9.9.14

Céline. Una pantomima per non dire il necessario (Carlo Bo)

Solo nel 1987, 35 anni dopo la pubblicazione in Francia, fu edita in traduzione italiana (da Einaudi) la Pantomima per un'altra volta, il primo libro composto da Célinr dopo la prigionia e l'esilio danese. Lo scrittore francese con la Bagattella per un massacro aveva prodotto una invettiva antisemitica, feroce, ma proprio per questo di grande successo al tempo dell'occupazione tedesca e di Vichy. La Pantomima, un delirio in due tempi (1938 e 1944) ambientato a Parigi, è generalmente letta come un tentativo di autodifesa dall'accusa di complicità con lo sterminio nazista. Il “Corriere” ne pubblicò come anticipazione alcuni brani corredati dall'articolo qui postato, di Carlo Bo, che - come si può vedere - non partecipava peraltro all'ambigua rivalutazione di Céline tanto di moda in quei tremendi anni Ottanta. (S.L.L.)
Louis-Ferdinand Céline (foto Meurisse, 1932)
Aveva ragione Albert Béguin quando sosteneva che tutto Celine stava nel Voyage au bout de la nuit (1932) mentre il resto (e in questo resto c'era Mort a credit del 1936) non valeva molto, anzi niente? Il tempo ha provveduto a correggere una sentenza che nella sua severità può essere interpretata soltanto o soprattutto con la figura dello scrittore «engagé» in una serie di pamphlets aberranti, dove si metteva al servizio di idee e opinioni più che ingiuste, mostruose.
La storia è fin troppo nota ma per quanti sforzi si siano fatti — da parte di chi restava fermo alla condanna totale e da parte di chi intendeva contrabbandare con le ragioni dell'arte una posizione ideologica insostenibile — la disputa non è stata ancora risolta. Comunque, la Féerie (Pantomima per un'altra volta) è la prima testimonianza dello scrittore che fa ritorno in patria dopo le fughe, l'esilio, le condanne, anzi è il primo documento di una lunga serie di libri che se non raggiungono il livello del Voyage hanno pur sempre una loro efficacia.
E tuttavia la nostra memoria non è tranquilla, nel senso che risente dei contrasti e delle diverse opinioni della critica, lasciando pure da parte il dossier delle responsabilità morali e politiche assunte dallo scrittore nel suo lungo delirio che ha coinciso con l'annuncio e poi con l'esplosione della guerra. Non è tranquilla soprattutto di fronte agli ultimi avvenimenti, alla storia del processo Barbie con tutto quello che si trascina dietro di fangoso e di vergognoso e soprattutto di «taciuto». Che è un modo di allargare il problema e di tornare fatalmente alla responsabilità dello scrittore, al peso che hanno le parole, anche quando siano — come quelle di Céline — sganciate dalla realtà immediata.
L'unica giustificazione possibile è quella di una macroscopica distorsione psicologica, dove le motivazioni personali, gli odii e i risentimenti vengono presentati come delle verità inoppugnabili. E ancora, in questo sistema di restituzione c'era una parte di inganno, c'era — magari distorto — il bisogno di bruciare il mondo, di fare un falò di tutto per occultare debiti?
E qui torniamo alla letteratura, alla funzione della letteratura, e prima ancora a chiederci se sia lecito uno sganciamento totale dalla verità e la soggezione, se non la deportazione, delle ragioni altrui in una specie di forno crematorio dove le figure dei buoni conoscono la stessa fine di quelle dei rei e dei cattivi. E si dirà che, nel furore e nella rabbia della difesa di se stesso, lo scrittore era costretto a esaltare i toni, a un gioco senza fine di esasperazioni e di esaltazioni. In effetti più che nella prima parte della sua opera, il Céline qui si è sprofondato in un monologo dove i confini fra realtà e fantasia non sono mai visibili, tantomeno circoscritti. Per questo Céline che comincia la sua difesa, la sua prova d'appello (e che durerà poi fino alla morte) sembra più opportuno mettere l'accento sull'abilità, anzi sulla eccezionale prova di esasperazione, concentrarsi sul dato particolare e lasciare da parte le obiezioni, le riserve o, come accade più spesso, i rifiuti di un lettore che nonostante tutto è tenuto al rispetto dei simboli, se non dell'essenza, della verità.
C'è stata poi una diversa suggestione critica e che ormai da molti anni è diventata — almeno così sembra — la regola, un diverso modo di impostare il problema generale. Vale a dire non fare delle scelte, non procedere per esclusioni e ammissioni ma guardare lo scrittore come un continente a sé, un mondo unico e al di fuori di qualsiasi norma morale. L'esaltazione «a contrariis» ha finito per avere il sopravvento e non si sentono più ripetere le vecchie distinzioni né si vedono più disporre argini di protezione.
Qual è allora la strada giusta? Direi che neppure Céline accettava questa visione globale, nel senso che era troppo intriso di spirito polemico, troppo legato nella rete dei risentimenti e delle accuse rovesciate per accettare la beatificazione delle sue posizioni. E chissà che proprio quella sua ostinazione non denunciasse «a guardarla bene» un rimorso, una piccola luce di pentimento. Anche qui mi si obietterà che tali categorie erano estranee alla sua filosofia, al suo canto di disperazione e di negazione, ma come spiegare altrimenti questo feroce inseguimento senza fine delle colpe di tutti e di ciascuno? Cadendo e poi tornando a poco a poco alla vita, era ben distinguibile nel suo delirio di difese e di accuse il bisogno fisico di distruggere tutto e di umiliare l'uomo. Insomma Céline diceva tutto per non dire il necessario e il dovuto, e questo testo non è che il prologo della sua discesa all'inferno, in compagnia dell'intera umanità.


“Corriere della sera”, 24 maggio 1987

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