, debitamente deformato e deformante, dell’Infinito leopardiano.
Chi dice «io» si rivolge a un’entità innominata, un tu assoluto ma anche «vuoto», che riscrive e trascende i lirici «tu» di Montale […] Unico possibile riferimento di questo tu «vuoto», balbettato da un «io» quasi altrettanto cancellato, sporgentesi sull’abisso dell’innominabilità (questo il senso del riferimento dantesco, al XXXIII del Paradiso), è proprio la beltà. Ossia il nume-entità cui è dedicato il libro introdotto dal componimento: immagine splendente e terribile di una «bellezza» naturale mostruosa e onni-fagocitante, impietrante testa di Medusa e sfinge leopardiana «di volto mezzo tra bello e terribile» (quella del Dialogo della natura e di un islandese, naturalmente). Nei termini lacaniani famigliari a Zanzotto, insomma, assistiamo qui all’incontro col Reale, il nonsimbolizzabile, appunto l’indicibile. Ovvero la Morte. Il non-essere, l’anti-materia orrorosa davanti alla quale tremante si fronteggia, in clima da catastrofe sub-atomica, l’«inconsutile nonnulla», la docile fibra che dice «io».
Tanto si è discusso del balbettio di Zanzotto. Delle intermittenze, degli schiocchi e degli scoppiettii che di continuo frammentano e infinitamente segmentano un dettato, per altri versi, retoricamente strapotente (e a rischio di onnipotenza). È proprio con «l’interruzione», ha scritto Jacqueline Risset su queste pagine il 9 ottobre, che Zanzotto «si avvicina ancora di più alla sorgente stessa del poetare». Creaturale petèl (la pre-lingua del linguaggio infantile, cui Zanzotto guarda con Piaget ma, ovviamente, già con Pascoli) o piuttosto lesione psichica, disturbo post-linguistico, arabesco brut, sgorbio informale paradossalmente estetizzante o sintomo angoscioso di paralisi, di un’incapacità altrettanto paradossalmente fondante (incapacità di dire, così moderna dopo Auschwitz e così postmoderna, ha aggiunto con intelligenza Stefano Colangelo, «dopo l’oblio diffuso di Auschwitz»).
Allignando infestanti alla base del monumento innalzatogli in vita, monumento da parte nostra certo
doveroso ma anche, per lui, così stremante (alla radio la voce di Zanzotto, che una volta deliziava come quella di un senex puer, risuonava ormai strascicata, rotta, catacombale), negli ultimi anni si sono infittiti i distinguo, le impazienze, i frettolosi ridimensionamenti di una generazione di autori sedicenti postnovecenteschi: che non a torto identificano nella sua opera l’emblema più caratteristico di un secolo in cui la poesia ha osato sfidare – lo si diceva – la propria anti-materia: sondando i territori del disturbo, del rumore, persino del silenzio. È proprio questa, negativa, la «sorgente stessa del poetare» cui allude il crepitìo del fuoco zanzottiano. È di fronte a questo lutto del tutto che sorge, ogni volta scandalosa, l’oltranza della lingua: col «piacere del principio» che solo è in grado di interrompere il silenzio e superare il rumore, e che sempre le è connaturato (diceva Zanzotto con le sue formule più folgoranti): principio speranza, anti-entropico «principio resistenza» che ostinato si oppone al dilagare del nulla nelle cose, nel tempo.

Un coraggio che balbetta
Non si può non condividere, allora, il sentimento che con Andrea Zanzotto muoia il secolo troppo breve in cui la poesia ha voluto e saputo osare, precisamente, questo inosabile. All’opera di Zanzotto, che per tanto tempo ci calzava sulla pelle della mente come una guaina perfetta, da qualche tempo abbiamo cominciato a guardare da una certa distanza. Ma in questo modo non ci appare affatto diminuita. Al contrario ci sembra ora come il segno più straordinario, forse, del coraggio espresso da un secolo oggi impopolare (e il perché si capisce: nel tempo del nessun coraggio, della nessuna sfida). Perciò balbetta, questa poesia: perché non esiste coraggio senza aver vinto una paura – e proprio la paura è il sentimento in cui ogni volta ci immerge Zanzotto, e da cui ogni volta ci tira fuori.
La «serachiusascura» del male oscuro dell’io è la tinta profonda, l’aere perso del fondale, lo schermo-paesaggio in cui – quando meno te lo aspetti – balugina a salvazione la «lanternina cieca» di Pasque.
Nel terzo millennio, nella béance «outré» in cui siamo costretti a inoltrarci senza di lui, ci illumineranno ancora a lungo i suoi barlumi, i suoi fosfeni. Quando saremo dominati dalla paura, e lo saremo ancora come oggi lo siamo, non potremo che tornare a guardare a lui, al «dolcissimo padre» che (dice Stazio di Virgilio, nel XXI del Purgatorio) è stato come il servo lampadoforo, colui che avanzando nel buio rischiarava la strada a quanti venivano dopo di lui: «quei che va di notte, / che porta il lume dietro e sé non giova». Sempre nella Beltà, con ironia sferzante Zanzotto si rivolge Al mondo e lo incita a tirarsi «su», a salvarsi da «questo super-cadere super-morire» impugnando il proprio stesso codino come il barone di «münchhausen». Ma è esattamente quanto ha fatto lui, Zanzotto, con tutti noi. E noi, piccoli münchhausen, di questo oggi gli rendiamo grazie.


Il manifesto, 19 ottobre 2011

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